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Degli OSA, delle UA, dei PSP ed altre amenità,

ovvero dalla strategia del curricolo

alla strategia del… nulla!

di Maurizio Tiriticco, 6/3/2006.

 

I pasticci avviati dalla cosiddetta riforma Moratti in ordine alla innovazione metodologico-didattica sono enormi! Ma, perché si possa dare un quadro completo di quanto è accaduto, è necessario fare un passo indietro ed esaminare – in rapida sintesi – come veramente si sono succeduti gli avvenimenti. Si tratta di passaggi di cui il lettore, passo dopo passo, deve tenere il debito conto! 

La stagione dei Programmi ministeriali: dalla Liberazione agli anni Sessanta
La Costituzione del ’47 afferma che “la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione” (art. 33). Afferma anche che “la Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni” (art. 114) e che “le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (art. 115). Ed ancora: “La Regione emana per le seguenti materie norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni” (art 117). Nell’elenco delle materie di competenza regionale figurano anche l’istruzione artigiana e professionale e l’assistenza scolastica.

Com’è noto le Regioni – escluse quelle a statuto speciale, che godettero fin dal ’48 dell’autonomia – furono istituite solo molti anni più tardi, e solo con leggi mirate degli anni Settanta furono loro trasferite le competenze relative alle loro  materie.

Dall’assetto costituzionale del ’47 derivava che le norme generali sull’istruzione, di competenza statale, si traducessero in Programmi ministeriali, prescrittivi per tutte le scuole della Repubblica. Quei programmi contenevano, a seconda del grado e dell’ordine di scuola, principi di carattere generale, un sommario elenco di contenuti di insegnamento relativi alle diverse discipline e quadri orari settimanali.

Giova anche ricordare che il precetto costituzionale dell’articolo 34, “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, venne attuato soltanto nel ’62 con la Legge 1859 che istituiva la scuola media unica obbligatoria triennale come proseguimento del quinquennio elementare.

 

La stagione della programmazione curricolare: dagli anni Sessanta al 2000
Dagli anni Sessanta l’intera scuola vive una stagione assolutamente nuova. L’avvio della cosiddetta scuola di massa richiedeva una revisione profonda sia dei modi dell’insegnare che dello stesso assetto legislativo. Don Milani con la Lettera a una professoressa del ’67, le lotte operaie e il movimento studentesco del ’68 reclamano nuovi modelli di scuola. Con i decreti delegati del ’74 si avvia il processo di democratizzazione delle istituzioni scolastiche. Con una serie di provvedimenti del ‘77 (le leggi 348 e 517 rinnovano contenuti e criteri valutativi della scuola dell’obbligo) e del ’79 (nuovi programmi della scuola media) si introduce la strategia della programmazione curricolare.

Con questa si comincia ad infrangere la rigidità dei Programmi e si affermano alcuni principi assolutamente nuovi, a cui i consigli di classe ispirano la loro azione:

a) la rilevazione e l’analisi, nella fase iniziale dei processi di insegnamento/ apprendimento, dei concreti livelli di partenza degli alunni;

b) la definizione di obiettivi di apprendimento che tengano conto sia dei livelli iniziali degli alunni che degli obiettivi indicati dai programmi;

c) la scelta di contenuti disciplinari e pluridisciplinari, di metodi, mezzi e tempi che favoriscano il raggiungimento degli obiettivi da parte del più alto numero di alunni;

d) l’adozione di una pratica valutativa che investa tutte le fasi del processo dell’insegnare/apprendere e che non si limiti più soltanto alla certificazione finale. Si tentò, insomma, di introdurre nell’insegnamento pratiche scientificamente fondate che la ricerca educativa era andata elaborando nel corso degli ultimi anni in Italia e in tutti i Paesi ad alto sviluppo.

Su questa strada si riformano anche – pur con le diverse necessarie accentuazioni – la scuola elementare (i nuovi programmi dell’85 e i nuovi ordinamenti del ’90) e la scuola dell’infanzia (gli Orientamenti del ’91).

