Un Master Plan per l'attuazione del Titolo V.
di Gian Carlo Sacchi, da
Educazione & Scuola del
12/1/2007
Sul finire della penultima legislatura venne
approvata la modifica al titolo quinto della Costituzione, confermata
da un referendum popolare e suffragata da una legge costituzionale.
Tutto in regola dunque, anche se la fretta delle operazioni
parlamentari non aveva fugato tutte le perplessità soprattutto per le
modalità con le quali i vari poteri avrebbero dovuto dialogare tra di
loro. Il dado del federalismo era tratto e ci si aspettava una
equilibrata riorganizzazione del sistema tra centro e periferia, sia
da parte della maggioranza che dell’opposizione, in quanto un’azione
sulle regole fondamentali si poneva in modo trasversale a tutte le
forze politiche diversamente dislocate nei governi territoriali.
Invece il passato esecutivo ha trascorso tutta la legislatura usando
contemporaneamente la leva centralistica per inibire certi poteri
rivendicati soprattutto dalle regioni e quella “devolutiva” nel
tentativo di far passare completamente a livello regionale alcune
materie tra le quali la gestione della scuola. Tale comportamento ha
di fatto paralizzato il sistema scolastico e l’idea di crearne circa
venti modelli diversi è stata, tra le altre, bocciata sempre da un
referendum popolare.
Cambia di nuovo la maggioranza politica e deve rimettere mano a questo
problema che diventa ormai imprescindibile per dare una svolta
all’efficienza ed all’efficacia del nostro impianto formativo. Il
programma politico che ha vinto le elezioni ha in modo convinto posto
il “sistema delle autonomie”, scolastiche e territoriali, alla base
della svolta riformista ed ora attendiamo che si metta mano a
provvedimenti concreti, anche se i primi passi non lasciano trasparire
un grande entusiasmo, per cui le Regioni, all’unanimità, hanno
formulato per prime una precisa proposta.
Se volgiamo un momento lo sguardo agli ultimi dieci - quindici anni
vediamo che tutta la politica scolastica del centro sinistra è stata
contrassegnata da una tendenza a riconoscere l’autonomia delle scuole,
fino ad inserirla nella Costituzione, e quella degli enti locali nella
programmazione e nel governo del settore, ma poi non è mai riuscito
(potuto o voluto ?) a darvi un assetto definitivo. Si pensi al primo
disegno di legge Galloni (1985), alla conferenza nazionale sulla
scuola (Mattarella 1990), alla legge di riordino degli enti locali
(1990), alla riforma della pubblica amministrazione all’insegna della
trasparenza e del decentramento (Bassanini 1997) ed ai decreti
applicativi (1998 – 1999), fino alla modifica della Costituzione.
Tanti tentativi dunque, nessuno andato a compimento, perché il tema
dell’autonomia è stato trattato, anche nel centro sinistra, con
sfumature diverse che poi si sono rivelate di sostanza nell’accedere
alle condizioni per realizzarla ed ancora oggi fanno capolino dietro a
questa o quella iniziativa che pur affermando lo stesso principio di
fatto prendono strade diverse che possono anche intralciarsi.
Le esperienze fin qui maturate mettono in evidenza almeno tre profili
dell’autonomia sui quali non sono state ancora compiute scelte
decisive e nemmeno è chiaro un loro possibile intreccio:
- un’autonomia delle scuole nella loro funzione pedagogico – didattica
ancorata però allo stato nelle sue articolazioni periferiche (vedi la
riorganizzazione degli uffici scolastici provinciali, la gestione
delle politiche statali sul territorio regionale, a cominciare dagli
organici, da parte degli uffici scolastici regionali, la costituzione
dell’agenzia nazionale per la ricerca didattica ed il sostegno
all’autonomia, ecc.);
- un sistema delle autonomie locali in cui è inserita la scuola; essa
è un’autonomia funzionale, come un ospedale, la camera di commercio,
entro poteri di programmazione e di gestione attribuiti alle autonomie
territoriali (regioni, province, comuni, articolazioni costituzionali
della Repubblica);
- l’autonomia è la capacità di corrispondere ai bisogni dell’utenza, è
questa che premia o punisce la scuola attraverso un “patto sociale”
(carta dei servizi, piano dell’offerta formativa).
