Norme generali sull'istruzione e LEP.
diMaurizio
Tiriticco, da
Fuoriregistro del
27/12/2006
Qualche indicazione per operare
Cari amici! Dal cacciavite alla gru! Dai
rattoppi alla costruzione di una casa tutta nuova! Ce la faranno i
nostri eroi... ecc... ecc? Certamente sì, se coniughiamo le forze ed
utilizziamo, soprattutto, un cervello sistemico: l'ologramma di cui
parla Morin! Sarebbe ora, per un'amministrazione abituata dall'Unità
ad oggi a campare alla giornata e... solo quando c'è il sole!
Perché... basta un po' di pioggia - un cambio di ministro - e... si
scatena lo tsunami! Mettiamocela tutta! Nel mio piccolo ci provo!
Maurizio vi augura un buon anno!
Verso le nuove Indicazioni nazionali
La finanziaria è fatta! Ora bisogna fare la
nuova scuola!
Al di là di proclami... di sapore postunitario, occorre veramente
rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire quel
Sistema educativo nazionale di istruzione e
formazione le cui linee sono tutte
indicate nel novellato Titolo V della Costituzione.
Chi dopo il 2001 ha posto mano ad una pretesa riforma della scuola, di
fatto ha utilizzato il Titolo V come una grimaldello per dar vita a
quella scuola del punto e a capo che ha provocato quei danni
che stiamo ancora scontando. In effetti, la Moratti nutriva da tempo
una sua idea di scuola, molto personale e... personalizzante,
ed ha colto l'occasione offerta dalla nuova Carta costituzionale per
costruire un edificio così ben congegnato, fatto di una legge delega,
di una lunga serie di decreti delegati e di altri provvedimenti così
sistemicamente intrecciati che è molto difficile aggredire nel loro
insieme! Si correrebbe il rischio di gettar via l'acqua calda della
Moratti con il bambino della nostra scuola! Di qui la scelta saggia
del cacciavite!
Ormai, però, siamo alla svolta! L'anno ponte è in stato avanzato, i
suoi piloni sono più che logori e l'anno nuovo è alle porte. E'
importante che fin da ora si realizzino le linee di quella scuola che
la Costituzione ha chiaramente indicate!
Com'è noto, la Moratti era così preoccupata di dar vita al più presto
e comunque al suo disegno che si è adoperata a scrivere le "sue"
Indicazioni nazionali dimenticandosi, però, dei livelli
essenziali di prestazione del servizio, anzi addirittura creando
quel grosso pasticcio per cui quegli obiettivi specifici di
apprendimento, che nell'art. 8 del regolamento sull'autonomia
delle istituzioni scolastiche sono relativi alle competenze degli
alunni, sono diventati invece, con una capriola da saltimbanco,
livelli essenziali di prestazione del servizio erogato dalle scuole.
Di qui la metafora dell'insegnante-cuoco a cui ricorre Bertagna (vedi
Lavorare sulla riforma, "Scuola Secondaria", n. 10, 2005),
quando afferma: "Un conto sono gli ingredienti che, secondo lo Stato,
non possono mancare negli scomparti disciplinari della
dispensa-magazzino di ogni scuola e di ogni docente, un altro i piatti
formativi che la scuola e i docenti sono chiamati a cucinare per gli
allievi". Di fatto l'insegnante-cuoco è invitato a scegliere tra le
centinaia di OSA quelli più idonei per il menù personalizzato
per ciascun allievo. Da questo assunto allo spappolamento degli
obiettivi nazionali ed alla scheda faidaté il passaggio è stato
breve, oltre che obbligato. E l'unità del Sistema educativo nazionale
di istruzione è andato a gambe all'aria!
Ma queste sono cose già note, ed è inutile ritornarci. Il richiamo,
comunque, può essere utile per coloro che in questi giorni si
accingono al non facile compito di riscrivere le Indicazioni nazionali
in modo che siano conformi allo spirito e alla lettera del dettato
costituzionale.
Torniamo, quindi, alla Costituzione. Il comma 2 dell'articolo 117
afferma che lo Stato ha legislazione esclusiva in una serie di
materie. Quelle che interessano il nostro discorso sono due: le
norme generali sull'istruzione (punto n) e la determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili
e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale
(punto m).
