Brevi note a margine di Corte Costituzionale, La Corte Costituzionale rimette alla CGE la questione pregiudiziale sulla compatibilità della normativa nazionale con la clausola 5 punto 1, della direttiva n. 1999/70/CE. L’ordinanza che si commenta segna un nuovo capitolo nella vexata quaestio del personale precario della scuola, con particolare riferimento al problema della stabilizzazione del personale assunto da vari anni su posto vacante. Com’è noto, il D. Lgs. n. 368/2001 -Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES) nel confermare che “Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”, precisa che: “È consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro” (art.1, norma cit.). Con legge n. 247/ 2007 veniva aggiunto all’art. 5, l. cit., il comma 4-bis secondo cui “qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2”. L’applicazione di tale disciplina avrebbe dovuto comportare per i precari della scuola assunti con impiego complessivo superiore ai trentasei mesi, la trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato. Senonchè il legislatore nazionale si è affrettato ad emanare una normativa speciale al fine di escludere il comparto scuola dalla disciplina generale. Il d.l. n.134/2009 secondo cui: “I contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze previste dai commi 1, 2 e 3 (dell’art.4, l. n.124/1999), in quanto necessari per garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo, possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo”. Veniva poi aggiunto (cfr. art. 9, D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con L. 12 luglio 2011, n. 106) il comma 4-bis all’art.10 del citato D. Lgs. n.368/2001: “sono altresì esclusi dall’applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato”. In realtà, la legge n.124/1999, accanto alle supplenze necessarie per le assenze temporanee, prevede un’altra tipologia di contratti, per le cosiddette “supplenze annuali”, le quali sono disposte per “la copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico (art.4, l.cit.). In questo caso – nonostante la definizione di “supplenze” – il lavoratore assunto non va a sostituire un titolare, ma va a coprire un vuoto in organico. Pertanto, in tali fattispecie, la giustificazione apposta dal legislatore in ordine alle ragioni che escluderebbero il settore scuola dalla normativa nazionale ed europea in materia di contratto a termine, non è rinvenibile. Infatti, tali ragioni si fondano – come si è visto- sulla necessità di “garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo”. Se nel caso delle supplenze disposte per sostituire personale temporaneamente assente, tale giustificazione potrebbe avere fondamento, le suddette ragioni non appaiono però rinvenibili nel caso di “supplenze” su posti privi di titolare. Si ricorda, peraltro, che la citata legge n.124 prevedeva il ricorso a tali forme di contratto in via transitoria e per un periodo di tempo limitato (“in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo”). In realtà, quello che doveva essere un ricorso temporaneo ed eccezionale (secondo la citata legge, “i concorsi per titoli ed esami sono indetti su base regionale con frequenza triennale”) è divenuta una prassi, suffragando la tesi secondo cui- nei casi indicati- si assisterebbe ad un vero e proprio abuso del contratto a termine, essendo evidente che i posti vacanti devono essere ordinariamente ricoperti con personale di ruolo. In questo quadro normativo, la Corte di Cassazione (n.10127/2012) -considerata la specialità della normativa del comparto scuola- ha ritenuto l’insussistenza dell’abuso del contratto a termine, rigettando non solo la domanda di conversione, ma ogni istanza di risarcimento danni. Nella medesima sentenza, la Corte di legittimità aveva dichiarato la piena conformità della normativa nazionale con la clausola 5 dell’accordo quadro di cui alla Direttiva Ce, ritenendo trattarsi con ogni evidenza di un acte claire che non lasciava spazio ad alcun ragionevole dubbio sull’esegesi della Direttiva 1999/70/CE. La sentenza 10127 è stata oggetto di numerose critiche e spesso disattesa dalla giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Aq. su questo sito). Della questione si occupava l’Ufficio del Massimario della Cassazione con una relazione tematica sul precariato scolastico (n.190 del 24 ottobre 2012), che contraddiceva apertamente quanto affermato nella citata sentenza. Tale relazione non veniva mai pubblicata ufficialmente, benché richiamata su vari siti internet. A distanza di un anno, giunge pertanto l’ordinanza della Corte Costituzionale che demolisce (in modo definitivo?) l’interpretazione di Cass. n. 10127/12. * * * * * Vanno però sottolineati altri passaggi dell’ordinanza in esame. A) La distinzione tra norme ad efficacia diretta