Il nodo della scuola media. di Maurizio Tiriticco, 11/12/2007.
Non ritorno sugli ultimi dati OCSE-PISA e IEA-PIRLS che sono stati già abbondantemente commentati e che segnalano certamente il cattivo stato di salute della nostra scuola, o meglio - come è più corretto dire - del nostro Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione. Sono dati su cui, ovviamente, occorre riflettere in modo più approfondito. In questa sede mi interessa rilevare il divario che corre tra il prodotto della nostra scuola primaria e quello della nostra scuola secondaria, relativa alla fascia di età dei quindicenni: ne risulta che il nostro primo ciclo tiene, e tiene bene, mentre è nel secondo ciclo che emergono serie difficoltà, le quali, per altro, sembrano procedere spedite, e senza alcun ritorno, fino agli studi universitari. Quindi, il nodo - almeno ad un primo livello di osservazione - sembra essere nel passaggio dalla scuola primaria alla scuola media e di qui al successivo biennio. Sono ormai decenni che la dispersione interessa soprattutto le fasce d'età che, grosso modo, vanno dai 14 ai 16-17 anni. Ho sempre pensato - ma con il senno del poi - che l'innalzamento dell'obbligo di istruzione fino ai 14 anni nel '62 non abbia tenuto sufficientemente conto della necessità di rinnovare strutturalmente la nuova scuola media unica (la vecchia media ereditata da Bottai più le scuole di avviamento dell'immediato dopoguerra). Non era sufficiente aprire a tutti la "nuova" scuola senza considerare che vasti strati dei "nuovi" obbligati provenivano da famiglie che da sempre non avevano alcun contatto con la cultura, o meglio con quella cultura che la borghesia postrisorgimentale aveva proposto ed imposto all'intero Paese.
Il dibattito che
precedette la riforma del '62 era tutto centrato sul tema del latino
sì-latino no, inteso come materia discriminante a solo vantaggio di
alcuni obbligati socialmente e culturalmente già connotati. Ed invece
non si considerò affatto la necessità di riordinare i percorsi di
istruzione, sia sotto il profilo degli obiettivi e dei contenuti che
sotto quello metodologico. Le attese della popolazione erano alte,
soprattutto da parte di quei settori che, negli anni del boom,
riponevano nella scuola grande fiducia per l'ascesa sociale dei loro
figli. Erano ormai lontani gli anni del primo obbligo di istruzione,
quando i contadini vedevano nella scuola solo una sottrazione di forza
lavoro! Ebbene, a queste attese non venne data una risposta adeguata.
Di fatto i "nuovi" obbligati andarono incontro a solenni bocciature e
fu solo la Lettera di Don Milani, nel '67, a gridare allo scandalo! Dalla riforma del '62 . . . Il vizio di fondo consistette nel fatto che la "nuova" scuola media - per mille ragioni che non sto a ripercorrere - conservò integralmente sia i contenuti di sempre, fatta eccezione per il latino, sia la sua specificità di primo grado della scuola secondaria. Il che significò essenzialmente tre cose: che non si poteva assolutamente pensare ad una effettiva continuità didattica con la scuola elementare; che i "nuovi" obbligati avrebbero dovuto "piegarsi" ai programmi della media e che mai sarebbe avvenuto il contrario; che la scuola media non avrebbe tenuto in alcun conto l'esperienza delle scuole di avviamento - certe caratteristiche operativo-laboratoriali erano pur sempre interessanti - le quali dovettero assolutamente e rapidamente uniformarsi ai suoi programmi! In effetti, il legislatore non dette vita ad un percorso ottonnale verticale unitario e orientativo totalmente nuovo, ma si limitò ad apportare piccoli aggiustamenti in un percorso che sostanzialmente era costituito di un cinque più tre. Il percorso elementare avrebbe continuato ad erogare quelle nozioni, elementari appunto, che dalla fine dell'800 potevano garantire a ciascun cittadino, o suddito che fosse, il minimo vitale culturale per sopravvivere in un Paese unitario nuovo che si avviava a competere con altri Paesi avanzati sia sotto il profilo della struttura politico-amministrativa che sotto quello dello sviluppo industriale. Ed il percorso medio in effetti era costituito di due percorsi paralleli in quanto, implicitamente, perseguiva una doppia finalità: quella di arricchire e perfezionare le conoscenze elementari di base conclusive dell'obbligo e quella di preparare all'istruzione secondaria di secondo grado. In effetti, nella medesima classe c'erano due tipologie di alunni: quelli che sarebbero usciti dal sistema di istruzione e quelli che invece avrebbero proseguito gli studi. Si trattava di due attese assolutamente diversificate e che non potevano non produrre serie ricadute sugli atteggiamenti verso gli studi e verso la stessa scuola. Tale doppia finalità ha costituito di fatto il vizio di origine, la debolezza strutturale della nostra scuola media. L'attenzione degli insegnanti, sollecitata per altro dai programmi, verteva essenzialmente sulla propedeuticità del percorso medio - sottolineo medio - e non terminale, che avrebbe dovuto essere finalizzato al raggiungimento, da parte degli obbligati, di quelle conoscenze di base che avrebbero permesso loro un inserimento positivo nella società di quegli anni, quindi anche, ma in subordine, il proseguimento degli studi.