Una corretta lettura formale di queste indicazioni non può prescindere
da una considerazione di carattere storico. La nostra scuola,
dall'Unità ad oggi, ha conosciuto tre grandi periodi, la scuola dei
programmi, la scuola della programmazione, la scuola dell'autonomia.
Li ripercorriamo, scusandoci con il lettore per la necessaria
stringatezza della esposizione.
La scuola dei programmi
Il periodo della scuola dei programmi
ministeriali va dalla Legge Casati del 1859, estesa nel 1861 al
nuovo Regno d'Italia, fino alla Carta della scuola di Bottai del 1939
ed oltre, anche dopo la seconda guerra mondiale, fino agli anni
Settanta. Caratteristica dei programmi è che sono assolutamente
prescrittivi, sono fondati su contenuti disciplinari e non su
obiettivi, quanto meno su competenze, adottano una
valutazione decimale, in effetti assai approssimativa, ma funzionale
ad una scuola che vuole selezionare e ad escludere più
che promuovere ed includere.
Va, comunque, sottolineato che già la Costituzione del '47 fungeva da
spartiacque tra due modelli di scuola. Vale la pena ricordare alcuni
principi fondanti. Leggiamo all'articolo 33 che "l'arte e la scienza
sono libere e libero ne è l'insegnamento" e che "la Repubblica detta
le norme generali sull'istruzione". Di fatto già nel '47 si sancisce
che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge
la sua personalità" (art. 2), tra le quali è anche la scuola, che "è
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (art.
3). E leggiamo anche che "la scuola è aperta a tutti. L'istruzione
inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi" (art. 34). Si delinea una
scuola assolutamente nuova ed inclusiva. E si anticipa anche il
discorso sulle autonomie, quando, nell'articolo 5 si afferma che "la
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie
locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua
legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".
Si tratta di principi noti, che in larga misura sono nel nostro Dna
civile e sono parte viva della nostra democrazia. Si tratta peraltro
di principi che sono del tutto assenti in quello Statuto albertino che
per cento anni, dal 1848 alla Liberazione, ha tessuto la storia
civile, politica e legislativa del nostro Paese. Va, quindi,
sottolineato con forza che già nella Costituzione del '47 si delinea
una scuola che vada oltre la rigidità dei programmi e che operi di
concerto con quelle autonomie locali di cui al citato articolo 5.
Però, va anche sottolineato che l'immediato dopoguerra ci vedeva
impegnati in un'opera immane di ricostruzione, per cui sia le
autonomie locali che una scuola meno vincolata ai programmi
costituivano più un auspicio che una realtà effettuale. D'altra parte
le stesse Regioni, pur "costituite in enti autonomi con propri poteri
e funzioni" (art. 115), videro la luce solo negli anni Settanta, fatta
eccezione per quelle a Statuto speciale.
Pertanto, per tutta una serie di ragioni, economiche, politiche e
culturali anche, la scuola dei programmi ministeriali continuò a
sopravvivere fino agli anni Settanta.
La scuola della programmazione
L'anno della svolta fu il 1962, quando si
realizzò l'istruzione obbligatoria ottonale. Fu una svolta sofferta
perché tutte le aspettative di promuovere culturalmente nel giro di
pochi anni tutti i giovani italiani furono deluse da solenni e diffuse
bocciature: in effetti la nuova scuola media unica era assolutamente
impreparata ad accogliere e a promuovere i nuovi obbligati! Fu
così che qualche anno più tardi si ebbe la dura reazione di Don Milani
che con quella Lettera a una professoressa del '67 prese a
bacchettate pedagogisti, ministri e insegnanti. La lezione fu salutare
perché allora si avvertì che non era sufficiente aprire le aule a
tutti se non si cambiavano anche gli assetti organizzativi della
scuola, i metodi e i mezzi dell'insegnamento. Per tutti gli anni
Sessanta si incrociarono due variabili, da un lato il boom
economico ed una sempre più diffusa domanda di istruzione, dall'altro
l'incapacità del nostro sistema di istruzione di darle risposte
adeguate. Il tutto poi andò ad impattarsi con il movimento del '68, ed
il che richiederebbe ben altri discorsi!
