Alcune riflessioni sulla scuola italiana.
di Sergio Casprini, Andrea Ragazzini, Giorgio
Ragazzini, Valerio Vagnoli,
da
Fuoriregistro del
3/3/2006
1. Una scuola per tutti = una scuola più
facile?
È possibile che una scuola di massa sia anche
una scuola seria e rigorosa? Noi pensiamo di sì, e crediamo che sia
stata una precisa responsabilità della classe politica italiana nel
suo insieme non tanto di non essere stata capace di realizzare questo
obbiettivo, quanto di non averlo voluto perseguire.
Con le riforme attuate tra gli anni Sessanta e Settanta, la Scuola
media unica (1962), la Scuola materna statale (1968), il tempo pieno
(1971), fu avviato un mutamento profondo, che ha sostanzialmente
garantito l'accesso allo studio dei ragazzi di tutti gli strati
sociali. Era certamente indispensabile anche un complessivo
ripensamento dei programmi e della didattica, ma non era inevitabile
la progressiva, inarrestabile dequalificazione, che la scuola italiana
ha subito negli anni successivi.
La responsabilità primaria di questa decadenza è certamente della
classe politica che ha spesso operato secondo l'equazione scuola per
tutti=scuola più facile, mirando essenzialmente all'acquisizione del
consenso.
Una convergente responsabilità è da attribuire ad una cultura
pedagogica (e sociologica) che ha ritenuto coerente con la
scolarizzazione di massa l'eliminazione di qualsiasi forma di
selezione meritocratica, vista come uno strumento di discriminazione
sociale, e ha caricato la scuola di compiti in larga misura impropri,
come quello di far fronte a tutte le forme possibili e immaginabili di
disagio, individuale e sociale, salvo poi colpevolizzare la scuola
stessa, e in particolare gli insegnanti, quando appariva inadeguata
allo scopo.
Questa cultura, che schematicamente si definisce cattocomunista,
consiste in una miscela di paternalismo, spirito missionario, buonismo,
egualitarismo acritico, quanto di più lontano insomma da una visione
laica e realistica della scuola e dell'individuo, e ha prodotto una
visione sostanzialmente assistenziale della scuola, luogo primario di
"socializzazione", piuttosto che di crescita culturale e civile e di
maturazione dello spirito critico. E, cosa ancora più grave, ha
provocato una grave crisi dei ruoli educativi (genitori e insegnanti),
tutti e due fortemente indeboliti nella loro capacità di guidare i
giovani con la fermezza indispensabile alla loro maturazione emotiva.
La giusta critica all'autoritarismo e alla selezione di classe sono
degenerate in una svalutazione del merito, dell'impegno, della
responsabilità individuale, del rispetto delle regole, dell'idea che
in una collettività i comportamenti scorretti comportino una sanzione.
Oggi, come è naturale, le originarie motivazioni ideali (o
ideologiche) si sono assai attenuate, ma molti aspetti di quella
visione si sono profondamente radicati nella scuola e costituiscono il
substrato comune alle scelte politiche dei due schieramenti e presente
sia nella Riforma Berlinguer che nella Riforma Moratti.
Ci riferiamo all'idea di scuola come di un "servizio" da "erogare" in
funzione delle esigenze del "cliente-studente"; ad una didattica
largamente depurata da difficoltà concettuali e sempre meno
finalizzata allo sviluppo di strumenti critici; alla progressiva
invasione di tutte le possibili educazioni (alla salute, alla
legalità, stradale, sessuale, alimentare, all'uguaglianza, alla
diversità...), non di rado proposte da enti e operatori esterni, con
l'intento di portare il mondo dentro le aule scolastiche, mentre
prendono la fuga ben più rilevanti contenuti disciplinari.
Il processo degenerativo si è aggravato con l'introduzione
dell'Autonomia scolastica (1997/99), utilizzata quasi esclusivamente
per promuovere l'immagine della scuola, proponendo agli
studenti-clienti un variegato ventaglio di attività aggiuntive
pomeridiane, in gran parte di limitato spessore culturale e formativo
(con qualche rara e meritoria eccezione). Così i progetti più
discutibili, le associazioni di ogni tipo, gli esperti di qualsiasi
argomento, si sono impossessati di una fetta consistente
dell'istruzione (e del relativo business).
Con la Riforma Moratti la centralità dello studente-cliente e il
coinvolgimento delle famiglie nelle scelte didattiche e formative sono
entrati nella scuola per legge, secondo una filosofia che è in
sostanziale continuità con il percorso che abbiamo tratteggiato.
In conclusione: il diritto allo studio, che è anche diritto dei
"capaci e meritevoli anche se privi di mezzi....di raggiungere i gradi
più alti degli studi" è divenuto diritto al successo formativo,
concetto in cui finalmente si azzera qualunque responsabilità dei
discenti.
