Norme generali sull'istruzione e LEP.

diMaurizio Tiriticco, da Fuoriregistro del 27/12/2006

 

Qualche indicazione per operare

Cari amici! Dal cacciavite alla gru! Dai rattoppi alla costruzione di una casa tutta nuova! Ce la faranno i nostri eroi... ecc... ecc? Certamente sì, se coniughiamo le forze ed utilizziamo, soprattutto, un cervello sistemico: l'ologramma di cui parla Morin! Sarebbe ora, per un'amministrazione abituata dall'Unità ad oggi a campare alla giornata e... solo quando c'è il sole! Perché... basta un po' di pioggia - un cambio di ministro - e... si scatena lo tsunami! Mettiamocela tutta! Nel mio piccolo ci provo! Maurizio vi augura un buon anno!


Verso le nuove Indicazioni nazionali

La finanziaria è fatta! Ora bisogna fare la nuova scuola!
Al di là di proclami... di sapore postunitario, occorre veramente rimboccarsi le maniche e cominciare a costruire quel
Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione le cui linee sono tutte indicate nel novellato Titolo V della Costituzione.
Chi dopo il 2001 ha posto mano ad una pretesa riforma della scuola, di fatto ha utilizzato il Titolo V come una grimaldello per dar vita a quella scuola del punto e a capo che ha provocato quei danni che stiamo ancora scontando. In effetti, la Moratti nutriva da tempo una sua idea di scuola, molto personale e... personalizzante, ed ha colto l'occasione offerta dalla nuova Carta costituzionale per costruire un edificio così ben congegnato, fatto di una legge delega, di una lunga serie di decreti delegati e di altri provvedimenti così sistemicamente intrecciati che è molto difficile aggredire nel loro insieme! Si correrebbe il rischio di gettar via l'acqua calda della Moratti con il bambino della nostra scuola! Di qui la scelta saggia del cacciavite!
Ormai, però, siamo alla svolta! L'anno ponte è in stato avanzato, i suoi piloni sono più che logori e l'anno nuovo è alle porte. E' importante che fin da ora si realizzino le linee di quella scuola che la Costituzione ha chiaramente indicate!
Com'è noto, la Moratti era così preoccupata di dar vita al più presto e comunque al suo disegno che si è adoperata a scrivere le "sue" Indicazioni nazionali dimenticandosi, però, dei livelli essenziali di prestazione del servizio, anzi addirittura creando quel grosso pasticcio per cui quegli obiettivi specifici di apprendimento, che nell'art. 8 del regolamento sull'autonomia delle istituzioni scolastiche sono relativi alle competenze degli alunni, sono diventati invece, con una capriola da saltimbanco, livelli essenziali di prestazione del servizio erogato dalle scuole. Di qui la metafora dell'insegnante-cuoco a cui ricorre Bertagna (vedi Lavorare sulla riforma, "Scuola Secondaria", n. 10, 2005), quando afferma: "Un conto sono gli ingredienti che, secondo lo Stato, non possono mancare negli scomparti disciplinari della dispensa-magazzino di ogni scuola e di ogni docente, un altro i piatti formativi che la scuola e i docenti sono chiamati a cucinare per gli allievi". Di fatto l'insegnante-cuoco è invitato a scegliere tra le centinaia di OSA quelli più idonei per il menù personalizzato per ciascun allievo. Da questo assunto allo spappolamento degli obiettivi nazionali ed alla scheda faidaté il passaggio è stato breve, oltre che obbligato. E l'unità del Sistema educativo nazionale di istruzione è andato a gambe all'aria!
Ma queste sono cose già note, ed è inutile ritornarci. Il richiamo, comunque, può essere utile per coloro che in questi giorni si accingono al non facile compito di riscrivere le Indicazioni nazionali in modo che siano conformi allo spirito e alla lettera del dettato costituzionale.
Torniamo, quindi, alla Costituzione. Il comma 2 dell'articolo 117 afferma che lo Stato ha legislazione esclusiva in una serie di materie. Quelle che interessano il nostro discorso sono due: le norme generali sull'istruzione (punto n) e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (punto m).
Una corretta lettura formale di queste indicazioni non può prescindere da una considerazione di carattere storico. La nostra scuola, dall'Unità ad oggi, ha conosciuto tre grandi periodi, la scuola dei programmi, la scuola della programmazione, la scuola dell'autonomia. Li ripercorriamo, scusandoci con il lettore per la necessaria stringatezza della esposizione.