Andare da una parte o dall’altra significa avere conseguenze sul piano
della elaborazione e gestione del curricolo, sull’organizzazione, o
semplicemente non muoversi in attesa che vi venga detto come dobbiate
fare ad essere autonomi.
Non v’è chi non sappia che le scuole in Italia non sono tutte uguali,
ma prima di trasformare anche la governance in una ideologia di stampo
centralista occorre decidere se l’autonomia debba essere conquistata,
comunque in un rapporto costante centro – periferia o debba essere
riconosciuta (DPR n. 233/98) in un sistema di autonomie territoriali.
E’ l’ufficio del governo che deve aiutare le scuole ad essere autonome
o è la rete locale che all’un tempo valorizza l’azione della scuola e
la tutela come un bene del territorio ?
Il tempo è maturo per compiere una scelta, che va collocata
all’interno delle “competenze concorrenti” tra stato e regioni
indicate dalla Costituzione. E’ la mancanza di una visione politica di
fondo a determinare sovrapposizioni di attribuzioni, conflitti di
poteri, dispersione di risorse. Il nodo centrale del nuovo dettato
costituzionale è come le diverse competenze possono insieme lavorare
per la qualità di un sistema formativo che oggi non comprende più
soltanto la scuola, ma va dalla prima infanzia lungo tutto il corso
della vita.
Il messaggio del master plan delle regioni, oltre le maggioranze
politiche, è che sta nascendo una nuova cultura, policentrica, di
governo, una cultura di sistema tra gli oggetti e i territori; la
scuola e le altre agenzie formative devono costituire il “presidio
pedagogico” locale, è la comunità che dovrà valorizzarne l’azione come
un soggetto che garantisce i diritti di tutti, promuove le persone e
le “colloca nel mondo”. E’ dal crescere dei sistemi formativi locali
che prende consistenza la qualità di un sistema regionale, nazionale e
oggi anche oltre.
Perché proprio le regioni hanno preso l’iniziativa ? Forse qualche
malizioso potrebbe pensare che è ora di guardare anche da un altro
punto di vista, ma sicuramente non per fare del nuovo centralismo
regionalistico, ma per stare a cavallo, come ci dice ancora la
Costituzione, tra l’unità del sistema nazionale e la varietà delle
situazioni locali. Questioni identitarie, demografiche, economiche,
sociali, sono le diverse frontiere sulle quali vengono richieste
risposte efficaci nel breve periodo, dove è possibile un governo per
gli obiettivi comuni ma con modalità flessibili e diversificate, che
valorizzi l’autonomia professionale, faccia crescere e metta in rete i
sistemi locali ed i loro processi di qualificazione.
Fare insieme, stato e regioni, non vuol dire fare la stessa cosa su
porzioni di sistema: licei e istruzione formazione professionale, ma,
come ribadisce il dettato costituzionale, non da ieri, alla Repubblica
le norme generali sull’istruzione, alle quali più recentemente si sono
aggiunti i livelli essenziali delle prestazioni, per poter meglio
garantire i cittadini e verificare i risultati, alle regioni la
gestione “funzionale”, in un’ottica di “federalismo solidale” e di
sussidiarietà.
Autonomia scolastica tra stato, enti locali e mercato, ancora un vaso
di coccio che ha bisogno di veder consolidata una cultura del rispetto
e del sostegno, a cominciare dal riconoscimento della rappresentanza
delle scuole autonome e dall’autogoverno delle stesse. Il fatto che
non si riesca a concludere l’iter di revisione degli organi collegiali
dell’istituto è un sintomo della debolezza di questa cultura; la
scuola autonoma la si guarda da fuori: istituzione, servizio,
funzione, non ancora comunità, “una comunità che interagisce con la
più ampia comunità sociale e civile” (DPR n. 416/74), che si deve
occupare principalmente di saperi, di apprendimenti e di relazioni
sociali. E’ questa comunità la cellula germinale di quella più ampia,
territoriale, è ad essa che deve rivolgersi quest’ultima se vuole
continuare a crescere, valorizzando il ruolo della scuola nel progetto
più complessivo del territorio stesso. Come fa ad esistere una
“pedagogia territoriale” se non c’è un sistema formativo locale che ne
interpreta i valori e rielabora i saperi, ma che sa anche proporre gli
obiettivi e gli strumenti per lo sviluppo.
Un ‘autonomia gestionale è animata dall’autonomia professionale quale
contributo alla progettazione delle politiche formative territoriali.