L’innovazione, però, non raggiunge, a livello legislativo, la scuola secondaria di secondo grado, e va sottolineato che ogni tentativo al riguardo, reiteratosi più volte nel corso di più legislature, non è mai giunto alla approvazione finale del Parlamento. Tuttavia, una serie di interessanti sperimentazioni (ricordiamo, a solo titolo indicativo, il Progetto ’92 per l’istruzione Professionale, l’Area di progetto per l’Istruzione Tecnica, i Programmi Brocca), molte delle quali passate ad ordinamento, modificano profondamente contenuti, metodologie e ordinamenti dell’istruzione secondaria. Di fatto, non si sarebbe giunti alla riforma dell’esame di Stato (legge 425/97), con l’amministrazione Berlinguer, se queste sperimentazioni non avessero costituito un fertile humus per l’innovazione.

Gli anni Novanta sono anche contrassegnati dall’avvio del processo della cosiddetta “privatizzazione” della pubblica amministrazione e dei servizi. Questi, in seguito all’ampliamento della partecipazione democratica e all’innalzamento del tenore di vita, sono chiamati alla “soddisfazione del cliente” più che alla puntuale applicazione della norma. Sono gli anni in cui vengono emanate le Carte dei servizi pubblici (sanità, istruzione, comunicazione, gas, elettricità,…), con cui questi dichiarano gli impegni che assumono, gli obiettivi che perseguono, le verifiche che effettueranno nonché le procedure dei richiami del “cliente”. Lo schema di riferimento della Carta di servizi scolastici è del giungo ’95.

Altri provvedimenti aprono la strada alle autonomie, sulla base dei nuovi indirizzi istituzionali avviati dalla legge delega 59/97. Con il dlgs 112/98 sono trasferite alle Regioni e agli Enti locali competenze in ordine alla programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale. Nel ‘99 viene varato il Dpr 275, con cui viene regolata quell’autonomia delle istituzioni scolastiche istituita dall’articolo 21 della citata legge.

Con l’amministrazione Berlinguer si considerò che erano ormai maturi i tempi per una impresa che avrebbe dovuto rinnovare l’intero sistema di istruzione, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado.Si giunse così a quella legge 30/2000 la quale, però, non solo non riscosse l’incondizionata approvazione della scuola militante, ma – com’è noto – verrà poi abrogata dalla legge 53/03, meglio nota come riforma Moratti. Vanno comunque ricordate alcune innovazioni legislative di quegli anni: la legge 9/99, con cui ai innalzava di un anno l’obbligo di istruzione (anche questa abrogata dalla legge 53/03), la legge 62/2000 sulla parità scolastica, gli articoli 68 e 69 della legge 144/99, con cui si istituivano l’obbligo formativo fino ai 18 anni di età e i corsi postdiploma IFTS.

Si è trattato di un cammino lungo e difficile sul solco di quelle indicazioni costituzionali che hanno sempre costituito la chiave di lettura per attuare qualsiasi rinnovamento in materia di istruzione. E’ un cammino in cui, sulla base dei cambiamenti profondi che si sono verificati nella società e nell’economia nei cinquanta anni successivi alla Liberazione, si è sempre tentato, pur tra mille difficoltà, di adeguare il sistema di istruzione alle esigenze del sociale. 

 

La stagione delle autonomie: il novellato Titolo V della Costituzione
Il 2001 segna una profonda svolta nella vita della Repubblica. L’ampliamento continuo della democrazia e lo sviluppo delle istituzioni rappresentative e decisionali sul territorio hanno imposto un riordino della stessa Costituzione in modo da dare applicazione concreta a quei principi autonomistici che non solo erano nelle intenzioni dei Padri costituzionalisti, ma anche nella stessa Carta del ’47, che all’articolo 5 recita: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i principi e i metodi della sua legislazione all’autonomia e al decentramento”.

Agli inizi del Terzo millennio quei principi costituzionali erano giunti a maturazione. Quindi, era giusto e opportuno riformare quella Seconda parte della Costituzione che riguarda l’ordinamento della Repubblica.

Con la legge costituzionale 3 del 2001 si giunge a questa attesa riforma. Nella prospettiva di un futuro assetto federale della Repubblica, per quanto riguarda il sistema di istruzione, la legge conferisce:

- allo Stato la legislazione esclusiva in materia di:

a) norme generali sull’istruzione;

b) determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che i percorsi di istruzione e formazione devono assicurare perché siano garantiti sull’intero territorio nazionale i diritti civili e sociali dei cittadini;

- alle Regioni la legislazione concorrente in materia di istruzione, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, e la legislazione esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale.

Con il nuovo assetto derivano due ordini di adempimenti, assolutamente nuovi, per quanto attiene alla legislazione statale.

