Se la riforma fosse una ballata popolare . . .

di Giancarlo Cerini[1] da Educazione & Scuola del 19/7/2006

 

Dalla consultazione al protagonismo

La ricostruzione di un progetto credibile per la scuola italiana, forte e condiviso (nel senso di essere un credibile punto di riferimento per l’opinione pubblica e di sicuro orientamento per gli insegnanti) richiede un diverso metodo di lavoro verso/con la scuola e una analisi più equilibrata dei problemi e delle soluzioni sostenibili per il miglioramento del nostro sistema educativo.

Può essere utile un primo approccio informale, di ascolto “random” di gruppi di insegnanti e operatori scolastici, come suggerito dal neo-ministro Fioroni, ma diventa poi necessario coinvolgere le scuole, i docenti e le loro organizzazioni professionali e sindacali, gli enti locali, ecc. in maniera più ampia e partecipata.

Non si tratta solo di aprire una grande consultazione, come quella che è stata realizzata in Francia (cfr. Documento Thelot)[2] o in Italia al tempo dell’autonomia e del dibattito sui “saperi”. Di parole – in questi anni – ne sono state spese fin troppe, è giunto il tempo della sobrietà nei discorsi e di una più concreta operatività. Si potrà ancora discutere di curricolo, di competenze di base, di valutazione formativa, di contrasto alla dispersione, ma le scuole dovrebbero essere chiamate a mettersi alla prova, a costruire concrete soluzioni ai problemi con margini crescenti di autonomia e di originalità, ritrovando il piacere dell’impegno ed il gusto della ricerca.

È necessario un sano realismo, perché i “mali” della scuola non sono addebitabili solo all’ultima e recente stagione delle riforme Moratti (per altro unilaterali, ideologiche, insufficienti), ma vengono da molto più lontano: dalla difficoltà del nostro paese a mettere al centro delle sue scelte “strategiche” la cultura, la ricerca, la formazione in un’ottica di cittadinanza diffusa e costituzionale[3]; da una particolare sottovalutazione dei saperi scientifici e tecnologici, considerati quasi un corpus “minore” della conoscenza[4]; da una idea di scuola rigida, impermeabile all’apprendimento dei ragazzi, in difficoltà di fronte alla “liquidità” dei saperi[5].

 

I nodi del fare scuola

Le questioni in gioco sembrano molto più grandi di noi, assai al di là della “portata” di qualsiasi “cacciavite”[6]. C’è ormai una consistenza globale dei problemi: 

-        il mutamento delle forme della conoscenza: come si producono, si conservano, si trasmettono, si rinnovano…

-        l’indebolirsi dell’idea dell’istruzione come energia per l’emancipazione delle persone, per diventare soggetti liberi e responsabili (idea più forte per noi adulti, cresciuti all’ombra della scuola della Repubblica);

-        la faticosità del fare scuola, del dare un senso all’esperienza di insegnamento-apprendimento che si realizza ogni giorno a scuola.

La ricerca di un senso più forte dell’esperienza scolastica è sembrata la cifra interpretativa della riforma Moratti, orientata però in chiave etica, esistenziale (centrata sul progetto di vita piuttosto, sul progetto formativo), con una oscillazione tra la competizione malthusiana-funzionalista ed il paternalismo compassionevole (“ci sarà qualcosa anche per i poveri… se se lo meritano”).

Dovremo allora riscoprire il senso di un tirocinio culturale gramscianamente impegnativo e prendere atto di un certo rilassamento culturale di cui portiamo qualche responsabilità (ci siamo, forse, adagiati su un’idea “leggera” di debito formativo). Corriamo il rischio di confermarci nella percezione di un’Italia del pressappoco[7].

È evidente che la qualità della società civile si riverbera immediatamente sulla qualità della sua scuola, e viceversa. Dobbiamo pensare ad una scuola capace di essere un “motore” attivo dello sviluppo civile di una comunità, fattore di innovazione e di ricchezza, oltre che di coesione sociale.

Una strategia di riforme dovrebbe aggredire questi nodi (si può partire con il cacciavite…ma poi servono almeno squadra e compasso)[8].