La scuola dei programmi

Il periodo della scuola dei programmi ministeriali va dalla Legge Casati del 1859, estesa nel 1861 al nuovo Regno d'Italia, fino alla Carta della scuola di Bottai del 1939 ed oltre, anche dopo la seconda guerra mondiale, fino agli anni Settanta. Caratteristica dei programmi è che sono assolutamente prescrittivi, sono fondati su contenuti disciplinari e non su obiettivi, quanto meno su competenze, adottano una valutazione decimale, in effetti assai approssimativa, ma funzionale ad una scuola che vuole selezionare e ad escludere più che promuovere ed includere.
Va, comunque, sottolineato che già la Costituzione del '47 fungeva da spartiacque tra due modelli di scuola. Vale la pena ricordare alcuni principi fondanti. Leggiamo all'articolo 33 che "l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento" e che "la Repubblica detta le norme generali sull'istruzione". Di fatto già nel '47 si sancisce che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità" (art. 2), tra le quali è anche la scuola, che "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3). E leggiamo anche che "la scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi" (art. 34). Si delinea una scuola assolutamente nuova ed inclusiva. E si anticipa anche il discorso sulle autonomie, quando, nell'articolo 5 si afferma che "la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".
Si tratta di principi noti, che in larga misura sono nel nostro Dna civile e sono parte viva della nostra democrazia. Si tratta peraltro di principi che sono del tutto assenti in quello Statuto albertino che per cento anni, dal 1848 alla Liberazione, ha tessuto la storia civile, politica e legislativa del nostro Paese. Va, quindi, sottolineato con forza che già nella Costituzione del '47 si delinea una scuola che vada oltre la rigidità dei programmi e che operi di concerto con quelle autonomie locali di cui al citato articolo 5. Però, va anche sottolineato che l'immediato dopoguerra ci vedeva impegnati in un'opera immane di ricostruzione, per cui sia le autonomie locali che una scuola meno vincolata ai programmi costituivano più un auspicio che una realtà effettuale. D'altra parte le stesse Regioni, pur "costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni" (art. 115), videro la luce solo negli anni Settanta, fatta eccezione per quelle a Statuto speciale.
Pertanto, per tutta una serie di ragioni, economiche, politiche e culturali anche, la scuola dei programmi ministeriali continuò a sopravvivere fino agli anni Settanta.


