Osservazioni di "Nuova Secondaria" da Educazione & Scuola del 20/4/2007
Premessa. Art. 33, comma 2 della Costituzione: «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione». Non quindi lo Stato (che è solo una parte della Repubblica: art. 114 della Costituzione), o il Ministero (che è solo una parte dello Stato), o, peggio ancora, qualsiasi commissione di studio nominata dal Ministro (che non è né Repubblica, né Stato, né parte del Ministero). Art. 118 della Costituzione, rinnovato nel 2001: le «norme generali sull’istruzione» prima richiamate si improntano (si devono improntare: un imperativo) al principio istituzionale della sussidiarietà verticale e orizzontale. La prima legge della Repubblica che, a partire dal 1948, ha concretizzato queste precise prescrizioni costituzionali è stata le legge n. 53/03, con i relativi sei decreti attuativi, seguiti tra il 2004 e il 2005. Alcuni di questi decreti attuativi sono stati poi in parte modificati dalla legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato: legge finanziaria 2007) e dalla legge 2 aprile 2007, n. 40 ("Conversione in legge, con modificazioni del Decreto-legge del 31 gennaio 2007 n. 7 recante misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese"). È dunque a questo plesso normativo predisposto dal Parlamento a nome della Repubblica, e in particolare alla loro sostanza, che è necessario riferirsi per esprimere un parere sia sui documenti inviati per la consultazione, sia sulle modalità con cui procedere alla revisione delle Indicazioni nazionali allegate ai dlg. seguiti alla legge n. 53/03.
Parere sul Documento del 3 aprile intitolato "Cultura, scuola, persona. Verso le Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione". Pur tacendo il riferimento alla normativa menzionata in premessa, è del tutto condivisibile nelle parti in cui ne riprende spirito e forma. In particolare, quando ricorda che, oggi, non sono più immaginabili «le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi»; che «la scuola può e deve realizzare percorsi formativi sempre più rispondenti alle inclinazioni personali degli studenti, nella prospettiva di valorizzare gli aspetti peculiari della personalità di ognuno»; che «la definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione»; che «i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato». Non è difficile rintracciare una piena sovrapposizione tra queste proposte e il compito affidato alla scuola e ai docenti dalla legge n. 53/03, soprattutto per quanto riguarda la personalizzazione dell’insegnamento e la predisposizione di piani di studio personalizzati. Il Documento suscita invece perplessità per i seguenti aspetti. a) Anche ad una sua lettura superficiale, mette in evidenza un paradosso. Infatti, mentre continua a riconoscere il valore dell’autonomia della scuola (peraltro prevista da tutta la normativa citata in premessa), allo stesso tempo, tuttavia, smentisce il valore in questione non tanto usando per ben 22 volte nei confronti dell’istituzione scolastica l’ingiuntivo deve (che quando non è ingiuntivo è paternalistico), quanto lasciando trasparire un’ispirazione neoaccentratrice che estende dai quadri culturali e pedagogici a quelli (come si metterà in evidenza) perfino organizzativi. La preoccupazione per questo spirito neocentralistico che, al di là delle parole, riduce l’autonomia ad un sorvegliato e prudente decentramento è aumentata in maniera ancora più rilevante dalla lettura del secondo Documento trasmesso per la consultazione, Documento che si commenterà più avanti. b) Pur presentandosi come un quadro culturale generale per la revisione delle Indicazioni nazionali allegate al dlgs. n. 59/04, il Documento non ha presenti i problemi pedagogici, culturali, epistemologici ed organizzativi specifici della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (scuola primaria e scuola secondaria di I grado). In questa prospettiva, pare più un’esercitazione culturale, valida per una discussione su alcuni problemi generali dell’educazione nella società contemporanea che un testo di orientamento concreto per rispondere a domande importanti tipo: è ancora legittimo, oggi, dopo le maturazioni psicologiche, epistemologiche e pedagogiche intervenute dagli ultimi decenni del secolo scorso, parlare di «campi di esperienza» per la scuola dell’infanzia o di «ambiti disciplinari» nella scuola primaria? Che cosa si deve intendere, e perché, d’altra parte, per scuola «primaria»? Dove trovare la «primarietà»? E quale significato attribuire al concetto di «secondarietà di I grado»: quello presente nella normativa o, eventualmente, un altro, e perché? Se è giusto parlare di un ordinamento disciplinare dei saperi per i docenti, è altrettanto legittimo, e perché e a quali condizioni, parlare di discipline di studio per gli allievi dai 6 agli 11 anni? E è il caso di mantenere un ordinamento disciplinare delle conoscenze e delle abilità nella scuola secondaria di I grado: a quali condizioni? Come intendere e perché, del resto, i commi 4 dell’art. 7 e 5 dell’art. 10 del dlgs. n. 59/04 che dispongono, «fatta salva la contitolarità didattica dei docenti, per l'intera durata del corso», l’identificazione di un «docente in possesso di specifica formazione che, in costante rapporto con