Occorre ripristinare una scuola pubblica seria (ed una diversa configurazione degli esami di stato potrebbe servire anche a questo recupero di immagine istituzionale). “Seria” non significa con la faccia dura, bensì capace di proporre un ambiente di apprendimento stimolante sia pure impegnativo, che accoglie, che sta vicino, che piano piano emancipa gli studenti attraverso l’incontro con l’istruzione, alimentando il gusto di conoscere. È una scuola che sfrutta il piacere di stare insieme e cerca di trasformarlo nel desiderio di apprendere; gioca sulle tonalità del corpo (degli occhi, delle mani, della mente), della relazione, del clima affettivo, del coinvolgimento, del prendersi cura, ma non dimentica le fatiche dell’istruzione[9].

 

La riforma come ballata popolare

Ma chi decide del futuro della scuola? Il Governo ha forse diritto ad un suo progetto pedagogico compiuto, ad un suo modello di scuola? Ci piacerebbe dire che è solo la Repubblica ad aver diritto ad un suo progetto di istruzione pubblica. Ecco perché non bastano le rivincite di breve respiro, occorre argomentare, leggere i bisogni del paese, degli allievi; fare diagnosi convincenti, costruire una proposta avvincente.

C’è un problema di metodo (insufficiente in questi dieci anni), di coinvolgimento degli operatori scolastici, questione che appare forse non centrale per il decisore politico, ma decisiva per la scuola. Non serve solo una consultazione. Non basta il programma di governo. Occorre avere un progetto. Un programma diventa un progetto se si trasforma in una “ballata  popolare”, cioè se diventa una narrazione a più mani, ove anche gli ascoltatori possono diventare narratori, ove i ruoli si intrecciano e si scambiano, in una impresa corale, che viene dunque sentita come propria.

Spetta ai decisori politici apprestare le condizioni affinché la scuola sia messa in grado di realizzare un progetto alto, condiviso, non di maggioranza: una scuola della Repubblica. Sarebbe di buon auspicio una sessione del Parlamento dedicata ai problemi dell’educazione nel nostro paese (una due giorni all’inizio di ogni anno scolastico), così come i nostri massimi rappresentanti dovrebbero occuparsi dei nostri “vecchi”, della nostra salute, del nostro lavoro….

Il Paese intero deve riconoscere priorità alla scuola, poi ognuno farà la sua parte, il Governo, le Regioni, gli enti locali, le scuole autonome.

 

Appunti per le prossime “mosse”

Il sistema è ormai policentrico e sono molti i soggetti che si devono impegnare per apprestare le condizioni alte di un progetto; è necessario:

-        fare chiarezza sulla questione delle risorse, con uno scambio tra risorse e qualità, con una esplicita disponibilità della scuola alla rendicontazione pubblica;

-        evidenziare che l’investimento in formazione produce ricchezza, non solo cittadinanza e inclusione, che pure sono valori che hanno un “costo”;

-        ricostruire motivazioni nel personale, condizioni di benessere, di soddisfazione, di incentivi al miglioramento;

-        migliorare gli ambienti scolastici, trasformandoli in luoghi dove sia piacevole vivere e crescere; investire dunque in ammodernamenti delle strutture, nella loro sicurezza, come scelta civile;

-        coltivare le alleanze possibili con i genitori, le comunità, gli stakeholders. Le educazioni trasversali vanno ripensate, non “usate” contro la proposta culturale della scuola, ma come risorse per il successo formativo;

-        prestare attenzione ai luoghi non formali dell’apprendimento, non per smentire il curricolo, la sua presunta pesantezza, ma per far sì che i comportamenti colti che cerchiamo di promuovere a scuola possano manifestarsi anche al di fuori di esse, nella società civile (questo è il concetto di competenze durature).