Fu comunque chiaro che l'istruzione stava diventando un fenomeno di
massa e che una scuola ancorata alla logica dei programmi ministeriali
non era assolutamente in grado di dare risposte adeguate. Fu così che
la ricerca pedagogica ruppe gli steccati entro i quali aveva sempre
operato - con le attenzioni rivolte essenzialmente al bambino - e si
aprì alle nuove esigenze avanzate dagli adolescenti e dagli stessi
adulti che cominciarono a rivendicare il loro diritto di tornare a
quella scuola che da bambini li aveva espulsi: fu la vicenda delle 150
ore! La sollecitazione venne anche dalla ricerca d'oltralpe e
d'oltreoceano, orientata alle teorie del curricolo ed alla strategia
della programmazione, concetti assolutamente nuovi per la nostra
tradizione scolastica. Fu così che, in virtù di quei nuovi apporti,
sociali e pedagogici, nel '69 vennero liberalizzati gli accessi
all'università per tutti gli studenti degli istituti secondari e della
stessa istruzione professionale. In seguito, con i decreti delegati
del '74 si aprirono le porte congiuntamente alla democratizzazione del
governo della scuola ed alla programmazione della didattica.
Chiave di volta della programmazione fu la centralità degli
obiettivi, il concreto saper fare degli alunni, mentre nei
programmi, come abbiamo già detto, erano centrali i contenuti.
Per questa ragione fu anche necessario cambiare il sistema di
valutazione e nel '77, con la legge 517, nei due gradi della scuola
dell'obbligo la valutazione decimale venne sostituita dalla
valutazione di criterio: la pagella cedette il posto alla
scheda!
In effetti, tutta la lunga stagione della programmazione non ha mai
goduto di buona salute. Se da un lato i teorici del curricolo
offrivano opportunità assolutamente nuove per un fare scuola diversa
da quella della tradizione, dall'altro, però, l'amministrazione non
sembrava molto disposta ad... allentare le redini! I programmi del
ministero convissero a lungo con la programmazione di cui le scuole
avrebbero dovuto essere protagoniste. E l'attività programmatoria di
fatto era pur sempre soggetta ai vincoli di programmi prescrittivi in
ordine a contenuti, ripartizioni disciplinari, cattedre, classi,
quadri orario, per cui le curvature alle esigenze degli alunni e alle
vocazioni del territorio non risultavano sempre incisive. Fu così che
in molti casi la programmazione divenne ben presto più un'attività
routinaria che una costante spinta innovatrice.
La scuola dell'autonomia
Gli anni Novanta segnarono una profonda svolta
nella storia del nostro Paese per quanto concerne l'ampliamento
dell'area della democrazia, della partecipazione, della trasparenza,
delle responsabilità. Il dibattito veniva da lontano e trovò il suo
primo approdo in quella Legge 241/90 con cui si tracciarono le linee
del nuovo processo amministrativo. Si avviava una svolta
epocale nella nostra amministrazione pubblica, sollecitata da quella
legge a puntare più alla soddisfazione del cliente che non alla
semplice esecuzione della norma. Per quanto riguarda la scuola,
da quella legge nacque nel '95 l'esigenza della Carta dei servizi
scolastici: il che costituì un passo assolutamente nuovo per
quanto riguarda le nuove responsabilità che le scuole dovevano
assumere verso gli alunni, le famiglie, il territorio.
Ormai il Paese era maturo per la svolta devolutiva - se
vogliamo chiamarla così - e con la legge 59/97 ebbe inizio quella
stagione in cui lo Stato cominciò a trasferire gran parte dei suoi
poteri alle Regioni e agli Enti locali. Ha inizio quell'inarrestabile
processo di dimagrimento dello Stato in forza del quale le
istituzioni periferiche assumono via via competenze e responsabilità
assolutamente nuove. Lo Stato rinuncia alla sua verticalità e, da ente
super partes, diviene semplicemente uno degli enti di cui è
costituita la Repubblica. Infatti la Costituzione del 2001 sancisce
che "la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle
Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato" (art. 114). Si deve
notare che nell'articolo i Comuni e i loro cittadini occupano il primo
posto e lo Stato l'ultimo: si ribadisce, cioè, che lo Stato non è
un'entità astratta, ma uno degli enti pubblici a servizio dei
cittadini! La devoluzione autonomistica investe tutta la pubblica
amministrazione ed i pubblici servizi. E non è affatto un caso che nel
dpr 275 del '99, attuativo dell'articolo 21 della legge delega 59/97,
viene sancita l'autonomia delle istituzioni scolastiche, un'autonomia
che nel 2001 assume anche la dignità della legittimazione
costituzionale (art. Cos 117, comma 3).
