Corte di Cassazione – Sentenza n. 1260 del 23.1.2015

In caso di reiterazione o illegittima apposizione del termine nei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la Pubblica Amministrazione, è onere delle Amministrazioni provare l’insussistenza dell’abuso.

Salvatore Russo, DirittoScolastico.it

 

La Corte Cassazione ha chiarito, nella recentissima  sentenza n. 1260/2015, che porre a carico del lavoratore l’onere della prova riguardo al danno subito a causa della reiterazione o dell’illegittima apposizione del termine a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la Pubblica Amministrazione, rappresenta una violazione del diritto dell’Unione Europea così come interpretato dalla Corte di Giustizia. Il regime probatorio da porre in essere, invece, deve essere analogo a quello applicato per tutte le altre discriminazioni, spettando solo alle Amministrazioni l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso.

La sentenza in commento prende le mosse dall’azione legale intrapresa da una dipendente a termine della Regione Valle d’Aosta che si è rivolta alla Suprema Corte di Cassazione per veder riformata parzialmente la sentenza emanata dalla Corte d’Appello di Torino nella parte in cui, pur riscontrando l’illegittimità della reiterazione di contratti a termine stipulati con la dipendente, annulla la condanna al risarcimento del danno emanata dal Giudice di prime cure per mancato assolvimento dell’onere della prova da parte della ricorrente. Tale decisione, secondo la lavoratrice precaria, risultava erronea sul punto, visto che non considera come l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 debba necessariamente essere posto “in conformità con le disposizioni del citato Accordo quadro, come interpretate dalla CGUE (vedi, per tutte: sentenze 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino (C-53/04, punti da 44 a 57); Vassallo (C-180/04, punti da 33 a 42)”. Dalla giurisprudenza eurounitaria si può dedurre, infatti, che, in caso la normativa interna di uno Stato membro dell’unione escluda in un determinato settore (come quello alle dipendenze della Pubblica Amministrazione) la possibilità di trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato illegittimamente reiterato in contratto di lavoro a tempo indeterminato, la stessa normativa deve necessariamente “prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.

La Cassazione tiene a precisare, infatti, che anche se è data facoltà agli Stati di prevedere con una certa elasticità decisionale sulle modalità di applicazione interna della normativa comunitaria, queste “non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”. Necessita, dunque, per non incorrere nella violazione proprio delle norme comunitarie, “poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”, ribadendo che “secondo i termini stessi dell’articolo 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva»”.

La Cassazione, nella sentenza in commento, tiene a precisare preliminarmente che il caso in questione si differenzia da quello trattato nella Sentenza Mascolo e altri, relativa alle cause riunite C-22/13; C-61/13; C-62/13; C-63/13; C-418/13 emanata lo scorso 26 novembre dalla stessa CGUE, stante la particolare situazione dei precari della scuola, che non riguarda e di molto si discosta, rispetto al caso in esame.

Chiarito questo delicato aspetto, presumibilmente non ritenendo applicabile al settore scuola il mero risarcimento del danno da illecita reiterazione di contratti a termine, la Suprema Corte rileva che la clausola 5, punto 1, dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE impone agli Stati membri, proprio per prevenire quegli abusi derivanti dall’utilizzo indiscriminato “di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una fra le misure elencate in tale disposizione, in assenza di misure equivalenti nell’ordinamento nazionale (vedi, per tutte: sentenza Impact, C-268/06, punti 69 e 70)”. Per la Cassazione, dunque, è evidente, considerata la giurisprudenza eurounitaria, che porre a carico del lavoratore l’onere della prova riguardo al danno subito a causa della reiterazione o dell’illegittima apposizione del termine a contratti di lavoro a tempo determinato, rappresenta una violazione del diritto dell’Unione così come ripetutamente interpretato dalla CGUE.

La Cassazione ricorda, inoltre, che proprio il Tribunale di Aosta, riguardo a giudizi analoghi a quello trattato nella sentenza in commento, ha sottoposto alla Corte di Giustizia questione pregiudiziale proprio sulla conformità dell’onere probatorio del danno subito con il diritto dell’Unione (caso Papalia, C-50/13).

Inoltre la Suprema Corte rileva che “la figura del danno-sanzione è prevista dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, che configura la tutela patrimoniale ivi prevista non solo come una forma di rifusione dei danni effettivamente subiti dal lavoratore, ma come una vera e propria sanzione a carico della PA per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti dei dipendenti”. Solo operando in tal senso, secondo la sentenza in commento, “il risarcimento del danno-sanzione rappresenta una “forma adeguata ed equivalente di tutela”, come richiesto dalla giurisprudenza della CGUE”; in caso contrario, infatti, “l’applicazione di tale regime sanzionatorio rischia di risultare una chimera se non si intende il danno come danno-sanzione, che è l’unico vero strumento che può consentire alla PA datrice di lavoro, dopo la condanna subita, di agire nei confronti del dirigente responsabile a titolo di colpa grave”.