1. Le norme generali sull’istruzione di competenza dello Stato non possono più configurarsi come i Programmi ministeriali di un tempo. Con l’attribuzione di nuovi poteri alle Regioni e, soprattutto, con il riconoscimento costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, lo Stato deve limitarsi a dettare, di fatto, delle Indicazioni nazionali (le Regioni hanno competenza ad emanare le Indicazioni regionali). Mentre i Programmi ministeriali sono totalizzanti e interamente prescrittivi, le Indicazioni nazionali dovrebbero essere, appunto, delle indicazioni “leggere”, centrate su standard di apprendimento, sulla delineazione di massima di percorsi, per lasciare alle scuole l’autonomia delle scelte curricolari nelle specifiche situazioni territoriali. Del resto, lo stesso Dpr 275/99 all’articolo 8 già prelude in materia di curricoli ciò che è di competenza a) del Ministero, b) delle scuole, c) degli Enti locali. Insomma, mentre fino agli anni Novanta le scuole erano tenute soltanto ad “amministrare” Programmi, con la riforma costituzionale, in materia di istruzione, sono tre gli attori che devono operare, lo Stato, le Autonomie locali, le Autonomie scolastiche, ciascuno con le sue responsabilità e tutti e tre in una interazione sistemica.

2. E’ una disposizione assolutamente nuova che lo Stato sia tenuto a determinare i Livelli Essenziali delle Prestazioni che le singole amministrazioni e i pubblici servizi sono tenuti ad erogare. Tale norma non esisteva nella Costituzione del ’47 in quanto era lo Stato stesso, fortemente centralizzato, autoreferenziale – se si vuole – che provvedeva alla erogazione di servizi “uguali” su tutto il territorio. Dopo la riforma costituzionale, nella misura in cui lo Stato “si ritira”, “dimagrisce” – come si suol dire – si preoccupa, però, che non si producano disuguaglianze tra Regione e Regione e tra cittadini e cittadini.

Per quanto riguarda le competenze delle Regioni, il novellato Titolo V si limita ad indicare che queste:

1. esercitano la legislazione concorrente con lo Stato in materia di istruzione, comunque sempre nel rispetto del “principi fondamentali” che si evincono dalla legislazione ordinaria statale. Di fatto, tale indicazione significa che, tranne le norme generali, di competenza statale, e tranne la progettazione e realizzazione dei curricoli, di competenza delle istituzioni scolastiche autonome (nel contesto di cui all’articolo 8 del Dpr 275/99), la progettazione territoriale dell’offerta formativa, l’amministrazione e la gestione delle istituzioni scolastiche sono di competenza delle Regioni;

2. esercitano la legislazione esclusiva per quanto attiene l’istruzione e la formazione professionale. Qual è la lettura corretta di questa disposizione? Alle Regioni viene assegnata una competenza più ampia rispetto a quella di cui alla  Costituzione del ’47. Le Regioni sono, oggi, enti equiparati all’ente Stato, assumono pertanto importanza e responsabilità maggiori. Aumenta, pertanto, la loro competenza in materia di istruzione, e l’intero ambito dell’istruzione più vicina al mondo del lavoro può e deve essere da loro gestito e amministrato con piena competenza.

3. Occorre anche considerare che, sempre sulla scia del decentramento e della prospettiva federalista, è nato un nuovo organismo, istituito con il Dlgs 281/97 (uno dei decreti applicativi della legge delega 59/97), la Conferenza Unificata Stato-Regioni, di fatto un tavolo di concertazione tra enti diversi della Repubblica che hanno pari dignità e competenze legislative autonome. Vi sono materie sulle quali su questo tavole sono tenute a confrontarsi Stato e Regioni: ad esempio gli Standard Minimi Formativi dei percorsi dell’istruzione e della formazione professionale.

 

L ‘avvento dell’amministrazione Moratti
In seguito alla riforma della Costituzione, era doveroso per il governo della nuova legislatura, dopo le elezioni politiche del 2001, avviare un processo legislativo di adeguamento costituzionale. Per quanto riguarda l’istruzione, il ministro Moratti colse tale occasione per dar vita ad un nuovo processo di riforma globale dell’intero sistema di istruzione e formazione.

La parola d’ordine della nuova amministrazione, com’è noto, fu il “punto e a capo”. Si dichiarava esplicitamente che il processo di innovazione continua che aveva caratterizzato tutta la nostra scuola dal ’48 agli anni Novanta non aveva sortito nulla di positivo e che occorreva ricominciare tutto da capo.