La scuola della programmazione

L'anno della svolta fu il 1962, quando si realizzò l'istruzione obbligatoria ottonale. Fu una svolta sofferta perché tutte le aspettative di promuovere culturalmente nel giro di pochi anni tutti i giovani italiani furono deluse da solenni e diffuse bocciature: in effetti la nuova scuola media unica era assolutamente impreparata ad accogliere e a promuovere i nuovi obbligati! Fu così che qualche anno più tardi si ebbe la dura reazione di Don Milani che con quella Lettera a una professoressa del '67 prese a bacchettate pedagogisti, ministri e insegnanti. La lezione fu salutare perché allora si avvertì che non era sufficiente aprire le aule a tutti se non si cambiavano anche gli assetti organizzativi della scuola, i metodi e i mezzi dell'insegnamento. Per tutti gli anni Sessanta si incrociarono due variabili, da un lato il boom economico ed una sempre più diffusa domanda di istruzione, dall'altro l'incapacità del nostro sistema di istruzione di darle risposte adeguate. Il tutto poi andò ad impattarsi con il movimento del '68, ed il che richiederebbe ben altri discorsi!
Fu comunque chiaro che l'istruzione stava diventando un fenomeno di massa e che una scuola ancorata alla logica dei programmi ministeriali non era assolutamente in grado di dare risposte adeguate. Fu così che la ricerca pedagogica ruppe gli steccati entro i quali aveva sempre operato - con le attenzioni rivolte essenzialmente al bambino - e si aprì alle nuove esigenze avanzate dagli adolescenti e dagli stessi adulti che cominciarono a rivendicare il loro diritto di tornare a quella scuola che da bambini li aveva espulsi: fu la vicenda delle 150 ore! La sollecitazione venne anche dalla ricerca d'oltralpe e d'oltreoceano, orientata alle teorie del curricolo ed alla strategia della programmazione, concetti assolutamente nuovi per la nostra tradizione scolastica. Fu così che, in virtù di quei nuovi apporti, sociali e pedagogici, nel '69 vennero liberalizzati gli accessi all'università per tutti gli studenti degli istituti secondari e della stessa istruzione professionale. In seguito, con i decreti delegati del '74 si aprirono le porte congiuntamente alla democratizzazione del governo della scuola ed alla programmazione della didattica.
Chiave di volta della programmazione fu la centralità degli obiettivi, il concreto saper fare degli alunni, mentre nei programmi, come abbiamo già detto, erano centrali i contenuti. Per questa ragione fu anche necessario cambiare il sistema di valutazione e nel '77, con la legge 517, nei due gradi della scuola dell'obbligo la valutazione decimale venne sostituita dalla valutazione di criterio: la pagella cedette il posto alla scheda!
In effetti, tutta la lunga stagione della programmazione non ha mai goduto di buona salute. Se da un lato i teorici del curricolo offrivano opportunità assolutamente nuove per un fare scuola diversa da quella della tradizione, dall'altro, però, l'amministrazione non sembrava molto disposta ad... allentare le redini! I programmi del ministero convissero a lungo con la programmazione di cui le scuole avrebbero dovuto essere protagoniste. E l'attività programmatoria di fatto era pur sempre soggetta ai vincoli di programmi prescrittivi in ordine a contenuti, ripartizioni disciplinari, cattedre, classi, quadri orario, per cui le curvature alle esigenze degli alunni e alle vocazioni del territorio non risultavano sempre incisive. Fu così che in molti casi la programmazione divenne ben presto più un'attività routinaria che una costante spinta innovatrice.


La scuola dell'autonomia

Gli anni Novanta segnarono una profonda svolta nella storia del nostro Paese per quanto concerne l'ampliamento dell'area della democrazia, della partecipazione, della trasparenza, delle responsabilità. Il dibattito veniva da lontano e trovò il suo primo approdo in quella Legge 241/90 con cui si tracciarono le linee del nuovo processo amministrativo. Si avviava una svolta epocale nella nostra amministrazione pubblica, sollecitata da quella legge a puntare più alla soddisfazione del cliente che non alla semplice esecuzione della norma. Per quanto riguarda la scuola, da quella legge nacque nel '95 l'esigenza della Carta dei servizi scolastici: il che costituì un passo assolutamente nuovo per quanto riguarda le nuove responsabilità che le scuole dovevano assumere verso gli alunni, le famiglie, il territorio.
Ormai il Paese era maturo per la svolta devolutiva - se vogliamo chiamarla così - e con la legge 59/97 ebbe inizio quella stagione in cui lo Stato cominciò a trasferire gran parte dei suoi poteri alle Regioni e agli Enti locali. Ha inizio quell'inarrestabile processo di dimagrimento dello Stato in forza del quale le istituzioni periferiche assumono via via competenze e responsabilità assolutamente nuove. Lo Stato rinuncia alla sua verticalità e, da ente super partes, diviene semplicemente uno degli enti di cui è costituita la Repubblica. Infatti la Costituzione del 2001 sancisce che "la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato" (art. 114). Si deve notare che nell'articolo i Comuni e i loro cittadini occupano il primo posto e lo Stato l'ultimo: si ribadisce, cioè, che lo Stato non è un'entità astratta, ma uno degli enti pubblici a servizio dei cittadini! La devoluzione autonomistica investe tutta la pubblica amministrazione ed i pubblici servizi. E non è affatto un caso che nel dpr 275 del '99, attuativo dell'articolo 21 della legge delega 59/97, viene sancita l'autonomia delle istituzioni scolastiche, un'autonomia che nel 2001 assume anche la dignità della legittimazione costituzionale (art. Cos 117, comma 3).