La già citata ordinanza Papalia ha, peraltro, esplicitato pianamente che “l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione”.

La copiosa giurisprudenza sul tema prodotta dalla stessa Corte di Giustizia U.E. e richiamata dalla Cassazione, ha, altresì, ribadito più volte che il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, risulta rispettoso dell’Accordo Quadro, “a condizione che l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato preveda, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. E ha aggiunto che, al riguardo, la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato – in assenza di misure equivalenti nell’ordinamento nazionale — l’adozione effettiva e vincolante di almeno una fra le tre misure elencate in tale disposizione attinenti, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi”.

Considerata la circostanza che il diritto dell’Unione non detta sanzioni specifiche in caso di abusi e di violazione della Direttiva 1999/70/CE, la Corte di Cassazione ricorda che “spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro”, ribadendo che “anche se, in assenza di una regolamentazione dell’Unione in materia, le modalità di attuazione di siffatte norme rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, “esse non devono tuttavia essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)”. L’art. 2, comma 1 della Direttiva 1999/70/CE, infatti, prescrive che gli Stati membri dell’Unione devono approntare “tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla direttiva”.

È proprio la Corte di Giustizia Europea, peraltro, che ha ritenuto non rispettosa del principio di effettività citato una interpretazione elaborata dalla Corte Suprema di Cassazione considerando che “per un lavoratore del settore pubblico sarebbe impossibile fornire le prove richieste dal diritto nazionale al fine di ottenere un siffatto risarcimento del danno, poiché gli si imporrebbe di fornire, segnatamente, la prova della perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante”.

L’odierna sentenza della stessa Cassazione, dunque, ammette che un tale onere della prova non è previsto dalla giurisprudenza della CGUE, “secondo cui il danno risarcibile a causa della violazione di una norma contenuta nella direttiva 1999/70 deve derivare immediatamente e direttamente dalla violazione delle norme finalizzate alla tutela dei lavoratori precari.”. La Corte di Giustizia, infatti, ritenendo che la prova richiesta potrebbe “rivelarsi difficilissima, se non quasi impossibile da produrre da parte di un lavoratore, non si può escludere che questa prescrizione sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte di questo lavoratore, dei diritti attribuitigli dall’ordinamento dell’Unione e, segnatamente, del suo diritto al risarcimento del danno sofferto, a causa dell’utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato”.

La Cassazione, dunque, dichiara di non poter non tenere conto della indicata decisione della Corte di Giustizia, nonostante l’orientamento ermeneutico da essa stessa prodotto negli anni, e statuisce la censura di quanto precedentemente ritenuto, proprio in ossequio del primato del diritto comunitario su quello interno. La Corte di Cassazione, dunque, smentisce se stessa nel doveroso rispetto delle disposizioni sovranazionali e chiarisce che il risarcimento del danno deve essere “conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro – che può provare l’esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall’interessato che possono essere escluse — mentre l’interessato deve limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze “falsamente indicate come straordinarie e temporanee” essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)”.

Dall’Ordinanza Papalia, dunque, la Cassazione desume che il regime probatorio da applicare nel caso di illecita e abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, “dovrebbe essere analogo – mutatis mutandis – a quello che si applica per le discriminazioni (in base alla normativa UE, vedi per tutti: art. 4 della legge n. 125 del 1991), secondo cui basta che il ricorrente fornisca elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, spettando alla amministrazione convenuta l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso”.

La sentenza in commento, quindi, passa a enucleare i principi da applicare ai fini del corretto computo del danno e rileva che esso deve essere proporzionato alla fattispecie concreta posta al vaglio dei tribunali. La Cassazione, quindi, evidenzia la necessità di “tenere conto del numero dei contratti a termine, dell’intervallo di tempo intercorrente tra l’uno e l’altro contratto, della durata dei singoli contratti e della complessiva durata del periodo in cui vi è stata la reiterazione” e indica come criterio tendenziale quello riportato nell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

La sentenza della Corte di Cassazione in commento, dunque, riformando precedenti giurisprudenziali da essa stessa prodotti, recepisce quanto disposto dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria statuisce che in caso di discriminazione e sfruttamento del lavoratore a tempo determinato attraverso un’illecita e abusiva reiterazione di contratti a termine al servizio della Pubblica Amministrazione italiana, spetta allo Stato/datore di lavoro l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso. Il lavoratore, dunque, deve limitarsi a provare l’illegittimità della reiterazione di contratti a termine sulla base di esigenze che risultano illecitamente indicate come straordinarie e temporanee ed è esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum).

 

Avv. Salvatore Russo