Tra le molte criticità del nostro sistema di istruzione, soprattutto se in relazione con i più avanzati sistemi europei, figuravano il rapporto insegnanti-alunni di uno a dieci, i costi complessivi molto elevati, l’assenza di un sistema di valutazione. Ma la criticità più evidente era data – e lo è tuttora – da una dispersione massiccia e assolutamente intollerabile, soprattutto nel passaggio dalla scuola media al grado superiore. La cause di questo malessere sociale furono ritrovate essenzialmente in una pretesa rigidità del sistema: secondo la nuova amministrazione, la scuola boccia ed esclude perché non è capace di dare risposte adeguate ai bisogni formativi dell’utenza; occorre, quindi, ricominciare da capo e dar vita ad una scuola flessibile capace di leggere i reali bisogni formativi degli alunni, o meglio di ciascun alunno, e di dare a ciascuno risposte mirate.

 

La liquidazione della strategia dl curricolo
E dove era la pretesa rigidità del sistema di istruzione, secondo i consulenti del ministero? Nella strategia del curricolo! La programmazione educativa e didattica sarebbe stata proposta agli alunni come una sorta di camicia di forza che, invece di aiutarli ad apprendere, li avrebbe costretti a percorsi prefabbricati e rigidi che non tutti sono capaci di intraprendere e superare! In effetti, un valido sostegno a questa tesi venne offerto alla nuova amministrazione dai cosiddetti “postprogrammatori”, da quel movimento che, a mio avviso, incapace di leggere le risorse offerte dalla strategia del curricolo, proponeva alle scuola strade alternative. Ma una corretta strategia curricolare ha il suo fondamento proprio su di un’attenta analisi dei bisogni effettivi degli alunni sui quali soltanto bisogna costruire i percorsi di apprendimento. Se in talune situazioni questi principi non vennero adottati, la responsabilità non è della strategia, ma dei loro esecutori, forse non sufficiente formati da un’amministrazione mai tempestiva all’aggiornamento dei suoi dipendenti.

In effetti, la strada che si doveva seguire per rendere più flessibili i percorsi formativi non era quella di gettare a mare questa strategia, ma di favorirne una più feconda e mirata attuazione. E va anche detto che le cause della dispersione non vanno soltanto ricercate nella insufficienza del sistema di istruzione, ma anche e soprattutto nella insufficienza di quei servizi sociali che dovrebbero sostenere il sistema. Il fatto è che la nostra scuola è sempre sola ad affrontare difficoltà che vanno ricercate anche in altre direzioni, in un contesto sociale che non solo lascia alla scuola tutte le responsabilità di educare, istruire e formare, ma che lancia e veicola a profusione messaggi profondamente diseducativi.

La strategia del curricolo costituisce tuttora uno dei traguardi più avanzati che la ricerca – e la pratica – educativa ha proposto negli ultimi decenni. Comunque, non va fatta alcuna difesa di ufficio, e se la ricerca propone qualcosa di più avanzato, ben vengano nuove proposte!

Ma è proprio qui che la nuova amministrazione ha mostrato il suo punto debole! Era chiaro che si dovesse gettare a mare il curricolo! Ma non era affatto chiaro in che cosa consistesse la nuova proposta! Analizziamone i principi fondanti.

 

Dell’ologramma e degli OSA
Il punto nodale della nuova proposta è la personalizzazione, un concetto che ha una apparenza rivoluzionaria (c’è tutta una filosofia a monte degna di tutto rispetto!), ma che, per la nostra scuola – almeno per la nostra scuola dell’obbligo post nuovi programmi (’79 e ’85) – ha già la sua degna e piena collocazione nella teoria del curricolo. La centralità dell’alunno non è una invenzione del nuovo corso morattiano, è stata sempre un asse della nostra scuola, almeno dell’infanzia e dell’obbligo a partire dagli anni Settanta!

Altro punto centrale del nuovo corso è l’ologramma, che per altro costituisce anche una interessante suggestione di Edgar Morin! Il fatto che una parte rimandi al tutto e che il tutto rimandi a una parte non è affatto una cosa nuova in ordine sia ad una corretta strategia del curricolo che a quella progettazione modulare pluridisciplinare che ne discende. Non c’è elemento di una progettazione curricolare che non venga costantemente confrontato, corretto e riscritto nel complesso insieme degli altri elementi.

