De-statalizzare la scuola. di Domenico Sugamiele, da Pavone Risorse del 10/4/2007
Il documento redatto dalla Commissione, coordinata dal prof. Ceruti e istituita dal Ministro Fioroni con l’obiettivo di delineare la cornice delle Indicazioni nazionali del primo ciclo, come tutti i documenti sulla scuola prodotti in Italia, è soggetto a giudizi che divergono anche radicalmente. Confesso un mio limite: non conosco il pensiero e l’opera del prof. Ceruti che viene tanto decantata in molti interventi entusiasti e tuttavia non ho remore nel condividere il giudizio positivo sulle sue qualità e sul suo pensiero. Credo, tuttavia, che il documento vada attribuito alla responsabilità politica e non agli studiosi. Assegnarne la paternità anche a Morin mi pare eccessivo anche in considerazione del fatto che le riflessioni dello studioso francese sono ben presenti nella proposta attualmente in vigore.
Il limite del documento
sta, a mio avviso, nella mancanza di chiarezza del mandato che la
Commissione ha avuto e nella fretta con cui la Commissione pare sia
stata costretta a lavorare. Come per il documento relativo al primo
biennio del secondo ciclo, appare chiara la volontà di lanciare il
messaggio che si cambia tutto (per non cambiare nulla), mentre non
sono chiari quali sono gli obiettivi e gli sbocchi. E anche in questo
caso sarebbe un errore addossare alla Commissione la responsabilità di
lavori approssimativi, inconsistenti, superficiali. Lavori che
appaiono più utili a vincere congressi di partiti, presenti e futuri,
che a riformare la scuola. Personalmente potrei non commentare il documento limitandomi a condividere le osservazioni di Bottani e di Tosolini, quando si soffermano su quello che nel documento manca. Tuttavia, spero che possa essere l’occasione per svelenire il clima e affrontare i temi concreti senza delegittimazioni reciproche e fideismi acritici. È singolare, infatti, che anche nell’opposizione politica si siano manifestati due posizioni abbastanza divergenti tra chi esulta sulla continuità e chi contrasta il documento. Posizioni che riflettono una diversa concezione del sistema educativo manifestatasi già nella scorsa legislatura, in particolare sul secondo ciclo ma delle quali, con tutta onestà, non si comprendono le ragioni sia dell’enfasi che della contrarietà.
Il fatto sorprendente è
che un documento modesto, che non aggiunge niente al copioso e
retorico dibattito italiano sul sistema di istruzione, venga visto
come il nuovo verbo, la nuova frontiera dell’educazione,
l’elemento di discontinuità con il passato recente al punto da
scomodare la fine della militarizzazione e del familismo
morattiano. Nel documento non c’è niente di tutto questo.
Condivido la posizione di Bottani: c’è una esasperazione del modello
della personalizzazione e del familismo cattolico.
Mentre nel tanto deprecato modello morattiano, tuttora in
vigore, non si richiama mai la comunità educante e c’è il
tentativo (in gran parte fallito per le abbondanti concessioni al
corporativismo sindacale e al centralismo statale. Altro che mercato!)
di una sintesi con il liberalismo laico e socialista.
Non ho partecipato al
seminario del 3 aprile scorso e, quindi, non sono in grado, se non per
quanto riferitomi, di poter esprimere un giudizio sulle relazioni e
sul dibattito, se ci è stato. L’annuncio della presentazione di un
"documento cornice" alle Indicazioni nazionali mi ha lasciato
indifferente e, con tutta franchezza, non mi aspettavo niente di più e
niente di meno. La svolta non ci poteva essere per il semplice motivo
che non si è proposto di cambiare la logica: la predisposizione di
Indicazioni nazionali che saranno, burocrazie amministrative e
sindacali permettendo, più snelle e meno invadenti ma sempre riduttive
dei margini di autonomia delle scuole. Un limite della fase di
attuazione della riforma della scorsa Legislatura, non dei documenti
preparatori, è stato l’affollamento degli strumenti per la
programmazione delle scuole. Affollamento che si è verificato man mano
che si procedeva nell’implementazione della legge. Come dire che dal
dire al fare c’è di mezzo il mare e a volte anche gli oceani, come è
capitato per l’autonomia.
Mi chiedo allora: quale
è il rapporto tra il documento cornice della Commissione
insediata dal Ministro Fioroni e il Pecup? E cosa c’è in più e in meno
nel nuovo documento rispetto al Pecup? A volte pare che i giudizi sui
documenti siano espressi senza aver letto i documenti stessi e altre
volte appaiono forzatamente manipolativi. Nel documento Fioroni «le
finalità della scuola devono essere definite
a partire dalla
persona che apprende..
con l’unicità
della rete di relazioni che la legano alla famiglia
e agli ambiti sociali» e «le strategie educative e didattiche devono
tener conto della
singolarità di ogni
persona,
della sua articolata identità, delle
sue capacità
e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.
Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i
suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, ..etici, spirituali».
E quando fissa i principi della "nuova cittadinanza" afferma che una
linea formativa della scuola è data dalla «necessità di un’attenta
collaborazione
fra la scuola e
gli attori extrascolastici con funzioni a vario titolo educative:
la famiglia in primo luogo». Ed ancora: «la
scuola deve costruire un’alleanza educativa con i genitori ;.. si apre
alle famiglie».
Un secondo oggetto è l’unità di apprendimento. Può darsi che ci sia qualcosa da perfezionare, da discutere ancora ma si tratta con tutta evidenza del tentativo (uso a proposito il termine tentativo per evidenziare la necessità di coniugare riforma e processi di innovazione) di passare dalla centralità delle teorie dell’insegnamento a quelle dell’apprendimento. Cioè, se ho capito bene, il superamento del disciplinismo che qualche amico, come Raffaele Iosa, auspica. Facciamo un esempio per capirci: come si risolve la complessità (?) e la frammentazione dell’orario sotto riportato? Sono i bambini complessi o siamo noi che per i nostri interessi corporativi rendiamo loro la vita complessa? Si tratta dell’orario reale a cui sono sottoposti bambini di una classe quinta di scuola primaria. Nella settimana, aggiungiamo, vedono alternarsi ben 7 (sette) maestre. Quali strumenti mettiamo in essere per modificare questo spezzatino? E non mi si dica, per favore, che è frutto della Moratti. Il sindacato è d’accordo a modificare questa impalcatura ginnasiale nella scuola primaria? Nelle classi del ginnasio tradizionale avrebbero lo stesso numero di discipline, due laboratori e un insegnante in meno.
Un altro oggetto,
sicuramente parziale e non perfetto (per i credenti la perfezione è
solo in Dio e i per i non credenti, come chi scrive, un obiettivo a
cui tendere) è il Piano di studi personalizzato. Cioè il tentativo di
superare la teoria dei curricoli, strutturati sulla sequenzialità e
sulle discipline, per approdare ad un sistema che, dovendosi coniugare
con una programmazione per competenze, dovrà fare i conti proprio con
la complessità dei rapporti scuola-extrascuola,
disciplinare-interdisciplinare, aula-laboratorio, formale- informale,
invertendo la logica del curricolo secondo cui prima si formano le
conoscenze e poi si applicano. È compatibile, infatti, la teoria dei
curricoli con la programmazione per competenze? Chiederei ai novelli sostenitori del modello della complessità come si concilia questa loro enfasi con quanto propongono, in particolare, per il secondo ciclo: un modello nel quale prima si studia in modo disinteressato, poi si applicano questi saperi a quelli professionali e poi, forse, si lavora. Nel seminario del 3 aprile scorso mi è stato riferito che Berlinguer si sia dissociato da questa impostazione, criticando alcune relazioni, e prendendo anche le distanze da Gramsci proprio sull’istruzione disinteressata. Condivido. Quei tre oggetti che ho evidenziato prima saranno sicuramente imperfetti ma rappresentano dei terreni di discussione sui quali sarebbe stupido non confrontarsi per migliorarli ed eventualmente cambiarli. Ed è stata fuorviante la fanfara acritica e l’opposizione dissennata che la sinistra politica e culturale, con lodevoli eccezioni, ha fatto e continua a fare a questi strumenti. Non cito il problema delle funzioni tutoriali e delle modalità con le quali è stato abrogato il tutor perché rischierei di essere scortese. Sarebbe stato più utile e corretto avviare una fase di sperimentazione che cercasse di coniugare i processi di innovazione con la riforma, magari lasciando l’armamentario legislativo sullo sfondo, e tentare una apertura di dialogo nel Paese. Invece pare che sia prevalsa, fin dal primo giorno di insediamento di questo Governo, la ricerca spasmodica di lanciare messaggi rassicuranti a quanti non vogliono cambiare nulla e nel contempo cercare di accattivarsi alcuni attori sociali attenti ad un finto cambiamento, alcuni settori cattolici in particolare. D’altronde le burocrazie amministrative e sindacali sono molto attente e lavorano alacremente perché la notte passi affinché nulla cambi. E questo avviene indipendentemente dalla vicinanza o lontananza delle stesse con il Ministro e la coalizione di Governo di turno. La modestia del documento non sta nelle cose importanti che pure afferma ma nel fatto che le sapevamo già, che da circa venti anni sono oggetto di riflessione. In questo sito, come ricorda Tosolini, sono stati affrontati abbondantemente ma c’è anche una copiosa letteratura di matrice liberale e liberal socialista, mi sia consentita questa civetteria. Non vorrei apparire narcisista ma in un libro appena pubblicato scritto con Palermo, Tosolini ed altri, affronto questi temi in relazione allo sviluppo dell’autonomia. Si possono richiamare Rawl, Bernstein, (e le analisi che Benadusi ci propone su questi autori e sui temi dell’autonomia e della complessità da circa venti anni), Raffaele Simone, ma anche Bobbio, Visalberghi, Calogero e Proudhon sulla centralità della persona. Ma a cosa servirebbe? Nella seconda metà degli anni Ottanta i socialisti hanno posto, proprio sulle analisi del liberalismo anglosassone, all’attenzione del Paese i problemi che i mutamenti profondi dell’organizzazione delle società ponevano al nostro sistema educativo: la teoria dei meriti e dei bisogni. Un’analisi che dal punto di vista laico e con l’aggiunta del merito assomiglia alla complessità che si enuncia nei commenti al documento ma che, per miei sicuri limiti, non riesco a vedere nello stesso.