I contenuti delle Indicazioni nazionali

Dalla disamina fin qui condotta appare evidente che il nostro Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione, che è altra cosa dalla Scuola a cui siamo abituati, è tutto da costruire. La parentesi della Moratti è stato un colpo grave rispetto alla continuità storica del nostro sistema scolastico: si è trattato di un doloroso accidente da cui, purtroppo, fatichiamo ad uscire, a causa di quella impicciatissima ragnatela di norme primarie e secondarie che la Moratti è stata capace di costruire.
Occorre, quindi, tornare sul solco della continuità per costruire un Sistema di istruzione e formazione capace di far fronte alle esigenze della società della conoscenza ed alla necessità di educare tutti i cittadini dalla nascita e per tutta la vita, non uno di meno! Per queste ragioni, è lo stesso concetto di scuola che cambia e si arricchisce di nuove connotazioni e funzioni.
E' in questo scenario che occorre por mano ad
Indicazioni nazionali - si potrebbero chiamare diversamente, ma non è un problema - le quali sono tenute a realizzare quei due enunciati costituzionali: le norme generali sull'istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni erogate dalle istituzioni scolastiche, enunciati che la Moratti nelle "sue" Indicazioni nazionali volutamente ha confusi e stravolti.
I riferimenti normativi sono essenzialmente due, l'articolo 8 del dpr 275/99 e il novellato Titolo V. Sono i due documenti da cui emergono con chiarezza la natura e il fine del Sistema educativo nazionale di istruzione e formazione. La premessa teorica è che con l'autonomia viene a cadere la logica dei programmi ministeriali, ma viene anche a cadere, o ad alleggerirsi, quella della programmazione educativa e didattica, stante il fatto che spetta all'autonomia delle istituzioni scolastiche e dei collegi docenti adottare le scelte metodologiche che riterranno più opportune. La letteratura sulla progettazione organizzativa e sulla progettazione educativa è ben più ricca di quanto non appaia nelle indicazioni normative degli anni Settanta ed Ottanta!
 

