Dare credito allo studio. di Andrea Moro e Alberto Bisin, da La Voce del 24/1/2006
Il diritto allo studio è garantito dalla Costituzione italiana: "i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso". (1) L’intento appare quello di favorire una maggiore mobilità sociale. Ma in quale misura l’attuale modello di diritto allo studio consegue questo obiettivo? Le politiche di diritto allo studio Storicamente, in Italia il diritto allo studio è stato perseguito attraverso la drastica riduzione dei contributi per tutti gli studenti, e non con l’esenzione dalla contribuzione solo dei più poveri o più meritevoli. I pur consistenti aumenti delle tasse universitarie applicati dopo la riforma Ruberti sull'autonomia dell’università non hanno modificato in modo sostanziale le linee di questa politica. Da dati ricavati dal sito dell'ufficio statistiche del ministero dell’Istruzione, università e ricerca, abbiamo calcolato che nell'anno accademico 2002-03 il 10 per cento degli studenti (il 16 per cento dei non fuori corso) ha usufruito dell'esenzione totale dai contributi e un ulteriore 9 per cento dell'esenzione parziale. In media, esenzioni totali e parziali non ammontano a più di 600 euro. Inoltre, nonostante sia prevista la devoluzione di assegni di studio, borse di studio e altre provvidenze, in base principalmente al reddito familiare, questi interventi riguardano una piccola frazione della popolazione universitaria. Sempre secondo i dati del ministero, meno dell’8 per cento degli studenti in corso ha beneficiato degli interventi di Stato e Regioni, per un importo medio di 1.320 euro l’anno. Includendo solo le borse di studio erogate (l’altra categoria principale di interventi è costituita dai contributi per la mobilità internazionale degli studenti), l’importo medio sale a 2.321 euro. Sommando la borsa di studio all’esenzione delle tasse, un giovane meritevole e proveniente da una famiglia poco abbiente può quindi aspettarsi di ricevere un sussidio inferiore ai tremila euro l’anno: in totale in quattro anni sono 11.170 euro (annualizzati al tasso del 5per cento), a fronte di un costo totale degli studi, che include i salari mancati, di quasi 72mila euro. I dati mostrano dunque che il modello italiano di diritto allo studio soddisfa in misura solo parziale e inadeguata gli auspici del dettato costituzionale. I trasferimenti sono modesti rispetto al costo della laurea, e difficilmente possono influire sulle decisioni dei giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti. Il fallimento della politica del diritto allo studio è reso evidente dal fatto che, come consegue dai dati della Conferenza dei rettori, nel 2002 la percentuale di laureati tra la popolazione adulta (di età compresa tra i 25 e i 64 anni) è in Italia pari al 10 per cento, inferiore a quella della media dei paesi Ocse (15 per cento), ma anche a quella della Repubblica Ceca (12 per cento), del Regno Unito (14 per cento), dell’Islanda (18 per cento), della Danimarca (24 per cento), e così via. Dai poveri ai ricchi Né l’importo ridotto delle tasse universitarie incentiva la mobilità sociale attraverso l’ingresso all’università dei giovani più capaci e meritevoli provenienti da famiglie meno agiate. Al contrario, sono i giovani provenienti dalle famiglie più agiate a essere favoriti. Questo perché gli interventi per il diritto allo studio, finanziati in larga parte dal bilancio fiscale dello Stato, rappresentano un trasferimento dalle famiglie che non hanno figli iscritti all’università a quelle che ne hanno. Ma sono queste ultime a essere relativamente più abbienti. Usando i dati dell’indagine sui redditi delle famiglie italiane della Banca d'Italia, abbiamo confrontato i redditi e la ricchezza delle famiglie dei ragazzi fra 17 e 25 anni in possesso di diploma di maturità che vivono con i genitori. Le famiglie dei ragazzi che frequentano l’università guadagnano più di 31mila euro annui e possiedono una ricchezza netta di quasi 320mila euro, mentre le famiglie dei non iscritti guadagnano meno di 25mila euro annui (escludendo il reddito del figlio che lavora) e possiedono una ricchezza inferiore ai 200mila euro. (2) Inoltre, le tasse e i contributi universitari introdotti negli atenei statali negli ultimi dieci anni, oltre che modesti, sono progressivi: crescono cioè in modo più che proporzionale al reddito, in pratica spesso al reddito dichiarato ai fini dell’imposizione fiscale. In un paese a elevata evasione come il nostro, questo può rappresentare un sussidio agli evasori fiscali. Un modello da cambiare È perciò necessario cambiare il modello di diritto allo studio. Gli studi universitari producono ottimi rendimenti. Se molti giovani non li intraprendono è perché (le loro famiglie) non si possono permettere di ritardare il