Ma un sistema di istruzione dequalificato, ancorché gratuito, sarà di
fatto un sistema classista, se non sarà in grado di fornire ai "capaci
e meritevoli" gli strumenti culturali e professionali necessari per
raggiungere le mete a cui aspirano.
2. "Liberalizzare" la pedadogia e la
didattica
È urgente liberare la scuola dall'idea che i
docenti si debbano conformare a verità pedagogiche e didattiche
imposte dall'alto. Va detto a chiare lettere che negli ultimi decenni
si è dispiegata una pervasiva operazione politico-culturale da parte
di una potente lobby, che comprende i sindacati confederali, le
facoltà di scienze dell'educazione, gli IRRE e che ha ispirato tutti i
Ministri della Pubblica Istruzione. Obbiettivo: diffondere
capillarmente una pedagogia e una didattica di Stato, trasformando in
suoi esecutori i docenti italiani, considerati in maggioranza
impreparati e neghittosi. Si è trattato di una vera e propria campagna
di rieducazione, che ha finito per creare un autentico regime
culturale. Leggi, decreti, ordinanze e circolari hanno riversato sulla
scuola orientamenti e prescrizioni di carattere metodologico a cui
conformarsi in modo acritico: dall'ossessione programmatoria e
valutativa al portfolio, dall'orientamento come chiave di tutto alla
mitizzazione della continuità tra i diversi ordini di scuola, dalla
svalutazione dei contenuti disciplinari all'informatizzazione come
salvezza di una scuola arretrata.
Contro questa cappa dirigista e statalista e a favore del libero
confronto delle idee e delle esperienze professionali è necessario
impegnarsi per una vera e propria "liberalizzazione della didattica".
Nella formazione dei futuri docenti, questo significa incardinarla su
un ampio confronto fra le più varie impostazioni, senza ortodossie di
alcun genere. Nella pratica professionale, va garantita agli
insegnanti la più ampia libertà metodologica, come vuole la
Costituzione. Quanto all'aggiornamento, va basato essenzialmente sul
metodo seminariale tipico del lavoro scientifico-culturale, con
l'adeguata valorizzazione delle competenze interne alle scuole, in
alternativa all' invasione di esperti esterni. Nella legislazione
scolastica, infine, si dovrà sempre fare la massima attenzione a non
interferire nella sfera delle scelte di metodo, che spettano ai
singoli docenti, così come spetta al medico scegliere le terapie
appropriate.
3. Liberare la professionalità dei docenti
Accanto ai provvedimenti per garantire la
necessaria libertà nella scuola, che certo non significa rifiuto di
ogni limite e controllo, sono indispensabili quelli - in un certo
senso complementari - relativi a una compiuta "professionalizzazione"
del corpo docente.
Come per le altre categorie di professionisti, proprio in un'autentica
autonomia professionale si radica il diritto-dovere di partecipare sia
all'elaborazione dei principi etico-deontologici a cui ispirarsi nel
proprio lavoro, sia di essere consultati come categoria professionale
in merito alle politiche scolastiche al di fuori delle logiche
puramente sindacali fin qui dominanti. In questa direzione sarebbe
importante rilanciare l'idea di un organismo tecnico come quello
ipotizzato da alcune associazioni professionali (con il nome di
Consiglio Superiore della Docenza) e già proposto in due progetti di
legge sullo Stato giuridico presentati in questa legislatura,
lasciandosi alle spalle lo sclerotico Consiglio Nazionale della
Pubblica Istruzione, fondato sulla cosiddetta "partecipazione
democratica" (associazioni di genitori, sindacati confederali, enti
vari e via dicendo).
Per quanto riguarda la valutazione dei docenti, infine, anziché
avventurarsi sul terreno impraticabile delle distinzioni di merito (e
di stipendio) a parità di lavoro, come tentò di fare Berlinguer con il
"concorsaccio", si dovrà alla fine arrivare a definire, questo sì, il
demerito: e cioè quali comportamenti costituiscano gravi inadempienze
o inadeguatezze sul piano professionale e quali provvedimenti - più
seri e tempestivi di quelli attuali - esse dovrebbero comportare.
4. I "due canali" della Riforma Moratti: una discriminazione
classista?
Come è noto, nella Riforma Moratti il Secondo ciclo, cioè la scuola
superiore, è costituito da un sistema dei licei e da un sistema di
istruzione e formazione professionale, definiti "di pari dignità". È
l'aspetto più aspramente contestato dal centro-sinistra, par di capire
senza significative eccezioni, che vede in questa "canalizzazione
precoce" una separazione di natura classista tra "ricchi", destinati
agli studi e "poveri", destinati ineluttabilmente al lavoro, come
quella realizzata da Gentile con il Ginnasio e l'Avviamento.
Conseguentemente il centro-sinistra pare orientato a proporre un primo
biennio unico per tutti, per consentire, si dice, ai ragazzi che
escono dalla scuola media e alle loro famiglie una scelta più meditata
e consapevole del successivo indirizzo di studi.