Un altro fattore
negativo era dato dalla struttura dell'esame finale di licenza,
d'altra parte previsto dalla Costituzione che, all'articolo 33,
prescrive un esame di Stato alla conclusione di ogni ordine o grado di
scuola. L'esame finale fu avvertito e concretamente realizzato negli
anni non tanto come conclusivo dell'obbligo quanto come promozionale o
meno all'istruzione di secondo grado. Ne conseguiva che una mancata
promozione finiva con il costituire di fatto una esclusione
dall'istruzione, e che una promozione con la semplice sufficienza il
più delle volte era accompagnata con quei giudizi di preteso
orientamento con cui si consigliava all'alunno l'istruzione
professionale o la formazione professionale, se non l'accesso diretto
al mondo del lavoro. . . . ai Programmi del '79 Questa doppiezza, o questa ambiguità, della nostra scuola media non venne corretta né superata con i "nuovi" programmi del '79. E la cosa ci sorprende negativamente, se ricordiamo che gli anni Settanta sono stati per il nostro Paese quelli della "scoperta" della didattica, fino ad allora avvertita solo come terreno esclusivo della "scuola delle maestre"! La svolta allora si poteva operare, perché i tempi lo consentivano, ma non fu così: ancora una volta la scuola media veniva definita formalmente come "scuola secondaria nell'ambito dell'istruzione obbligatoria"... per cui non si sarebbe mai dovuto confondere ciò che fanno i professori con ciò che fanno le maestre! Le modifiche apportate, pur interessanti e significative sotto il profilo metodologico (tutto il punto 3 della terza parte dei programmi è dedicato alle fasi della programmazione), non mettono in discussione né la discontinuità con la scuola elementare né la struttura rigidamente disciplinare. E le modifiche apportate all'impianto dell'esame nell'81 e nell'84 non mettono in discussione l'originaria natura della scuola media.
Sarebbe stato più
interessante percorrere almeno tre strade: superare la dicotomia
elementare-media; aprire a tre aree pluridisciplinari (come si è
venuto maturando con le riforme della scuola elementare nell'85 e nel
'90); passare da un esame fondato su giudizi di valore ad un esame che
- senza giungere ad una modifica costituzionale che avrebbe richiesto
tempi e procedure complesse - certificasse concretamente le conoscenze
effettivamente raggiunte dall'obbligato. Far tesoro del senno del poi Se il senno del poi vale qualcosa, vale la pena fare tesoro dell'esperienza accumulata per rendere produttivo e vincente l'obbligo di istruzione decennale a cui da quest'anno ci stiamo accingendo. Valgano le seguenti considerazioni: abbiamo lanciato un percorso obbligatorio biennale estremamente interessante sotto il profilo della delineazione delle finalità e delle aggregazioni pluridisciplinari. Per quanto riguarda le finalità, abbiamo introdotto competenze di cittadinanza, largamente comuni a tutti i giovani dell'Unione europea, che dovranno essere debitamente certificate. Per quanto riguarda le discipline, abbiamo individuato quattro assi culturali pluridisciplinari comuni a tutti i bienni che dovrebbero garantire l'equivalenza delle opportunità formative. Si tratta di operazioni non semplici: certificare competenze è altra cosa rispetto a valutare apprendimenti; insegnare per assi fondati sull'equivalenza significa mettere in discussione gli attuali programmi dei bienni, contenuti e metodi di insegnamento.