Da questa riscoperta personalizzazione e dall’ologramma discende tutto l’apparato pedagogigico-didattico del nuovo corso morattiano.

Ma seguiamo testualmente l’impianto teorico e procedurale del nuovo corso come ci viene scritto e descritto per ben quattro volte quattro, senza nessuna virgola di più e di meno, nelle quattro Indicazioni nazionali quattro (infanzia, primaria, secondaria di primo grado, licei).

Uno dei punti centrali della proposta morattiana è costituito dagli Obiettivi Specifici di Apprendimento. Già qui si avverte una prima criticità, e non da poco! Vediamo il perché.

Nell’articolo 8 (definizione dei curricoli), comma 1, punti a) e b) del Dpr 275 del ‘99 si legge che è compito del Ministro definire gli “obiettivi generali del processo formativo” e gli “obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni”. I due ordini di obiettivi rimandano a quegli standard di apprendimento che dovrebbero costituire il volano di ogni attività formativa.

Con la riforma costituzionale del 2001 uno degli adempimenti più importanti della legislazione dello Stato, come abbiamo visto, è – accanto alle norme generali sull’istruzione – la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) che devono essere erogati dai pubblici servizi.

Le Indicazioni nazionali recepiscono questo disposto e recitano in tal guisa: le tabelle degli obiettivi specifici di apprendimento “hanno lo scopo di indicare con la massima chiarezza e precisione possibile i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini per mantenere l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione e di formazione”: il tutto è testuale!

 

Gli obiettivi formativi, ovvero la moltiplicazione dei pani?
Ne  consegue che gli OSA, nella nuova edizione, non sono gli obiettivi che gli alunni devono raggiungere, ma costituiscono gli ingredienti di cui le scuole dispongono per le loro attività. Giuseppe Bertagna esemplifica l’operazione con la metafora del cuoco (in Lavorare sulla riforma, “Scuola Secondaria”, n. 10, 2005): “Un conto sono gli ingredienti che, secondo lo Stato, non possono mancare negli scomparti disciplinari della dispensa-magazzino di ogni scuola e di ogni docente, un altro i piatti formativi che la scuola e i docenti sono chiamati a cucinare per gli allievi”. Compito delle scuole e dei docenti è, quindi, quello di passare dagli OSA agli Obiettivi formativi personalizzati, che costituiscono, così, un terzo ordine di obiettivi. Va considerato che di Obiettivi formativi si parla nell’articolo 13 del citato DPR 275/99, obiettivi che vengono lì ripescati per giustificare questa sorta di trimurti morattiana!

Con tale operazione l’amministrazione Moratti coniuga insieme “pezzi” del Dpr 275/99 con le esigenze imposte dal nuovo assetto costituzionale. Balza subito agli occhi una differenza di fondo e non da poco. Gli OSA che, secondo la lettura del Dpr 275/99 – prima della riforma costituzionale – dovrebbero essere standard di apprendimento, dopo la riforma costituzionale diventano Livelli Essenziali di Prestazione a disposizione delle scuole. Emerge una domanda: e gli standard di apprendimento, cioè quei traguardi che le scuole dovrebbero impegnarsi a far raggiungere ai propri alunni che fine fanno? La risposta è semplice! Nessuna! Di standard di apprendimento non si parlerà più! Con il malinteso concetto di personalizzazione, ciò che conta sono gli Obiettivi formativi personalizzati, non gli OSA!

Tutto l’asse dell’insegnare/apprendere viene completamente stravolto  rispetto alle scelte di cui alla strategia del curricolo. Con questa strategia possono e debbono essere personalizzati al massimo i percorsi, proprio per tenere nel massimo conto i reali livelli di partenza degli alunni, ma gli obiettivi terminali costituiscono un traguardo uguale per tutti. Con il nuovo impianto metodologico, invece, sono personalizzati non solo i percorsi, ma anche gli obiettivi! I traguardi proposti agli alunni non sono gli OSA, ma gli OFP, o meglio gli obiettivi formativi personalizzati, costruiti su misura per ciascun alunno! E che ne sarà dei saperi e dei saper fare dei nostri alunni? Ovviamente, con il differenziarsi, il frammentarsi, il moltiplicarsi degli OFP – ce ne saranno di tutti i tipi: il menù offerto dalle scuole sarà molto ricco! – saranno tutti promossi! La dispersione sarà senz’altro abbattuta sotto il profilo formale, ma… che ne sarà dei risultati reali della nostra scuola, in termini di quelle competenze che ormai tutti i sistemi di formazione e lo stesso mondo del lavoro reclamano?