Per realizzare questi traguardi ambiziosi abbiamo alcune carte da giocare:

-        l’autonomia, “presa sul serio”, rifocalizzata su compiti formativi forti, non sull’accessorio ed il marginale. Al centro sta dunque l’autonomia di ricerca, che va sostenuta anche sotto il profilo finanziario. La stessa organizzazione deve essere al servizio di ciò che avviene in aula. Si deve “vedere” il contributo dell’autonomia in una buona ora di lezione;

-        la professionalità degli operatori (insegnanti e dirigenti, in primis), un tema su cui occorre essere più coraggiosi, riconoscendo impegni e meriti, favorendo lo sviluppo e la responsabilità;

-        un progetto culturale autorevole, che sostenga il curricolo delle scuole, che si traduca in indirizzi nazionali per il curricolo, sobri, essenziali, articolati in quadri e profili di competenza;

-        una valutazione non intrusiva, ma “bussola” per regolare con trasparenza i processi di apprendimento e insegnamento;

-        una modernizzazione delle tecniche di insegnamento, abolendo il precettismo minuzioso e parolaio e riscoprendo l’arte dei “fondamentali” (come si insegna un buon italiano? una buona matematica?).

Tutto questo richiede scelte di alto respiro politico, su cui impegnare il parlamento, una saggia gestione degli atti amministrativi, la riscoperta dell’impegno di tanti operatori oggi mortificati da adempimenti burocratici ed occhiuti controlli.

 

Interventi strutturali, con sobrietà

Saranno necessari anche atti legislativi (ma pensiamo che il legislatore debba negoziare soprattutto le risorse di un nuovo patto educativo scuola-società), essenziali e di orientamento.

Facciamo solo due esempi, che si collegano all’idea di un percorso formativo in continuità e coerenza:

a)         il percorso 3-14 anni, che va innestato sull’esperienza degli istituti comprensivi (oggi il 50% delle scuole del primo ciclo), riscoprendo motivazioni forti ed un’anima curricolare e pedagogica di questo modello di “scuola di base della comunità”;

b)         il percorso 14-16 anni ed oltre, che va innestato ex-novo sull’idea  polo formativo (o  campus), in cui diverse filiere formative (nell’ambito di un asse culturale unificante: linguistico, scientifico, tecnologico, sociale, ecc.) possano intrecciarsi, nelle loro valenze culturali, pratiche, operative, in un contenitore unitario e plurale per gli allievi.

Entrambe le ipotesi potrebbero presentarsi come soluzioni a tavolino, illuministiche, quindi ideologiche, fredde organizzazioni precostituite dall’alto. Occorre farle vivere dal basso (la loro configurazione, tra l’altro, dipende normativamente dalle decisioni e dal  concorso di Regioni, Enti locali, territorio e scuole autonome), tradurle in occasioni per una partecipazione motivata, creativa, per un lavoro riconosciuto ed apprezzato, di benessere e soddisfazione.

La riforma della scuola dipende molto da un nuovo sentire comune: poter pensare ad un grande futuro dell’istruzione pubblica (rispettando i valori e le idee di ciascuno), ma impegnandosi in prima persona su cosa “farò domani a scuola” di migliore “di quanto ho fatto oggi”.

 


 


[1] Intervento di chiusura al seminario ad invito su “Idee per la scuola che verrà”, tenutosi a San Benedetto del Tronto (AP) nei giorni 3-4 luglio 2006. I documenti integrali del seminario sono disponibili sul sito www.irre.marche.it e nella rubrica “Riforme on line” di www.edscuola.it.

[2] C.Thélot, Il dibattito nazionale sull’educazione e la riforma scolastica in Francia in “Insegnare”, n. 6, giugno 2006.

[3] T.De Mauro, La cultura degli italiani, Bari, Laterza, 2005.

[4] E.Bellone, La scienza negata. Il caso italiano, Torino, Codice Edizioni, 2005.

[5] S.Tagliagambe, Più colta e meno gentile. Una scuola di massa e di qualità, Roma, Armando, 2006.

[6] La metafora del cacciavite è stata utilizzata dal Ministro dell’istruzione nell’ambito delle dichiarazioni programmatiche rese di fronte alla Commissione Cultura, Scienza e istruzione della Camera dei Deputati il 29 giugno 2006. Cfr. www.istruzione.it.

[7] R. Simone, Il paese del pressappoco. Illazioni sull’Italia che non va Milano, Garzanti, 2005.

[8] G. Cerini, Inseguendo le riforme. Agenda delle riforme (non) fatte e di quelle che si potrebbero fare, Homeless Book Faenza (RA), 2006.

[9] Cidi (a cura di S. Toselli), Una scuola per la cultura il lavoro la democrazia, Provincia di Roma, Editoriale Ciid, roma, 2006.