Su tali traguardi,
indubbiamente non facilmente raggiungibili nell'immediato, abbiamo
dalla nostra i tempi: il Regolamento sull'obbligo apre con estrema
chiarezza ad un periodo non breve - sono due anni scolastici - in cui
le istituzioni scolastiche autonome - ed è un aggettivo che va
fortemente sottolineato - sono chiamate ad una ricerca-azione che
metteranno alla prova le loro strategie di insegnamento, pur sempre
coniugate con le indicazioni ministeriali. Tre condizioni per il successo Si apre, quindi, uno scenario del tutto nuovo per il nostro sistema di istruzione obbligatorio, che potrà andare a regime ed avrà successo purché si verifichino alcune precise condizioni La prima riguarda il fatto che, se siamo convinti che dobbiamo dar vita ad un percorso obbligatorio decennale, dobbiamo porre con estrema chiarezza e risolvere la questione della continuità. Sotto il profilo ordinamentale, non ha più senso parlare di scuola primaria, di scuola secondaria di primo grado e di primo biennio dell'istruzione secondaria di secondo grado: già lo stesso accavallamento dei vocaboli crea una sorta di conflitto linguistico e concettuale! Va, tuttavia, considerato che abbiamo dovuto far fronte, ed in breve tempo, ad una duplice e per certi versi contraddittoria esigenza: da un lato l'urgenza di rispondere all'Europa e alle aspettative dei nostri giovani per allineare i loro traguardi formativi a quelli europei, nei confronti dei quali siamo in notevole ritardo; dall'altro la necessità di non scardinare gli attuali ordinamenti con provvedimenti che non potevano essere adottati frettolosamente e che avrebbero rischiato di sconvolgere ulteriormente il nostro Sistema di istruzione dopo il terremoto morattiano. Tuttavia, anche in presenza di un assetto ordinamentale che di fatto non sembra corrispondere tout court alle finalità del nuovo obbligo, è opportuno ricercare la trama di quel percorso verticale unitario decennale che non tenga conto tanto delle scansioni ordinamentali quanto dei reali ritmi di sviluppo di un soggetto in età evolutiva. E su questi ritmi la ricerca pscicopedagogica ci dice cose molto più interessanti di quanto non dicano programmi e/o indicazioni che in effetti rispondono più a necessità ordinamentali che a quelle dello sviluppo-crescita di un soggetto. La seconda condizione riguarda una reale - e non formale - rivisitazione dei percorsi dell'attuale scuola media e degli attuali bienni. Per quanto riguarda la scuola media, le scelte che emergono dalle Indicazioni per il curricolo del primo ciclo costituiscono un ottimo punto di partenza: avere individuato tre aree pluridisciplinari, che già da tempo tracciano il curricolo della scuola primaria, è dirompente per la scuola media, da sempre fondata, invece, su percorsi disciplinari. Occorre insistere sul fatto che le tre aree afferiscono di fatto all'identità personale di un soggetto che cresce, si sviluppa e apprende proprio per raggiungere una precisa dimensione di sé. Se poi consideriamo che gli obiettivi di apprendimento si agganciano ad ampi traguardi per lo sviluppo delle competenze, sembra correttamente tracciata una via larga ed articolata per un curricolo unitario. Per grande approssimazione, possiamo meglio descrivere questo sviluppo/crescita lungo tre aree disciplinari con una rappresentazione tridimensionale. All'origine delle tre rette c'è il soggetto: lungo l'area dei linguaggi il soggetto costruisce il Sé in quanto persona; lungo l'area spazio-temporale costruisce il Sé nel rapporto con gli altri; lungo l'area matematico-scientifica costruisce il Sé nel rapporto con gli oggetti, gli eventi, la complessa fenomenologia del mondo delle "cose". Una "costruzione" equilibrata delle tre rette e delle tre aree da parte del soggetto (in modo che un'area non sopravanzi mai l'altra) è già la prima condizione per quel "successo formativo" al quale ci siamo impegnati con il varo dell'autonomia delle istituzioni scolastiche (dpr/275/99, art. 1). Si deve anche considerare che tale rappresentazione tridimensionale può essere anche adottata per quanto concerne la distribuzione delle otto competenze chiave per l'esercizio della cittadinanza attiva al termine dell'obbligo ottonale. Infatti, anche in questo caso sono state individuati tre vettori: la costruzione del Sé; le relazioni con gli altri; il rapporto con la realtà naturale e sociale. Se la scuola media riuscirà veramente a far propria una strategia dell'insegnare/apprendere per aree più che per discipline, ciò costituirà già un importante passo in avanti. Una terza condizione riguarda la costruzione di una nuova forma di passaggio tra scuola media e biennio. Il modo migliore sarebbe quello di "consegnare" l'alunno al biennio con due declaratorie. Con la prima si certifica quali obiettivi il singolo alunno ha raggiunto. Non parlerei di competenze in questa fase di sviluppo della scolarità, in quanto le competenze che "fanno testo" sono quelle definite dall'Unione europea e che costituiscono il primo livello di uscita dall'intero obbligo di istruzione (si veda a questo proposito la Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 settembre 2006 relativa all'istituzione di un Quadro europeo delle qualifiche e dei titoli di studio). Con la seconda si rende ragione degli eventuali insuccessi e si danno le indicazioni per un necessario successivo recupero. Si tratta di declaratorie che in parte ostano con la tradizionale pratica dell'esame di Stato, ma nulla vieta che gli esiti formali dell'esame siano accompagnati da una documentazione che rifletta le esigenze su esposte.