Le norme generali

Ciò che le Indicazioni dovranno indicare con estrema chiarezza sono gli obiettivi che, al termine di un percorso didattico sufficientemente articolato e disteso nel tempo, gli alunni sono tenuti a conseguire. Spetterà poi ai consigli di classe verificare se tali obiettivi sono stati raggiunti totalmente o parzialmente secondo la logica della valutazione di criterio alla quale, dopo gli insensati interventi del '96, dovrebbe essere restituita tutta la dignità che le si deve. Vanno tenuti come punti fermi, a livello nazionale e condiviso, sia gli obiettivi che i criteri valutativi generali; mentre tutto ciò che riguarda l'azione formativa viene lasciato all'autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e sviluppo delle istituzioni scolastiche.
Altro discorso va fatto per le competenze. Queste costituiscono l'insieme di comportamenti che danno ragione di conoscenze, abilità, attitudini che un soggetto ha maturato e conseguito in un'attività di apprendimento realizzando gli obiettivi che di volta in volta gli sono stati assegnati. Per tale ragione, le competenze hanno uno spessore particolare e riguardano la conclusione di un percorso lungo di studi, di un intero ciclo - direi - che, inoltre, dovrebbe anche coincidere con determinate fasce di età, ovviamente senza alcuna rigidità precostituita.
Sulle competenze la letteratura è sterminata. Occorre, però, prendere atto che il Parlamento e il Consiglio dell'Unione europea hanno recentemente raccomandato l'utilizzazione di un Quadro Europeo delle Qualifiche, QeQ, ed hanno individuato otto livelli di competenze, grosso modo da quello primario al master, ed è a queste indicazioni che i diversi sistemi europei di istruzione e di formazione dovrebbero fare riferimento. In questo documento la competenza viene definita come la "la capacità dimostrata di utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale" Nel suddetto Quadro le competenze sono descritte in termini di responsabilità e di autonomia.
A mio giudizio, si potrebbe parlare di competenze conclusive del ciclo primario (ai 10 anni di età) e dell'intero ciclo obbligatorio (ai 16 anni di età, individuando e tracciando un percorso continuo tra l'attuale scuola media e il successivo biennio). Le prime afferirebbero alla dimensione emotivo-affettiva e a quella delle conoscenze di base (la maturazione dell'identità personale e la prima sistematizzazione concettuale del leggere, scrivere e far di conto, ovviamente con tutti gli aggiornamenti del caso): costituirebbero gli esiti di apprendimento - per utilizzare il linguaggio del QEQ - attesi alla fine del primo quinquennio dell'obbligo di istruzione. Le seconde afferirebbero alla responsabilità sociale e a quei saperi minimi che oggi sono richiesti dalla società della conoscenza e che potremmo definire della literacy, della numeracy e del problem solving (di fatto, le capacità interattive e cooperative del soggetto con i diversi da Sé). Questi costituirebbero gli esiti di apprendimento attesi alla fine del secondo quinquennio dell'obbligo.
Il quadro delle competenze terminali di un percorso ciclico viene definito (ed ovviamente periodicamente aggiornato in ordine all'evoluzione delle conoscenze) a livello centrale. Sarà poi compito delle istituzioni scolastiche autonome accertare e debitamente certificare le competenze raggiunte dagli alunni al termine di un ciclo; queste costituiranno crediti per i passaggi ad ulteriori momenti di istruzione e di istruzione o di formazione, alla conclusione dell'obbligo. A proposito delle competenze terminali, sarà opportuno effettuare una scelta tra due ipotesi che certamente si porranno: se certificare solo le competenze effettivamente raggiunte da un alunno o se certificarle tutte, però, con la necessaria individuazione di almeno tre livelli di accettabilità (ad esempio, essenziale, esperto, eccellente). Qualunque scelta si adotti, la certificazione non sarà solo indicativa dei savoir faire conseguiti dall'alunno e dei crediti che potrà vantare, ma sarà anche orientativa ed indicativa delle attività di recupero/rinforzo che dovranno essere successivamente effettuate.


I livelli essenziali delle prestazioni


Le Indicazioni nazionali dovrebbero indicare e definire anche i livelli di prestazione del servizio a cui tutte le istituzioni scolastiche della Repubblica sono tenute ad allinearsi: ovviamente, si tratta di livelli che le istituzioni scolastiche potrebbero anche superare, ma che mai dovrebbero disattendere. Va ricordato che la questione dei LEP è assolutamente nuova rispetto alla Costituzione del '47. Nell'immediato dopoguerra, mentre si andava configurando sulla Carta costituzionale una Repubblica fondata sulle autonomie, di fatto, però, si stava costruendo uno Stato fortemente centralista per quelle contingenze postbelliche che consentivano margini assai ristretti per una reale e concertata autonomia. In quegli anni, pertanto, non avrebbe avuto senso che lo Stato indicasse dei LEP ad istituzioni autonome che ancora non esistevano. Inoltre, per quello che riguardava i servizi erogati direttamente dallo Stato, era questo stesso a darsi, implicitamente o meno, i suoi LEP!
Questi ultimi quindi assumono visibilità e concretezza solo quando lo Stato dà inizio al suo dimagrimento e rinuncia a gran parte delle sue competenze. Ma, nel momento stesso in cui dichiara ed effettua questa rinuncia, si premura di rassicurare i cittadini tutti che i loro diritti civili e sociali saranno comunque garantiti su tutto il territorio nazionale, anche se i servizi non sono più erogati dal potere centrale, ma dalle autonomie locali.
Per quanto riguarda le istituzioni scolastiche, i livelli essenziali delle prestazioni che queste debbono garantire riguardano il quantum ed il quale delle risorse, in termini di risorse finanziarie, strutture, attrezzature, servizi, logistica, risorse umane, quadri orario e assetti disciplinari, comprensive di tutte quelle variabili che consentono di erogare insegnamenti efficienti ed efficaci in grado di perseguire le finalità, gli obiettivi generali e gli obiettivi specifici di apprendimento relativi alle competenze degli alunni, in ordine a quanto richiesto dal Sistema educativo nazionale di istruzione.
Del resto, si tratta di una strada che, per certi versi, si era già intrapresa, quando nel '95 con il Dpcm del 7 giugno venne predisposto uno schema generale di riferimento per l'elaborazione, da parte delle scuole, della Carta dei servizi scolastici, precedentemente citata. Allora, si intendeva aiutare le scuole ad organizzarsi, in quanto future istituzioni autonome, in modo assolutamente nuovo in ordine ai servizi da garantire. Non si trattava più di adempiere a delle prescrizioni imposte dall'alto, ma di erogare quei servizi che si ritenevano necessari in relazione ad un proficuo incontro tra le finalità del Sistema di istruzione, la domanda del territorio e l'offerta della istituzione scolastica. Si trattò di un'esperienza che avvenimenti successivi e l'inadeguatezza della amministrazione non hanno permesso di accompagnare né di tesaurizzare. Oggi le intuizioni di allora, ovviamente mutatis mutandis in quanto la cornice legislativa è totalmente cambiata, potrebbero costituire un prezioso input per l'elaborazione dei LEP relativi all'istruzione.