I contenuti delle Indicazioni
nazionali
Dalla disamina fin qui condotta appare evidente
che il nostro Sistema
educativo nazionale di istruzione e formazione,
che è altra cosa dalla Scuola
a cui siamo abituati, è tutto da costruire. La parentesi della Moratti
è stato un colpo grave rispetto alla continuità storica del nostro
sistema scolastico: si è trattato di un doloroso accidente da cui,
purtroppo, fatichiamo ad uscire, a causa di quella impicciatissima
ragnatela di norme primarie e secondarie che la Moratti è stata capace
di costruire.
Occorre, quindi, tornare sul solco della continuità per costruire un
Sistema di istruzione e formazione capace di far fronte alle esigenze
della società della conoscenza ed alla necessità di educare tutti i
cittadini dalla nascita e per tutta la vita, non uno di meno!
Per queste ragioni, è lo stesso concetto di scuola che cambia e si
arricchisce di nuove connotazioni e funzioni.
E' in questo scenario che occorre por mano ad
Indicazioni nazionali
- si potrebbero chiamare diversamente, ma non è un problema - le quali
sono tenute a realizzare quei due enunciati costituzionali: le
norme generali sull'istruzione
e i livelli essenziali delle
prestazioni erogate dalle istituzioni
scolastiche, enunciati che la Moratti nelle "sue" Indicazioni
nazionali volutamente ha confusi e stravolti.
I riferimenti normativi sono essenzialmente due, l'articolo 8 del dpr
275/99 e il novellato Titolo V. Sono i due documenti da cui emergono
con chiarezza la natura e il fine del Sistema educativo nazionale
di istruzione e formazione. La premessa teorica è che con
l'autonomia viene a cadere la logica dei programmi ministeriali, ma
viene anche a cadere, o ad alleggerirsi, quella della
programmazione educativa e didattica, stante il fatto che spetta
all'autonomia delle istituzioni scolastiche e dei collegi docenti
adottare le scelte metodologiche che riterranno più opportune. La
letteratura sulla progettazione organizzativa e sulla progettazione
educativa è ben più ricca di quanto non appaia nelle indicazioni
normative degli anni Settanta ed Ottanta!
Le norme generali
Ciò che le Indicazioni dovranno indicare con estrema chiarezza sono
gli obiettivi che, al termine di un percorso didattico
sufficientemente articolato e disteso nel tempo, gli alunni sono
tenuti a conseguire. Spetterà poi ai consigli di classe verificare se
tali obiettivi sono stati raggiunti totalmente o parzialmente secondo
la logica della valutazione di criterio alla quale, dopo gli insensati
interventi del '96, dovrebbe essere restituita tutta la dignità che le
si deve. Vanno tenuti come punti fermi, a livello nazionale e
condiviso, sia gli obiettivi che i criteri valutativi
generali; mentre tutto ciò che riguarda l'azione formativa viene
lasciato all'autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e sviluppo
delle istituzioni scolastiche.
Altro discorso va fatto per le competenze. Queste costituiscono
l'insieme di comportamenti che danno ragione di conoscenze, abilità,
attitudini che un soggetto ha maturato e conseguito in un'attività di
apprendimento realizzando gli obiettivi che di volta in volta gli sono
stati assegnati. Per tale ragione, le competenze hanno uno spessore
particolare e riguardano la conclusione di un percorso lungo di studi,
di un intero ciclo - direi - che, inoltre, dovrebbe anche coincidere
con determinate fasce di età, ovviamente senza alcuna rigidità
precostituita.
Sulle competenze la letteratura è sterminata. Occorre, però, prendere
atto che il Parlamento e il Consiglio dell'Unione europea hanno
recentemente raccomandato l'utilizzazione di un Quadro Europeo
delle Qualifiche, QeQ, ed hanno individuato otto livelli di
competenze, grosso modo da quello primario al master, ed
è a queste indicazioni che i diversi sistemi europei di istruzione e
di formazione dovrebbero fare riferimento. In questo documento la
competenza viene definita come la "la capacità dimostrata di
utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini personali,
sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello
sviluppo professionale e/o personale" Nel suddetto Quadro le
competenze sono descritte in termini di responsabilità e di autonomia.