loro ingresso nel mercato del lavoro. La componente principale del costo degli studi non sono le tasse universitarie, ma i mancati salari. L’università a prezzi di sconto è un falso rimedio a vantaggio dei ricchi (presenti o futuri). Meglio sarebbe introdurre o facilitare forme di credito agli studi universitari. La legge di riforma prevede i "prestiti d'onore", ma nel 2001 e 2002 (gli unici anni per cui i dati siano disponibili) non ne è stato erogato nessuno. Come impostare allora una efficace politica di credito agli studi universitari? È necessario l’intervento pubblico? Perché i mercati finanziari non offrono allo stato attuale finanziamenti allo studio? Dopo tutto, il rendimento di questo investimento è pari quasi al 10 per cento al netto delle tasse, molto più di tanti altri investimenti pur finanziati dalle banche. Per avere un effetto sostanziale, il credito dovrebbe coprire non solo i costi di istruzione, ma anche i mancati salari, permettendo a studenti senza il supporto di genitori abbienti condizioni di vita "normali". Il rimborso dovrebbe avvenire a lungo termine, dopo vari anni di esperienza lavorativa, quando un giovane laureato inizia a percepire in media un salario sostanzialmente superiore a quello di un diplomato. E dovrebbe essere garantito in modo efficace il diritto legale dei creditori a rivalersi sui redditi futuri dei debitori. Per facilitare lo sviluppo del credito di lungo termine allo studio, ad esempio, si dovrebbero permettere ai creditori forme di accesso al reddito imponibile ai fini fiscali o addirittura alle retribuzioni pensionistiche dei debitori. Tali sistemi di credito potrebbero essere offerti dai mercati finanziari privati ed essere sostenuti da una garanzia statale, o direttamente dallo Stato. Che potrebbe - e dovrebbe - poi avvalersi del proprio potere di imposizione fiscale per ottenere il rimborso del prestito. Senza garanzie di questo tipo, il credito agli studi non è remunerativo per la finanza privata e non è sostenibile per quella pubblica. Per incentivare maggiormente l’accesso all’università dei cittadini, specie i meno abbienti, il credito allo studio universitario potrebbe essere sussidiato. Almeno in parte, il sussidio potrebbe essere coperto dall'imposizione di tasse di iscrizione e contributi decisamente più elevati per le famiglie più abbienti. Tasse universitarie che coprano in maniera più consistente la spesa per l’università possono essere agevolmente sostenute in assenza di vincoli al credito, e in ogni caso dalle famiglie meno povere, pur garantendo notevoli rendimenti del titolo universitario. Per esempio, aumentare il contributo medio a 5mila euro annui per studente garantirebbe un rendimento percentuale dell’investimento pari a circa l'8 per cento annuo. (3) La situazione del (e il dibattito intorno al) credito allo studio nell’Unione Europea non pare incoraggiante. (4) L’Australia e la Nuova Zelanda hanno introdotto negli anni Novanta forme di credito ancora di dimensioni limitate (nel caso dell’Australia volte a coprire solo i costi di iscrizione e frequenza), ma a lungo termine e da rimborsarsi mediante imposizione fiscale. Sarà interessante studiare gli effetti di questa innovativa politica del diritto allo studio nei prossimi anni. (5) Nel nostro paese esiste certamente molto spazio per una più efficace politica del diritto allo studio. Ma una razionale riforma del sistema scolastico, e universitario in particolare, nonché una maggiore flessibilità del mercato del lavoro (che garantisca una minore compressione salariale a favore dei lavoratori più abili) avrebbero effetti potenzialmente molto maggiori nell’aumentare il rendimento degli studi universitari e quindi nell’incentivare i giovani a intraprenderli. I paesi che hanno una elevata percentuale di laureati tra la popolazione adulta, come ad esempio gli Stati Uniti (28 per cento, secondo i dati della Conferenza dei rettori), hanno anche un elevato differenziale medio salariale a favore di coloro che posseggono un titolo universitario (negli Stati Uniti più del doppio rispetto all’Italia) e un invidiabile sistema universitario.
NOTE (1) Articolo 34, comma 3 e 4 della Costituzione. (2) Si veda "La finta equità dell'università italiana" di Roberto Perotti su lavoce.info e l’articolo di Nicholas Barr sull'Education Forum - http://www.educationforum.org.nz/documents/articles/issue92.pdf) (3) La cifra è ottenuta usando le stesse tecniche di calcolo del rendimento adottate nel nostro articolo precedente (LINK "La laurea, un ottimo investimento"). (4) Si veda a questo proposito M. Guille, 2002, "Student loans: a solution for Europe?", European Journal of Education, 37, 417-31.
(5)
Si veda per il data set della Nuova Zelanda:
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