 

Le istruzioni per l’uso
Ma ancora più orripilante appare la consegna metodologica che viene affidata agli insegnanti. “E’ compito esclusivo di ogni scuola autonoma e dei docenti, nel concreto della propria storia e del proprio territorio, assumersi la libertà di mediare, interpretare, ordinare, distribuire ed organizzare gli obiettivi specifici di apprendimento negli obiettivi formativi, nei contenuti, nei metodi e nelle verifiche delle Unità di Apprendimento, considerando, da un lato, le capacità complessive di ogni studente che devono essere sviluppate al massimo grado possibile e, dall’altro, le teorie pedagogiche e le pratiche didattiche per trasformarle in competenze personali”. Si tratta di una graziosa concessione alla libertà di insegnamento?!

Ma vediamo i passaggi successivi.

Il primo riguarda la definizione degli obiettivi formativi: l’identificazione degli obiettivi formativi può fondarsi sulla diretta esperienza degli allievi o ispirarsi direttamente al PECuP (Profilo educativo, culturale e professionale di uscita) e agli OSA.

Il secondo riguarda l’articolazione del percorso. L’hard core è dato dalle Unità di Apprendimento. E qui il buio è assoluto! Leggiamo testualmente: “Le Unità di Apprendimento, individuali, di gruppi di livello, di compito  o elettivi oppure di gruppo classe sono costituite dalla progettazione:

a) di uno o più obiettivi formativi tra loro integrati (definiti anche con i relativi standard di apprendimento, riferiti alle conoscenze e alle abilità coinvolte);

b) delle attività educative e didattiche unitarie, dei metodi, delle soluzioni organizzative ritenute necessarie per concretizzare gli obiettivi formativi formulati;

c) delle modalità con cui verificare sia i livelli delle conoscenze e delle abilità acquisite, sia e quanto tali conoscenze e abilità si sono trasformate in competenze personali di ciascuno.

Ogni istituzione scolastica, ogni gruppo docente, deciderà il grado di analiticità di questa progettazione delle Unità di Apprendimento”. E non è finita qui! “L’insieme delle Unità di Apprendimento, effettivamente realizzate, con le eventuali differenziazioni che si fossero rese opportune per singoli alunni, dà origine al Piano di Studi Personalizzato, che resta a disposizione delle famiglie e da cui si ricava anche la documentazione utile per la compilazione del Portfolio delle competenze individuali”.

Il linguaggio non è affatto chiaro e meno chiare sono le istruzioni di lavoro. In un ppt prodotto da collaboratori del Prof. Bertagna (Corso di formazione CISEM, Milano, 13 febbraio 2004) si legge esplicitamente che le UDA non hanno nulla a che fare con le Unità Didattiche. Testualmente leggiamo:

“Per l’UD è la disciplina che viene suddivisa in fasi logicamente concatenate le quali, unitariamente, compongono il lavoro annuale programmato dal docente; l’UD è un ‘tassello’ del programma, è una parte dello sviluppo intrinseco della disciplina e della sua logica epistemologica.

“Per l’UA, invece, il punto di partenza è l’alunno, o il gruppo di alunni, e soprattutto i suoi, i loro problemi e i bisogni formativi. All’inizio quindi non c’è la disciplina come valore in sé, bensì l’allievo e i suoi problemi che, per essere risolti e ricevere un’attribuzione di senso e le opportune spiegazioni, esigono il coinvolgimento mai di una sola disciplina, ma di tutte quelle necessarie”.

Il tutto è assolutamente da contestare! Non è vero che l’UD è la disciplina spezzettata in tanti tasselli. Se così fosse, gli ostinati – e un po’ ignoranti! – detrattori del curricolo avrebbero pienamente ragione. Non è neanche vero che l’UD abbia come referente una sola disciplina. E’ vero, invece, che l’insieme di più UD, afferenti ad un percorso di apprendimento debitamente individuato e definito nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi finali, è una “costruzione” ex novo di più tappe di tale percorso, in cui sono centrali almeno quattro fattori:

a) i livelli di partenza del gruppo alunni di riferimento;

b) gli obiettivi, finali e/o intermedi

c) i contenuti pluridisciplinari (ciò non toglie, comunque, che un’UD contempli anche una sola disciplina);

d) i criteri di verifica che si intendono adottare e i livelli di accettabilità.