A mio giudizio, si potrebbe parlare di competenze conclusive del ciclo
primario (ai 10 anni di età) e dell'intero ciclo obbligatorio (ai 16
anni di età, individuando e tracciando un percorso continuo tra
l'attuale scuola media e il successivo biennio). Le prime
afferirebbero alla dimensione emotivo-affettiva e a quella delle
conoscenze di base (la maturazione dell'identità personale e la prima
sistematizzazione concettuale del leggere, scrivere e far di conto,
ovviamente con tutti gli aggiornamenti del caso): costituirebbero gli
esiti di apprendimento - per utilizzare il linguaggio del QEQ -
attesi alla fine del primo quinquennio dell'obbligo di istruzione. Le
seconde afferirebbero alla responsabilità sociale e a quei saperi
minimi che oggi sono richiesti dalla società della conoscenza e che
potremmo definire della literacy, della numeracy e del
problem solving (di fatto, le capacità interattive e
cooperative del soggetto con i diversi da Sé). Questi costituirebbero
gli esiti di apprendimento attesi alla fine del secondo
quinquennio dell'obbligo.
Il quadro delle competenze terminali di un percorso ciclico viene
definito (ed ovviamente periodicamente aggiornato in ordine
all'evoluzione delle conoscenze) a livello centrale. Sarà poi compito
delle istituzioni scolastiche autonome accertare e debitamente
certificare le competenze raggiunte dagli alunni al termine di un
ciclo; queste costituiranno crediti per i passaggi ad ulteriori
momenti di istruzione e di istruzione o di formazione, alla
conclusione dell'obbligo. A proposito delle competenze terminali, sarà
opportuno effettuare una scelta tra due ipotesi che certamente si
porranno: se certificare solo le competenze effettivamente raggiunte
da un alunno o se certificarle tutte, però, con la necessaria
individuazione di almeno tre livelli di accettabilità (ad esempio,
essenziale, esperto, eccellente). Qualunque scelta si adotti, la
certificazione non sarà solo indicativa dei savoir faire
conseguiti dall'alunno e dei crediti che potrà vantare, ma sarà anche
orientativa ed indicativa delle attività di recupero/rinforzo che
dovranno essere successivamente effettuate.
I livelli essenziali delle prestazioni
Le Indicazioni nazionali dovrebbero indicare e definire anche i
livelli di prestazione del servizio a cui tutte le istituzioni
scolastiche della Repubblica sono tenute ad allinearsi: ovviamente, si
tratta di livelli che le istituzioni scolastiche potrebbero anche
superare, ma che mai dovrebbero disattendere. Va ricordato che la
questione dei LEP è assolutamente nuova rispetto alla Costituzione del
'47. Nell'immediato dopoguerra, mentre si andava configurando sulla
Carta costituzionale una Repubblica fondata sulle autonomie, di fatto,
però, si stava costruendo uno Stato fortemente centralista per quelle
contingenze postbelliche che consentivano margini assai ristretti per
una reale e concertata autonomia. In quegli anni, pertanto, non
avrebbe avuto senso che lo Stato indicasse dei LEP ad istituzioni
autonome che ancora non esistevano. Inoltre, per quello che riguardava
i servizi erogati direttamente dallo Stato, era questo stesso a darsi,
implicitamente o meno, i suoi LEP!
Questi ultimi quindi assumono visibilità e concretezza solo quando lo
Stato dà inizio al suo dimagrimento e rinuncia a gran parte delle sue
competenze. Ma, nel momento stesso in cui dichiara ed effettua questa
rinuncia, si premura di rassicurare i cittadini tutti che i loro
diritti civili e sociali saranno comunque garantiti su tutto il
territorio nazionale, anche se i servizi non sono più erogati dal
potere centrale, ma dalle autonomie locali.
Per quanto riguarda le istituzioni scolastiche, i livelli essenziali
delle prestazioni che queste debbono garantire riguardano il
quantum ed il quale delle risorse, in termini di risorse
finanziarie, strutture, attrezzature, servizi, logistica, risorse
umane, quadri orario e assetti disciplinari, comprensive di tutte
quelle variabili che consentono di erogare insegnamenti efficienti ed
efficaci in grado di perseguire le finalità, gli obiettivi generali
e gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze
degli alunni, in ordine a quanto richiesto dal Sistema educativo
nazionale di istruzione.