Che gli insegnanti non siano “masticatori di gerundi” è ormai
consapevolezza diffusa, almeno tra quelli che si considerano
“professionisti riflessivi”, capaci cioè non solo di trasmettere ma
anche di “elaborare cultura” (L. n.477/1973), di coniugare la
tradizione con l’innovazione ed oggi più di ieri di predisporsi al
dialogo interculturale. L’autonomia chiama una nuova professionalità
della formazione che deve poter esercitare il suo ruolo pienamente
inseriti nel contesto in cui opera, pur avendo requisiti e contratti
collettivi definiti a livello nazionale. Le risorse professionali
vanno dunque allocate sul territorio in considerazione delle esigenze
di quest’ultimo e gestite con flessibililità attraverso “organici di
istituto”, in modo che possano interagire secondo un’adeguatezza
progettuale con la realtà locale all’interno di quel servizio che
quanto a standard e livelli di prestazione mantiene un riferimento
nazionale.
Gli oggetti specifici degli organi di governo sono la rete scolastica
e il sistema formativo locale e del personale il curricolo e
l’organizzazione della didattica. Già il DPR n. 275/99 aveva aperto
una prospettiva intrecciata dei diversi fronti dell’autonomia, ma
proprio sul curricolo si è arenato. Anche qui le decisioni da prendere
sono indifferibili, e cioè se lo stato che deve decidere sui traguardi
finali lo fa mantenendo inalterato il controllo sugli oggetti del
sapere
(discipline) oppure se queste sono scelte che possono essere demandate
al livello professionale pur affermando, oltre ai predetti standard, i
nuclei fondamentali dei saperi e le competenze da perseguire e
certificare. Insomma fino a qui il sistema nazionale era ribadito
dall’adempimento al programma centrale, mentre è dimostrato che i
risultati si possono meglio ottenere se si cerca di aderire ad
obiettivi nazionali lasciando però più autonome le modalità di
realizzazione.
Occorre delimitare gli ambiti territoriali entro i quali effettuare la
programmazione dell’offerta scolastica e formativa, anche attraverso
l’istituzione di “poli” che possono prevedere più indirizzi scolastici
e modalità di compresenza con altre agenzie formative e professionali;
ottimizzare l’informazione sul percorso degli allievi attraverso il
potenziamento delle anagrafi degli studenti; ripartire le risorse
finanziarie non solo in base alla popolazione frequentante,
considerando anche i corsi per gli adulti, ma alla quantità e qualità
dei servizi offerti (si potrebbe pensare a finanziamenti aggiuntivi
per quei sistemi che si dimostrano virtuosi in base alle indagini
sugli apprendimenti o al raggiungimento di livelli di prestazione
eccellenti).
A tutto questo le Regioni si devono apprestare con apposite leggi, che
per ora non sono molte, entro la data del 1/9/2009 contenuta nel
masterplan.
Non si può concludere questa carrellata su prerogative e compiti del
sistema delle autonomie in campo scolastico e formativo senza pensare
al sostegno che a questo processo deve essere fornito attraverso la
ricerca e la formazione permanente dei soggetti in campo. Un approccio
democratico deve sollecitare un costante impegno di approfondimento
comune, di integrazione e di crescita; la vera svolta sta nel
passaggio dei poteri, che però non potrà limitarsi al mero
decentramento amministrativo, ma andrà fondato su una elaborazione
culturale e progettuale continua. Per mantenere questo stato di
tensione andranno previsti strumenti deputati alla documentazione ed
alla comunicazione, a far circolare le esperienze, a custodire e
rilanciare costantemente sul territorio il capitale professionale e le
risorse necessarie per l’innovazione, a collegare la realtà locale con
la ricerca, le trasformazioni tecnologiche, il confronto
internazionale, ecc. Si devono costituire laboratori territoriali,
peraltro già previsti per iniziativa di reti di scuole (art. 7 DPR n.
275/99), e già presenti in diverse realtà per iniziativa di enti
locali, ma anche di associazioni e agenzie formative. Insomma il
servizio che viene erogato, per essere di qualità, va continuamente
alimentato, soprattutto in un regime di autonomia, ed anche le
politiche formative territoriali devono potersi mantenere attraverso
una riflessione alla quale operatori della scuola, degli enti locali,
del privato sociale, ecc. contribuiscono, perché la decisione sia poi
adeguata e partecipata.