Durante
l’implementazione dei documenti della riforma, Maurizio Tiriticco ha
contestato un documento che, a suo dire, aveva stravolto la
Costituzione: si trattava di un periodo che riportava, fuori dal
virgolettato del testo costituzionale, giustizia al posto di
eguaglianza e, se non ricordo male, Maurizio contestava anche il
principio della "eguaglianza delle opportunità", intendendo questa
come un frutto "avvelenato" della destra. Su questo tema si sono
esercitati abbondantemente anche i lavoratori della conoscenza
contestando che il principio di "libertà e giustizia" potesse
essere sostitutivo di quello di "libertà e eguaglianza". Mi
ricordo che ho invitato, in privato, l’amico Maurizio a leggere
Eguaglianza e Libertà di Bobbio. Bobbio afferma che «mentre
libertà ed eguaglianza sono termini assiologicamente molto
diversi,.. il concetto e anche il valore dell’eguaglianza mal
si distinguono dal concetto e dal valore della giustizia..
tanto che l’espressione "liberta e giustizia" viene spesso
usata come equivalente dell’espressione "libertà e eguaglianza"»
ed ancora che «volendo coniugare i due valori del vivere civile,
l’espressione
più corretta è "libertà e giustizia"
anziché "libertà ed eguaglianza", dal momento che l’eguaglianza
non è di per se stessa un valore ma è tale soltanto in quanto sia una
condizione necessaria,..».
Questo è il punto: quale
modello di società e di Stato abbiamo in mente. La costruzione di uno
Stato liberale che prende spunto anche dalle matrici liberal
socialiste o qualcosa d’altro. Oggi non pare che la sinistra abbia
sciolto questo nodo e abbia individuato i valori dietro i quali
riorganizzarsi e questo è un limite grave per la democrazia del Paese
nel suo complesso. Dal dire al fare c’è di mezzo il mare. E il mare nel nostro Paese è un grande oceano denso del peggiore corporativismo.
In conclusione e in
primo luogo bisognerebbe decidere, oltre le retoriche, se il
cambiamento è necessario e in questo caso verso quale modello di
società ci si incammina. Nel nostro Paese si è ormai consolidato un
atteggiamento di continua delegittimazione dell’avversario a
prescindere dal suo pensiero. La collocazione di ciascuno è motivo di
delegittimazione reciproca che arriva a mettere contro le piccole
frontiere di riformisti che si trovano nelle parti avverse. E ciò
porta alla totale impossibilità di conoscere la realtà perché sovente
si cerca di manipolarla a proprio uso e consumo. È quanto ha fatto
questo Governo, caro Iosa, sulla spesa. Un atteggiamento che non aiuta
a risolvere i problemi: quello che tu auspichi sul cambiamento nella
gestione degli organici superando il modello della classe (che mi pare
essere un obiettivo fondamentale dell’autonomia) è già scritto nella
legge finanziaria del 2002. Disposizione che ha portato al ricorso
della regione Emilia-Romagna e alla sentenza della Corte
costituzionale del 2004. Norme sugli organici rimaste inattuate per
una opposizione durissima (anche con la militarizzazione delle
piazze e la violenza del linguaggio) e sentenza sul federalismo
scolastico alla quale non è stato dato seguito anche e soprattutto per
volontà e opposizione degli stessi soggetti istituzionali che l’hanno
provocata.
Cosa c’entra Don Milani
con la sinistra arroccata sullo statalismo e sull’organizzazione
burocratica, per fare un esempio? Raffaele Iosa è un carissimo amico
che stimo e apprezzo e per queste ragioni mi permetto di chiedergli
senza fronzoli linguistici (che peraltro non saprei usare): se
la marcia a Barbiana avesse come messaggio principale quello del
riconoscimento della piena libertà educativa, della scuola privata e
del suo finanziamento pubblico valuterei la possibilità di partecipare
alla passeggiata. Don Milani, in una lettera ad Aldo Capitini,
chiedeva proprio un intervento in questo senso, ritenendo la scuola
cattolica (addirittura!) superiore alla scuola statale. |