Del resto, si tratta di una strada che, per certi versi, si era già
intrapresa, quando nel '95 con il Dpcm del 7 giugno venne predisposto
uno schema generale di riferimento per l'elaborazione, da parte delle
scuole, della Carta dei servizi scolastici, precedentemente
citata. Allora, si intendeva aiutare le scuole ad organizzarsi, in
quanto future istituzioni autonome, in modo assolutamente nuovo in
ordine ai servizi da garantire. Non si trattava più di adempiere a
delle prescrizioni imposte dall'alto, ma di erogare quei servizi che
si ritenevano necessari in relazione ad un proficuo incontro tra le
finalità del Sistema di istruzione, la domanda del
territorio e l'offerta della istituzione scolastica. Si trattò
di un'esperienza che avvenimenti successivi e l'inadeguatezza della
amministrazione non hanno permesso di accompagnare né di tesaurizzare.
Oggi le intuizioni di allora, ovviamente mutatis mutandis in
quanto la cornice legislativa è totalmente cambiata, potrebbero
costituire un prezioso input per l'elaborazione dei LEP
relativi all'istruzione.
Indicazioni operative
Da quanto detto, si dovrebbe operare verso più
direzioni e su più tavoli, ovviamente secondo una concertazione
unitaria e finalità concordate e condivise.
Una strategia possibile, per quanto attiene la parte relativa alle
norme generali,
potrebbe essere la seguente:
- individuare e definire in primo luogo con estrema chiarezza gli
esiti di apprendimento attesi alla fine dell'intero decennio
dell'obbligo di istruzione;
- in ordine a questa prima operazione e in considerazione delle
corrispondenti fasce di età, individuare e definire con altrettanta
chiarezza gli esiti di apprendimento attesi alla fine del primo
quinquennio dell'obbligo.
Solo successivamente, su due tavoli distinti, si potrà procedere alla
stesura delle norme generali relative ai due quinquenni.
Emergerà abbastanza problematica l'operazione relativa al secondo
quinquennio, in quanto si tratterà di mettere in discussione gli
assetti ordinamentali, organizzativi e didattici di due percorsi,
quello dell'attuale scuola media e quello degli attuali bienni, che
provengono da storie diverse e che hanno sedimentato con il tempo
assetti e finalità molto differenti. In prima battuta, sarà necessario
non enfatizzare eccessivamente la cesura dell'esame di Stato
conclusivo dell'attuale terzo anno della scuola secondaria di primo
grado, il quale, pur se ancora costituzionalmente normato, dovrebbe
con il tempo scomparire per lasciare il posto ad un curricolo
verticale unitario.
Occorrerà considerare con molta attenzione la necessità di rendere più
flessibili e articolati i percorsi disciplinari dell'attuale scuola
media per renderli compatibili con i percorsi pluridisciplinari che li
anticipano (la flessibilità della scuola primaria) e li seguono
(l'articolazione degli attuali bienni, la quale per altro dovrà
successivamente e necessariamente espandersi orizzontalmente).
Per quanto riguarda la parte relativa ai
Livelli Essenziali delle Prestazioni,
il discorso è più complesso in quanto investe materie che vanno ben
oltre la curricolarità e la didattica, per cui sarà necessario il
concorso di più competenze, dai dicasteri dell'Ecofin, della Salute,
delle Riforme, delle Politiche giovanili e attività sportive, dei Beni
e delle attività culturali, della Comunicazione, ad esempio, fino a
quelle degli Enti locali - eventualmente in sede di Conferenza
unificata - per quanto concerne la legislazione concorrente che questi
sono tenuti ad esercitare in materia di istruzione. Si tratta di un
discorso assolutamente nuovo, che è tutto da costruire e sul quale dal
2001 - cioè dal varo del novellato Titolo V - la nostra
amministrazione PI o si è gingillata o ha perso tempo per avallare le
chimere morattiane convinte che i LEP riguardassero soltanto il
sottosistema dell'istruzione e formazione professionale.
In conclusione, il lavoro non manca! Gettiamo via il cacciavite e
innalziamo la gru perché dobbiamo costruire un edificio articolato e
complesso, comunque... più duraturo del bronzo, per dirla con Orazio!
Roma, 27 dicembre 2006
Maurizio Tiriticco