Di fatto, la struttura di una UD replica a livello micro quello che il curricolo propone a livello macro. E, se è vero che un curricolo, se è veramente tale, non è mai eguale ad un altro curricolo, pur perseguendo i medesimi obiettivi, così non ci può essere una UD eguale ad un’altra UD. E questo con buona pace di tutti quegli editori che da sempre si sono prodigati a proporre alle scuole UD prefabbricate, come ora si prodigano a proporre UA ad abundantiam!

E quando i nostri detrattori affermano che, per l’UA, il punto di partenza è l’alunno e che la disciplina non deve avere un valore in sé, dimenticano anche – o non l’hanno mai saputo!? – che ormai da anni con il varo dei Nuovi programmi (’79, ’85) nella nostra scuola dell’obbligo la disciplina è in primo luogo uno “strumento” una “occasione” di educazione, non un fine!

Ma i “nuovi maestri” fanno altre avventate affermazioni: “Le UD vengono definite nella fase di programmazione all’inizio dell’anno scolastico o dei periodi intermedi. Per le UA vale, invece, un'altra impostazione. All’inizio dell’anno scolastico, l’équipe dei docenti, alla luce della situazione e dei bisogni formativi degli allievi e delle famiglie, fa una ipotesi di lavoro di massima, che adatta e sistema in itinere: l’UA è completa solo alla fine”.

A questo punto non comprendiamo più nulla! Il fatto che l’UA si completa solo alla fine è assolutamente risibile! Se si vuol dire che una azione didattica subisce – e deve subire – nel suo sviluppo tutta una serie di aggiustamenti in funzione del fatto che insegnare e apprendere è un processo mai chiuso in se stesso, siamo d’accordo: ma già l’UD, che attiene alla progettazione curricolare, contiene tutti i margini della correggibilità. E infine, solo le UA effettivamente realizzate finiscono nei Piani di Studio Personalizzati di Pierino e di Gianni e il tutto va a riempire gli scatoloni dei Portfoli delle competenze individuali.

Siamo all’insegna della moltiplicazione! Migliaia di OFP, migliaia di UA, migliaia di Portfoli e… tutti tra loro assolutamente incomparabili! Le bella festa della scuola per tutti secondo la Moratti!

Ma ciò che sorprende, meraviglia, ed in effetti offende è che, mentre da un lato si allarga a dismisura la borsa del “fai da te”, dall’altro poi arrivano a pioggia le prove dell’INValSI a guastare la bella festa.

 

Le competenze inesistenti…
L’impianto morattiano insiste molto sulle competenze, che ora sono individuali, ora personali: A parte le questioni di lessico, di quali competenze si parla? Chi le definisce? Chi le individua? Chi le certifica? In base a quali criteri? Le individua l’insegnante? Da alcuni passi dei “nuovi maestri” sembrerebbe di sì! Ma questa scelta non provocherebbe una moltiplicazione di competenze – ad ognuno le sue? – tutte accettabili, ovviamente, ma assolutamente avulse da un discorso di standard? E la cosa è estremamente importante soprattutto per l’istruzione secondaria di secondo grado, la quale deve commisurare le competenze che propone e persegue anche e soprattutto con profili professionali e preprofessionali che hanno un loro ubi consistam anche a livello europeo, e che periodicamente vengono rivisitati e riscritti.

Insomma, tutto questo bailamme morattiano ha comportato e comporta grandi confusioni non solo nelle pratiche quotidiane dell’insegnare-apprendere, per il fatto che ai docenti si toglie una linea strategica confortata da anni di lavoro e da una forte credibilità scientifica metodologica, ma anche nei traguardi conclusivi della valutazione, intermedia e finale.

 

…e la valutazione “fai da te”
Per quanto riguarda la valutazione intermedia, è inutile ricordare tutto il gran pasticcio della “scheda fai da te” su cui sono stati ormai versati fiumi di inchiostro. Ma la ricaduta grave è sulla valutazione finale. Le Indicazioni nazionali si esprimono chiaramente. “Le scuole organizzano per lo studente attività educative e didattiche che hanno lo scopo di aiutarlo a trasformare in competenze personali le seguenti conoscenze e abilità disciplinari”: è l’epigrafe che introduce le tabelle degli OSA, distinti in conoscenze e abilità disciplinari.