le famiglie e con il territorio, svolge funzioni di orientamento in ordine alla scelta delle attività di cui al comma 2, di tutorato degli allievi, di coordinamento delle attività educative e didattiche, di cura delle relazioni con le famiglie e di cura della documentazione del percorso formativo compiuto dall'allievo»? E così via. Sorprende, perciò, che nel secondo Documento, quello più operativo, dando per scontato che alcuni di questi interrogativi abbiano trovato una risposta pedagogica e culturale nel primo, si recuperino come novità semplici riedizioni del passato, come l’organizzazione del curricolo per campi di esperienza per la scuola dell’infanzia (1991) e per ambiti nella scuola primaria (1985). c) L’idea di unitarietà del sapere delineata nel Documento è diversa da quella rintracciabile nella normativa citata in premessa. Nel Documento, infatti, si è attenti soprattutto a definire il contenuto di questa unitarietà. La nuova cultura che servirebbe introdurre nella scuola, si dice, «dovrà diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita – possono essere affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture». Nella normativa citata in premessa, invece, l’accento per identificare il concetto di unitarietà era più posto sul modo personale con cui ciascuno è chiamato a relazionarsi con le conoscenze disciplinari e interdisciplinari che sui contenuti disciplinari/interdisciplinari in sé. Partendo, infatti, dal principio che nella realtà non esistono divisioni tra le discipline o tra ambiti interdisciplinari, perché tutto è unito (olismo) e sottolineando dunque che l’unità è nelle cose, nella stessa realtà personale esperita, e non la si crea con gli interventi anche meglio organizzati previsti dalla scuola e dai docenti, la normativa citata in premessa invitava appunto i docenti e la scuola a tener conto di questa fondamentale consapevolezza e a ricordare, perciò, che non sono i contenuti disciplinari/interdisciplinari a fare unità, e nemmeno i metodi, bensì la scoperta personale dell’unità del reale, a partire dal fatto che uno studente matura davvero come persona umana, nella sua integralità, quando usa i saperi di contenuto e di metodo che incontra nella scuola per elaborare il proprio sapere personale unitario, quello che gli permette di leggere in maniera più penetrante e completa la realtà e i suoi problemi, e di dare loro un senso a volta a volta compiuto. Diverso è, tuttavia, l’accento su questi temi, presente nel Documento. Qui, sembra che siano le discipline e i contenuti insegnati dal docente e dalla scuola a creare e a garantire il valore dell’unità. E ciò è confermato anche dalla proposta di introdurre nei piani di studio nuove discipline (la genetica, la linguistica, l’archeologia, l’antropologia, la climatologia, la storia comparata dei miti…la paleontologia, l’embriologia, l’ecologia, l’etologia, la biochimica ecc.) per studiare meglio e con maggiore completezza i contenuti prima menzionati (il degrado ambientale, il caos climatico ecc.). A parte la non praticabilità dell’ipotesi per la scuola dell’infanzia e per l’intero primo ciclo, ci si domanda, però, se questa impostazione, oltre che rilegittimare un’ulteriore invasività trasmissiva della scuola e dei docenti, non porti comunque anche in ordini e gradi di scuola superiori, più ad aumentare la frammentazione dei saperi, e quindi il disinteresse degli studenti, che la consapevolezza dell’unità della realtà e del sapere personale. d) «Particolare cura deve essere posta alla formazione della classe come gruppo, alla promozione dei legami cooperativi fra i suoi componenti, alla gestione degli inevitabili conflitti indotti dalla socializzazione». Nessuno può contestare che la classe non sia un luogo privilegiato della socializzazione delle persone che compongono le nuove generazioni. Per non attribuire un netto significato regressivo all’affermazione del Documento, tuttavia, bisognerebbe almeno completarla con due specificazioni. La prima è che, nella classe scolastica, la socializzazione è e deve essere al servizio dell’apprendimento personale di ciascuno. La seconda è che non si può smentire in maniera così clamorosa sia l’art. 4 del Dpr. 275/99 sia la normativa citata in premessa, nelle parti in cui, proprio pensando ad un servizio alla persona, sollecitano la scuola anche a pensare ad un organizzazione dell’attività educativa scolastica che superi la rigidità della formula fordista della classe, per giungere alla flessibilità dei gruppi di livello, di compito ed elettivi di classe e di interclasse. e) «Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo». Questa idea che le famiglie abbiano maggiori difficoltà della scuola ad insegnare le regole del vivere e del convivere è non solo, purtroppo, controfattuale, ma anche rischiosa sul piano teorico. Anzitutto, perché sembra adombrare la teorizzazione di una funzione sostitutiva della famiglia da parte della scuola. Ma esclude questa ipotesi, non solo la normativa citata in premessa e altri passi dello stesso Documento, ma, ben più impegnativamente, gli articoli 29 e 30 della Costituzione. In secondo luogo, perché questa idea può incrementare le tendenze autoreferenziali dell’istituzione scolastica. Rischio particolarmente emergente se si legge