e clausole prive di tale efficacia. Come ricordato dal Giudice delle leggi, la clausola 5 dell’accordo quadro è priva di efficacia diretta, in quanto stabilisce che gli stati membri sono tenuti ad introdurre misure atte a prevenire e sanzionare l’abuso dei contratti a termine. Secondo la giurisprudenza della Corte europea (ordinanza Affatato (C-3/10) “affinché una normativa nazionale che vieta in via assoluta, nel settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione (cfr. sentenze Adeneler, Marrosu e Sardino; Vassallo, Angelidaki, nonché le ordinanze Vassilakis; Koukou, Lagoudakis e la citata ordinanza Affatato). Tali misure “non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)”. Tra le norme ad efficacia diretta va invece annoverata la clausola 4 (principio di non discriminazione). Tale clausola- al contrario della n. 5 (la quale dispone che gli Stati “dovranno introdurre” misure per prevenire gli abusi) – è una clausola self executing, stabilendo chiaramente il divieto di trattamento meno favorevole per i lavoratori con contratto a tempo determinato, senza prevedere un successivo intervento del legislatore nazionale. Tale principio è stato espressamente ribadito da una pronuncia della Corte Europea (sentenza “Gavieiro Gavieiro” del 22 dicembre 2010 -proc. n. C-444/09 e C-456-09) che ha ricordato che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato è incondizionata e sufficientemente precisa da poter essere invocata nei confronti dello Stato da dipendenti pubblici temporanei dinanzi ad un giudice nazionale perché sia loro riconosciuto il beneficio delle indennità per anzianità di servizi. Sulla questione specifica del riconoscimento dell’anzianità di servizio al personale precario della scuola, la Corte di Giustizia europea si è già pronunciata con almeno due sentenze. Oltre alla già ricordata “Gaviero- Gaviero”, la Corte di Giustizia Europea ha sancito – con sentenza n. 11 del 13 settembre 2007 causa n. 307/2005 “Del Cerro”- che gli scatti di anzianità vanno riconosciuti anche in caso di rapporti di lavoro a tempo determinato, ritenendo che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, contenuto in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE, e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag.43) vieta la disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, ancorchè la medesima sia prevista da disposizioni legislative, regolamentari di uno stato membro o da contratti collettivi. B) C’è però da osservare che la Corte Costituzionale – con l’ordinanza in esame- sembra mettere le mani avanti rispetto all’invocato giudizio della Corte di Giustizia. Infatti, pur ritenendo non infondati i dubbi sul contrasto della normativa nazionale con quella europea, secondo la Corte nel caso in specie sussisterebbero quelle ragioni obiettive in forza delle quali sarebbe consentito derogare ai principi di cui all’accordo quadro. Secondo la Corte, infatti, nel caso italiano, in un quadro che vede “costanti cambiamenti numerici della popolazione scolastica”, il ricorso al contratto a tempo determinato è reso necessario dalla necessità di garantire il diritto allo studio ex artt. 33 e 34 della Costituzione. Non potendo lo Stato rifiutarsi di erogare il servizio stesso, l’attribuzione di tutte le supplenze annuali con contratti a tempo indeterminato non potrebbe realizzarsi, perché in questo modo la Pubblica Amministrazione si esporrebbe alla concreta possibilità di avere un numero di docenti superiori al necessario. Infatti, in caso di successiva diminuzione della popolazione scolastica, la copertura di tutte le cattedre effettivamente vacanti potrebbe determinare esuberi del personale docente, “ipotesi da evitare in linea generale e, in particolare, nel periodo attuale nel quale sussistono gravi necessità di contenimento della spesa pubblica, anche in base ad impegni derivanti da vincoli posti dall’Unione europea”. L’ordinanza spiega inoltre “che il sistema scolastico italiano presenta esigenze di flessibilità fisiologicamente ineliminabili, riconducibili a diversi fattori, alcuni indipendenti dalle scelte di governo, tra i quali: mutamenti continui della popolazione scolastica; attribuzione delle cattedre, in larga percentuale, ad insegnanti donne, specie per i cicli di formazione primaria, che esigono forme di tutela quanto ai congedi di maternità; fenomeni di immigrazione (allo stato attuale, circa quattro milioni di immigrati, che vanno doverosamente inclusi nel sistema scolastico); flussi migratori interni da regione a regione; scelta di indirizzi scolastici da parte delle famiglie; trasferimenti di personale docente di ruolo; presenza di sedi disagiate e assegnazioni provvisorie, soprattutto nelle isole e zone di montagna; e altri dipendenti dalle scelte del governo: “frequenti