Questa posizione a noi pare esclusivamente dettata dal pregiudizio
ideologico che contrappone la cultura disinteressata a quella
finalizzata all'ingresso nel mercato del lavoro, con una evidente (e
molto dannosa) svalutazione della seconda a favore della prima, vista
come l'unico possibile strumento di compensazione delle disuguaglianze
culturali e sociali.
In ogni caso, agli occhi degli insegnanti che guardino alla propria
quotidiana esperienza professionale senza le lenti deformanti
dell'ideologia e della polemica politica, questa posizione appare
astratta e foriera di ulteriori danni per il sistema scolastico e per
tutti i suoi "utenti".
È sensato ritenere che i ragazzi per i quali durante la scuola media è
stato problematico, o addirittura impossibile, persino entrare
nell'esperienza dello studio, possano trarre giovamento dal
frequentare un biennio in buona parte comune a tutti gli indirizzi di
studio? O non ne verranno aggravate inevitabilmente le loro
difficoltà, procurandogli ulteriori frustrazioni e il definitivo
rifiuto della scuola?
Non sarebbe invece più ragionevole e realistico pensare al sistema di
istruzione professionale, piuttosto che come a una bolgia di dannati,
come a una chance per tanti ragazzi, come una possibilità di
valorizzare altre attitudini e interessi, di ripartire seguendo un
percorso magari più personale e gratificante? Non si rischia anche
inoltre di soffocare lo sviluppo di una vocazione professionale e di
ritardare inutilmente l'inserimento nel mondo del lavoro? Sostiene a
questo proposito Giorgio Allulli, dirigente dell'ISFOL, sul sito di "Tuttoscuola":
"Riproponendo il biennio scolastico a 16 anni si ripropone una
soluzione rigida, ignorando tutto il dibattito pedagogico, italiano ed
internazionale (vedi l'ultimo numero di Le Monde de l'education) su
come rispondere alle necessità di coloro che apprendono secondo stili
cognitivi diversi, partendo dalla pratica per arrivare alla conoscenza
teorica attraverso la riflessione sulla pratica, e dunque attraverso
un processo di apprendimento circolare. Il rischio è quello di perdere
i giovani per strada, o di trattenerli fino a 16 anni dentro le aule
scolastiche, pluriripetenti esausti e pronti alla fuga da qualsiasi
ulteriore proposta formativa."
Del resto, si può seriamente classificare come una scuola "di serie B"
quella che è in grado di fornire adeguati strumenti tecnici e
concettuali per progettare e realizzare un gioiello, un manifesto
pubblicitario, un circuito elettrico o un software?
A sostegno del "biennio unico" viene addotto l'orientamento
maggioritario dell'Europa in questo senso; si dà il caso, però, che
negli ultimi anni si registri invece una chiara inversione di tendenza
in senso opposto sulla base di risultati non positivi. Scrive Luigi
Binanti: [1]
"In Spagna, nel dicembre 2002, è stata approvata una legge che abbassa
tale scelta a quattordici anni; in Francia è ormai messo in
discussione il College unique (il percorso scolastico uguale per tutti
dai quattordici ai sedici anni) che doveva assicurare la diffusione
dell'istruzione e che invece, ogni anno, registra tassi di abbandono
scolastico che toccano il 30% degli allievi; nel Regno Unito si tende
a modificare l'ordinamento che prevede fino a sedici anni un percorso
didattico identico per tutti gli studenti".
Risulta invece assai positiva l'esperienza della provincia autonoma di
Trento [2], che ha ridotto drasticamente
l'abbandono scolastico (8% contro il 20-25% nazionale) proprio
costruendo un sistema a "due gambe" analogo a quello varato dalla
riforma Moratti, .
Quello che si deve soprattutto chiedere è che anche il sistema
dell'istruzione e formazione professionale sia di qualità elevata,
cioè che la "pari dignità" dei due canali sia effettiva e non solo
proclamata.
In conclusione ci pare che, al termine del primo ciclo, la possibilità
di esercitare una libera scelta sia, come sempre, da preferire
all'imposizione di un modello unico, con cui si coltiva solo
l'illusione di generare per decreto condizioni di maggiore
uguaglianza.
Sergio Casprini, Andrea Ragazzini,
Giorgio Ragazzini, Valerio Vagnoli
NOTE:
[1] cfr. Luigino Binanti, L'orientamento tra
scuola e lavoro, in "RES. Cose d'oggi a scuola", n. 27 del settembre
2004, pp. 44-46)
[2] Cfr. Giorgio Allulli su "Tuttoscuola.it"
(Risposta a Maurizio Tirittico): "Oggi Trento, grazie anche alla
presenza di un solido canale di formazione professionale, porta il 92%
dei giovani a conseguire la qualifica o il diploma