questo Documento insieme al secondo dedicato alla costruzione del curricolo, nel quale si tace sul ruolo peculiare della famiglia e dello studente. f) L’aspetto più preoccupante del Documento, tuttavia, si ricava da una lettura allo stesso tempo indiziaria e contestuale. Il linguaggio impiegato, la struttura testuale del Documento e i concetti espressi portano, infatti, a ritenere che gli estensori intendano ben distinguere la persona, il cittadino e l’uomo. La persona sarebbe il risvolto privato: a lei appartengono i bisogni, i desideri, le aspirazioni, le diversità, lo stare bene, ecc. È necessario, si ribadisce, che la scuola, per i propri progetti educativi, parta sempre dalla persona e ne metta al centro le esigenze, per l’intera durata dell’età evolutiva. Si può dire che il termine «persona» sia qui impiegato come sinonimo di «individuo». La persona, però, grazie alla scuola, anzi «al sistema educativo», è chiamata a diventare «cittadino», cioè a condividere «quei valori che fanno sentire i membri di una società come parte di una comunità vera e propria», attraverso «la valorizzazione delle diverse identità e radici culturali di ogni studente». Dal risvolto privato si passa, perciò, a quello pubblico nazionale. Al cittadino appartengono le scelte autonome e feconde, la «diffusa convivialità relazionale», l’imparare ad «essere», l’apprendere le «nostre tradizioni e memorie nazionali». Infine, il cittadino è chiamato ad inverarsi in un «nuovo umanesimo»: dalla persona (privata), al cittadino (pubblico nazionale) all’uomo (universale, planetario). L’uomo, quindi, «centro dell’universo», padrone del cosmo e della storia, costruttore del suo mondo e della sua cultura. Una cultura, quella del nuovo umanesimo, che si fonda sulla complessità, che supera la frammentazione delle discipline e dei saperi e che li ricompone in nuovi quadri d’insieme che gli vengono evidentemente offerti dalla scuola. A questa prospettiva, secondo il Documento, si può accedere perché «la scuola italiana» può «rivitalizzare gli aspetti più alti e fecondi della nostra tradizione», fatta di «civiltà classica greca e latina, Cristianità, Rinascimento», «e, più in generale» di «apporto degli artisti, dei musicisti, degli scienziati, degli esploratori e degli artigiani in tutto il mondo e per tutta l’età moderna - nei quali l’incontro fra culture diverse ha saputo generare l’idea di un essere umano integrale, capace di concentrare nella singolarità del microcosmo personale i molteplici aspetti del macrocosmo umano». Due osservazioni a questa impostazione. La prima è di principio. L’idea di persona che affiora dal Documento non è quella presente nei testi normativi richiamati in premessa. La persona di cui si parla nei testi normativi richiamati in premessa, infatti, non è l’individuo privatistico ed autocentrato che poi trova il suo completamento nel trasformarsi in cittadino e, infine, in uomo planetario. Una successione da soteriologia neoilluminista. La persona, nella sua sostanzialità individua e nella sua relazionalità costitutiva, è piuttosto il fondamento e l’autenticazione della cittadinanza e dell’umanità, nel senso che non esistono queste senza quella, sviluppata in modo «pieno» (art. 3 della Costituzione), anche nelle sue dimensioni «spirituali» (art. 4 della Costituzione, comma 2; legge n. 53/03). Cittadinanza e umanità, quindi, esistono solo se si realizza a pieno il valore «persona umana», sulla quale poggiano tutte le manifestazioni della «convivenza civile». La seconda osservazione è culturale e serve a chiarire anche la prima. La normativa citata in premessa, come è poi esplicitato sia nel Profilo educativo, culturale e professionale dello studente a 14 e a 18 anni, sia negli obiettivi specifici di apprendimento delle Indicazioni nazionali, partiva dalla convinzione che l’identità di chi vive nel nostro paese e deve aprirsi all’Europa e al mondo per trasformare il multiculturalismo in interculturalismo, il localismo in universalismo, la parte in tutto, non potesse prescindere da un confronto preliminare con le radici classiche ed ebraico-cristiane della nostra civiltà. Non potesse prescindere da questo confronto preliminare proprio perché sarebbero state queste stesse radici, ed in particolare quella cristiana, ad insegnare all’Europa e al mondo quel concetto e quella pratica della «persona umana» che si riconosce come tale nella misura in cui sperimenta una mai conclusa apertura «ad altro» e «all’altro», tramite il logos.
In questa prospettiva, nella normativa citata in
premessa, il cristianesimo era considerato cosa ben diversa della
cristianità. Questa era la forma storica assunta nelle diverse epoche
dal cristianesimo. Per esempio, si è parlato, sul piano storico, di
cristianità antica, medievale o moderna o contemporanea. Il
cristianesimo, però, non è riducibile ad una delle forme storiche di
cristianità. Semmai le ha più o meno ispirate e dovrebbe continuare ad
ispirarle, proprio per affermare quei valori laici di persona,
democrazia, cittadinanza e universalità che gli sono costitutivi e sui
quali si è peraltro giocata molta parte della storia dell’occidente.
Per questo sorprende che, ora, il Documento taccia su questa
impostazione e impieghi anzi solo il vocabolo ‘cristianità’ per
esaurirla. |