accorpamenti di istituti; diverse modalità di programmazione delle classi; unificazione di indirizzi scolastici”. A parere di chi scrive, però, tali ragioni oggettive potrebbero rinvenirsi in tutti i Paesi europei – spesso sottoposti a flussi migratori ben superiori rispetto all’Italia – e persino in altri settori della pubblica amministrazione. Non appare revocabile in dubbio che la presenza di flussi migratori non incide solo sul settore scolastico, ma anche su altri settori, quali sanità, enti locali, sicurezza e -in generale- in tutti i servizi sociali. L’accoglimento della tesi sostenuta dalla Corte Costituzionale, implicherebbe pertanto la non applicabilità della clausola 5 non al solo settore scolastico, ma a tutto il settore del pubblico impiego, svuotando di fatto l’accordo medesimo che sarebbe applicabile solo al settore privato. D’altra parte, è innegabile che il sistema dell’istruzione è da almeno un decennio sottoposto ad uno “stress da cambiamento”, essendo stato oggetto di continue riforme, spesso motivate da esigenze di cassa più che da ragioni di ordine didattico. In un quadro di flessibilità determinato da provvedimenti sull’accorpamento delle classi di concorso, molti docenti soprannumerari possono essere “riciclati” nell’insegnamento di materie affini. D’altra parte è innegabile che – nonostante i provvedimenti sull’elevazione dell’età pensionabile- nel settore è comunque ravvisabile un consistente numero di pensionamenti annuali. Non si comprendono pertanto le ragioni per cui non sarebbe possibile la copertura dei posti disponibili con le immissioni in ruolo. Anche perché – a tutto voler concedere- si ricorda che lo stesso legislatore aveva previsto- proprio nell’ottica del superamento del problema del precariato scolastico e al fine di garantire nei fatti l’autonomia delle istituzioni scolastiche- il cosiddetto “organico funzionale”, costituito da docenti non necessariamente impiegati a tempo pieno in orario di lezione, ma utilizzabili per la copertura delle assenze brevi dei colleghi, ovvero per supporto all’attività didattica o in progetti (dispersione scolastica, classi aperte per insegnamento a livelli differenziati, attività di tutoraggio, ecc.). C) Secondo la Corte, “il sistema delle graduatorie permanenti del personale a tempo determinato, affiancato a quello del pubblico concorso, è in grado di garantire sia che l’assunzione del personale scolastico a tempo determinato avvenga con criteri oggettivi – cioè senza abusi né disparità – sia di consentire a detto personale di avere una ragionevole probabilità, nel tempo, di diventare titolare di un posto di ruolo, con un contratto a tempo indeterminato. Tale asserzione si scontra però con la tesi appena sostenuta. Se si afferma che il nostro sistema non è in grado di assumere i docenti precari (per i motivi legati alle riforme scolastiche e ai flussi migratori), non appare sostenibile che detto personale abbia quella “ragionevole probabilità di diventare titolare di un posto di ruolo”. Di converso, se sussiste davvero tale “ragionevole probabilità” (a meno di non voler trasformare tale principio in una mera affermazione di principio) appare indispensabile stabilire un tetto massimo di tempo (tre anni, cinque anni) o un determinato punteggio (ad esempio 100 punti) raggiunto il quale al lavoratore precario dovrebbe essere riconosciuto il diritto alla conversione del contratto. In un passo dell’ordinanza, viene espressa a chiare lettere la tesi che la Corte vorrebbe affermarsi in sede europea: “la normativa nazionale è strutturata, almeno in linea di principio, in modo tale che l’assunzione del personale scolastico con contratti a tempo determinato – pur non prevedendo la durata massima di tali contratti, né il numero dei rinnovi degli stessi – possa rispondere alle ragioni obiettive di cui alla clausola 5, punto 1, della direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE”. In buona sostanza, in nome di quelle esigenze di contenimento della spesa e dei “vincoli posti dall’Unione europea”, la Corte ritiene legittima la deroga ai principi europei e la condanna al precariato a vita dei dipendenti del comparto scuola. * * * * * Nonostante le segnalate criticità, si ritiene che l’ordinanza in commento contenga però delle indubbie (per quanto timide) aperture rispetto alla vicenda del precariato scolastico. Oltre ad aver preso le distanze dalle tesi della Cassazione, la Corte sottolinea come per tanto tempo lo stato italiano abbia omesso di attivare le procedure concorsuali previste dalla legge 124/1999 e riconosce che non vi sono disposizioni che prevedono in favore dei lavoratori della scuola il diritto al risarcimento del danno per indebita ripetizione di contratti di lavoro a tempo determinato.
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