Orbene, alla fine di questo primo anno scolastico investito dalla riforma, le scuole erano – o meglio sarebbero state – tenute a certificare le competenze individuali realizzate da Pierino e da Gianni ed aspettavano una indicazione in merito da parte del Miur. La CM 85 del dicembre 2004, con cui si sono varati i nuovi modelli di “scheda fai da te” lo dice esplicitamente al punto 4 del paragrafo C: “Questo Ministero si riserva… di offrire modelli di certificazione in cui possano essere indicate le conoscenze, le competenze, le abilità acquisite e i crediti formativi riconoscibili, compresi quelli relativi alle discipline e alle attività realizzate nell’ambito  dell’ampliamento dell’offerta formativa o liberamente scelte dagli alunni e debitamente certificate”.

Le scuole hanno atteso invano e questo primo anno scolastico della riforma epocale si è chiuso senza che si certificasse nulla! Ma la cosa non ci sorprende: Nel momento in cui si getta a mare una scelta strategica certa e consolidata – anche se ovviamente non priva delle sue difficoltà – quale quella della strategia del curricolo in forza di una proposta che non sta né in cielo né in terra, questi sono i risultati!

E le cose andranno ancora peggio quando si avvierà il secondo ciclo, se passeranno le Indicazioni nazionali fotocopia di quelle del primo ciclo! Il fatto è che con la certificazione delle competenze che avviano o agli studi ulteriori o al mondo del lavoro non c’è assolutamente da scherzare!

A meno che non ci si liberi presto dei dilettanti allo sbaraglio che fino ad ora non hanno prodotto che guai!

 

Prospettive non edificanti
La questione del secondo ciclo non è affatto cosa da poco. In primo luogo vanno sottolineate due circostanze:

a) il novellato Titolo V si limita ad individuare due ambiti di competenza legislativa e decisionale, uno per lo Stato, l’altro per le Regioni. La scelta della Moratti di leggere il Titolo V in quanto prescrittivo di due percorsi formativi distinti non è conforme con il disposto costituzionale e addirittura lo distorce;

b) tanto meno è scritto sulla nuova Costituzione che al compimento dei 14 anni di età (di fatto !3, se si considerano le preiscrizioni) un soggetto debba scegliere l’uno o l’altro percorso. Si tratta di due scelte operate con la legge delega 53/03 sulle quali, ovviamente, sarebbe opportuno ritornare con provvedimenti abrogativi e correttivi.

Le Indicazioni nazionali relative al secondo ciclo replicano stancamente e senza alcuna “fantasia” quelle degli altri tre cicli di istruzione. Tutte le critiche che sono state mosse alle precedenti Indicazioni, che per altro – ricordiamolo – hanno a tutt’oggi ancora un carattere transitorio (si veda il Dlgs 59/04, artt. 12, 13, 14; tale transitorietà non è ribadita per il secondo ciclo nell’articolato dello schema di Dlgs: ciò significa che le Indicazioni per il secondo ciclo sono assunte in via definitiva? E perché?), non hanno minimamente spostato le decisioni governative.

Rimane aperto tutto il discorso degli standard di apprendimento, i quali sono assolutamente indispensabili per quelle che sono le finalità e gli obiettivi di un secondo ciclo. Le Indicazioni nazionali per questo ciclo sono accompagnate dagli OSA i quali hanno due grossi difetti:

a) se sono Livelli Essenziali di Prestazione da cui le scuole debbono estrapolare gli Obiettivi Formativi Personalizzati, sono così numerosi e così minutamente specifici che non si comprende assolutamente che cosa debbano fare le scuole; in effetti, costituiscono una ingiustificata invasione di campo della autonomia delle istituzioni scolastiche, degli insegnanti e dei Consigli di classe, almeno finché non verranno spazzati via da non ancora chiaramente definite équipes pedagogiche;

b) se dovessero essere letti con la chiave dell’articolo 8 del Dpr 275/99, cioè come “OSA relativi alle competenze degli alunni”, circostanza improbabile in quanto il Regolamento della autonomia è stato superato dalla successiva legge-delega 53/03 del 2003 che ha forza di rango superiore, resta pur sempre il fatto che non hanno assolutamente la dignità di standard, in quanto sono individuati, definiti e descritti come normali obiettivi di apprendimento, quelli che, per intenderci, qualunque consiglio di classe è tenuto a redigere nella sua attività programmatoria. E per un Miur che dovrebbe avere competenze di governance e non di government  è veramente un brutto affare!

 

Maurizio Tiriticco