Indicazioni operative

Da quanto detto, si dovrebbe operare verso più direzioni e su più tavoli, ovviamente secondo una concertazione unitaria e finalità concordate e condivise.
Una strategia possibile, per quanto attiene la parte relativa alle
norme generali, potrebbe essere la seguente:
- individuare e definire in primo luogo con estrema chiarezza gli esiti di apprendimento attesi alla fine dell'intero decennio dell'obbligo di istruzione;
- in ordine a questa prima operazione e in considerazione delle corrispondenti fasce di età, individuare e definire con altrettanta chiarezza gli esiti di apprendimento attesi alla fine del primo quinquennio dell'obbligo.
Solo successivamente, su due tavoli distinti, si potrà procedere alla stesura delle norme generali relative ai due quinquenni. Emergerà abbastanza problematica l'operazione relativa al secondo quinquennio, in quanto si tratterà di mettere in discussione gli assetti ordinamentali, organizzativi e didattici di due percorsi, quello dell'attuale scuola media e quello degli attuali bienni, che provengono da storie diverse e che hanno sedimentato con il tempo assetti e finalità molto differenti. In prima battuta, sarà necessario non enfatizzare eccessivamente la cesura dell'esame di Stato conclusivo dell'attuale terzo anno della scuola secondaria di primo grado, il quale, pur se ancora costituzionalmente normato, dovrebbe con il tempo scomparire per lasciare il posto ad un curricolo verticale unitario.
Occorrerà considerare con molta attenzione la necessità di rendere più flessibili e articolati i percorsi disciplinari dell'attuale scuola media per renderli compatibili con i percorsi pluridisciplinari che li anticipano (la flessibilità della scuola primaria) e li seguono (l'articolazione degli attuali bienni, la quale per altro dovrà successivamente e necessariamente espandersi orizzontalmente).
Per quanto riguarda la parte relativa ai
Livelli Essenziali delle Prestazioni, il discorso è più complesso in quanto investe materie che vanno ben oltre la curricolarità e la didattica, per cui sarà necessario il concorso di più competenze, dai dicasteri dell'Ecofin, della Salute, delle Riforme, delle Politiche giovanili e attività sportive, dei Beni e delle attività culturali, della Comunicazione, ad esempio, fino a quelle degli Enti locali - eventualmente in sede di Conferenza unificata - per quanto concerne la legislazione concorrente che questi sono tenuti ad esercitare in materia di istruzione. Si tratta di un discorso assolutamente nuovo, che è tutto da costruire e sul quale dal 2001 - cioè dal varo del novellato Titolo V - la nostra amministrazione PI o si è gingillata o ha perso tempo per avallare le chimere morattiane convinte che i LEP riguardassero soltanto il sottosistema dell'istruzione e formazione professionale.
In conclusione, il lavoro non manca! Gettiamo via il cacciavite e innalziamo la gru perché dobbiamo costruire un edificio articolato e complesso, comunque... più duraturo del bronzo, per dirla con Orazio!

Roma, 27 dicembre 2006

Maurizio Tiriticco