Da quanto detto, emerge
che la scuola media potrebbe costituire il punto di forza dell'intera
operazione "obbligo di istruzione", sempreché le Indicazioni per il
curricolo diventino veramente ed al più presto il suo nuovo modo di
essere e di operare. Biennio vs bienni? L'ultimo passaggio della mia argomentazione riguarda il biennio. Riusciranno gli attuali bienni, mai finalizzati ad un'istruzione obbligatoria - tranne la breve parentesi di cui alla legge 9/99, precocemente abrogata dalla legge 53/03 - e da sempre istituiti per insegnamenti settoriali - se si vuole - e propedeutici a similari trienni, a raccogliere e vincere la sfida che viene loro lanciata? In effetti, emerge, e per dettato legislativo (si veda il comma 622 della Finanziaria dello scorso anno) una contraddizione in termini: da un lato i bienni non perdono nulla della loro specificità settoriale e della loro propedeuticità; dall'altro sono tenuti a far perseguire ai loro alunni competenze culturali largamente comuni - od equivalenti che siano! - e competenze chiave per l'esercizio della cittadinanza attiva. Viene da chiederci: non si replicherà il medesimo errore che abbiamo compiuto con la scuola media del '62, per di più replicato nel '79? Chiedemmo alla scuola media di concludere l'obbligo, ma anche di anticipare gli studi secondari di secondo grado. Stiamo chiedendo attualmente ai bienni la stessa cosa: di concludere l'obbligo e di anticipare gli studi nei trienni. A mio parere, se una richiesta di questo tipo è giustificata dal fatto che l'avvio di un secondo ciclo completamente riordinato è rimandato all'a. s. 2009-10, il discorso è accettabile; ma, se dovesse avere un carattere permanente, l'obbligo di istruzione nel nostro Paese, il quale per di più dovrebbe essere coordinato con quanto accade nei sistemi di istruzione europei, andrebbe incontro a non poche difficoltà. La questione, a mio avviso, è semplice: se tutti concordiamo sul fatto che nei Paesi ad alto sviluppo l'obbligo deve avere una lunga durata, almeno novennale o decennale - come nel nostro Paese - tale obbligo non può nel contempo soddisfare esigenze "altre" di istruzione. Ovviamente, deve essere salvato il fatto che le competenze culturali e quelle di cittadinanza conseguite sono di tale spessore che consentono a chiunque di proseguire il "suo personale" percorso di istruzione, di formazione, di apprendistato o di lavoro, comunque sostenuto da apporti di formazione, fino ai 18 anni di età e, per di più, nella prospettiva di un apprendimento per tutta la vita. Se non siamo lungimiranti e rimaniamo ancorati ai nostri tradizionali e gentiliani bienni, da quello classico "più formativo" a quello professionale "di risulta", non andiamo da nessuna parte.
La lungimiranza in parte
il legislatore l'ha avuta, anche se sarebbe stata opportuna una
maggiore chiarezza sulla sfida lanciata, sulle finalità e sui percorsi
da intraprendere. Ora tocca alle istituzioni scolastiche e agli
insegnanti. Occorre verificare in quale misura rivisitare i programmi
di insegnamento in modo da avviarli ad essere compatibili con le
competenze che oggi dobbiamo chiedere a tutti i sedicenni di
raggiungere. Si tratta di un avvio, non di un adempimento tout court.
E' evidente che per tanti aspetti la compatibilità non è affatto
scontata. Occorre, quindi, da parte delle istituzioni un lavoro ed una
ricerca-azione intelligenti, che un monitoraggio mirato svolto
centralmente dovrà recepire per condurre a regime un'operazione che
per la prima volta nella nostra scuola non può che procedere in
tandem, prima di andare a regime nell'arco dei due anni che ci siamo
concessi. Due mine vaganti! Due questioni non da poco sono sul tappeto. La prima riguarda il fatto che il recupero dei debiti che, a mio vedere, doveva riguardare solo il triennio, cozza con la necessità di un'attività continua di orientamento e di riorientamento che avrebbe dovuto sostenere il percorso obbligatorio, dando luogo anche a quei passaggi intermedi che vennero adottati con il Regolamento attuativo della Legge 9/99, il dm 323/99. Si tratta delle famose "passerelle" sulle quali a suo tempo discutemmo, studiammo, sperimentammo, prima che la mannaia della Moratti si abbattesse sulla prima esperienza di innalzamento dell'obbligo. E' evidente che con questa disposizione, se costringiamo l'obbligato a "recuperare", rischiamo di non "orientarlo"! E di non aiutarlo a scegliere un percorso triennale anche diverso da quello in cui si è iscritto! E di "scaricarlo" direttamente nella formazione professionale la quale ancora una volta verrebbe di fatto considerata come un percorso di risulta! E quando mai questo percorso diventerà di pari dignità? La seconda riguarda la certificazione. Ed emerge una evidente differenza tra la scelta del '99 e quella del 2007. All'articolo 9 del Regolamento del '99 leggiamo: "1. La certificazione... è rilasciata dalla scuola a ciascun allievo che, a conclusione dell'anno scolastico, è prosciolto dall'obbligo o vi abbia adempiuto senza iscriversi alla classe successiva. 2. Il modello di certificazione è adottato con dmpi e attesta il percorso didattico ed educativo svolto dall'allievo, e ne indica le conoscenze, le capacità e le competenze acquisite mediante idonei descrittori, che devono essere riferiti ai risultati conseguiti sia nel curricolo ordinario sia nelle attività modulari e nelle esperienze, anche personalizzate, realizzate in sede di orientamento, riorientamento, arricchimento e diversificazione dell'offerta educativa e formativa...". Si noti, tra parentesi, come nel '99 si alludesse ad una certificazione a tutto campo, di conoscenze, capacità e competenze, sull'onda delle indicazioni di cui alla legge 425/96 concernente la riforma degli esami di Stato conclusivi del secondo ciclo di istruzione. All'articolo 4 del Regolamento che disciplina il "nuovo" obbligo leggiamo: "La certificazione relativa all'adempimento dell'obbligo di istruzione di cui al presente regolamento è rilasciato a domanda. Per coloro che hanno compiuto il diciottesimo anno di età è rilasciato d'ufficio...". Si tratta di una definizione assolutamente diversa da quella precedente e che crea serie preoccupazioni. In altri termini si afferma che, se un obbligato intende proseguire gli studi intrapresi, non è tenuto a chiedere la certificazione; di fatto, allora, la chiederanno soltanto coloro che usciranno dal sistema di istruzione. Il che significa che tutta l'operazione certificazione si giocherà al ribasso! Per il semplice fatto che saranno gli obbligati "più deboli" a chiederla. Il che avrà anche serie ricadute sugli insegnamenti. Perché un insegnante dovrebbe adoperarsi a far perseguire a tutti gli obbligati le competenze di cui al Regolamento, se poi solo alcuni, e non certo i "migliori" chiederanno di essere certificati? Riusciremo a disinnescare queste due mine vaganti? I tempi ci sono per le necessarie correzioni normative, ma... chi porrà mano ad esse???
Glisso, ovviamente, su
una terza mina vagante, che è lo stato dei nostri ragazzi, oggi, in
una società sempre più complessa e difficile, flessibile e precaria
nel contempo, "liquida", per dirla con Bauman: quello stato di
malessere, a fronte del quale il nostro Sistema di istruzione sembra
essere disarmato. Ed a maggior ragione, questo Sistema deve essere
rafforzato e subito... ma questo è un altro discorso! |