“ E’ possibile ancora una educazione nella scuola?” Scuola senza padri.
di
Paolo Ferliga,
“Onde, sì come, nato, tosto lo figlio alla tetta della madre s’apprende, così, tosto come in esso alcuno lume d’animo appare, si dee volgere alla correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. E guardisi che non li dea di sé essemplo ne l’opera, che sia contrario a le parole de la correzione: ché naturalmente vedemo ciascuno figlio più mirare le vestigie de li paterni piedi che a l’altre. E però dice e comanda la Legge, che a ciò provvede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparire al li suoi figli; e così appare che la obbedienza fue necessaria in questa etade”…E poi deono essere obbediti maestri e maggiori, cui in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene, essere commesso. Dante, Convivio, IV, xxiv, 14-16;18-20 (Secondo il Convivio: Adolescentia fino a 25, Gioventute fino a 45, Senettute fino a 70, Senio…)
“L’eticità, collegata con la generazione naturale dei figli - e che era stata posta come primaria nello stringere il matrimonio - si realizza nella seconda nascita dei figli, cioè nella loro nascita spirituale: l’educazione di essi a persone autonome” Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto
1. E’ possibile ancora educare nella scuola? 1.1“Qualcosa si sta ammalando nel cuore dell’educazione; è malata nel cuore, e questo cuore non può essere ristabilito con semplici esercizi di base o con una nuova dieta dell’anima, né questo cuore può essere sostituito da una macchina ad alta tecnologia.” (J. Hillman) James Hillman, in Lettera agli insegnanti italiani, (Fondazione Liberal, 2002) ritiene che l’educazione sia responsabile, nell’epoca contemporanea, del fallimento dell’insegnamento, meglio della coppia archetipica Insegnante – Studente. Come la strega nella fiaba di Hansel e Gretel il sistema dell’educazione si nutre di due spinte naturali, il desiderio di imparare e la pulsione ad insegnare, e tende inevitabilmente a distruggerle. Sarebbe quindi necessaria una contro-educazione che sappia cogliere nelle maglie del sistema educativo dei buchi che consentano alla coppia naturale e archetipica dell’insegnante e dello studente di funzionare. “La contro-educazione interiorizza e individualizza, come ha detto Ficino, le uniformità dell’educazione. Individualizzare l’educazione, cioè collocare l’imparare all’interno dell’anima di qualcuno, esige l’eros, non perché l’individualizzare favorisce uno studente a scapito di un altro, il cosiddetto "prediletto dell’insegnante", ma perché l’eros incendia il particolare stile di desiderio di ogni persona.” (J. Hillman). Solo la contro-educazione consentirebbe di attivare nell’Anima il desiderio naturale di imparare, da una parte, e quello di insegnare, dall’altra. Solo dando spazio all’eros che unisce insegnante e allievo in un progetto e nella condivisione di un interesse comune, è possibile favorire lo sviluppo personale e la formazione individuale dello studente. Nella sua analisi Hillman coglie due questioni centrali: l’impossibilità di trasmettere il sapere senza aprire le porte dell’Anima al sentimento e la necessità di una formazione individualizzata perché ciascuno possa sviluppare le proprie capacità, il progetto insito nella ghianda che lo caratterizza. Il sistema dell’educazione risulterebbe malato perché non riconosce l’importanza della sfera affettiva nella trasmissione del sapere e perché non è in grado di realizzare un progetto di insegnamento individualizzato.
1.2. Se è vero che senza cuore e senza tener conto degli aspetti individuali di ciascun allievo, non è possibile insegnare, non credo che si possa addebitare all’educazione la responsabilità del fallimento della scuola che ne deriva. Anzi il sistema scuola è in crisi, secondo me, proprio per una carenza di tipo educativo e formativo. Non si tratta quindi di sviluppare una contro-educazione, ma piuttosto di recuperare il significato originario della parola educazione e di ravvivare, attraverso quel significato, l’insegnamento. Nel recupero di una dimensione educativa si nasconde la possibilità di salvare la scuola e di ridare all’insegnamento quella dignità e quell’importanza che negli ultimi anni sembra avere perduto. Nel suo etimo, la parola educare tiene insieme ciò che spesso la scuola separa: dimensione intellettuale e morale del processo di formazione dello studente. “Portare metodicamente a un conveniente livello di maturità sul piano intellettuale e morale” recita la prima definizione di educazione del dizionario della lingua italiana Devoto-Oli. Si avverte l’eco della convinzione socratica che la verità non possa andare disgiunta dal bene. Il procedere dell’intelletto non può avvenire indipendentemente dallo sviluppo di una coscienza etica. Proprio l’uso comune del termine educazione valorizza l’accezione morale del suo significato. “Condurre a un determinato abito morale” è, infatti, la seconda definizione del Devoto-Oli. La lingua latina (vocabolario Castiglioni-Mariotti) ci aiuta a cogliere altri significati del verbo educare. Allevare, alimentare, nutrire, curare, formare... E da educere, trarre fuori, estrarre, far uscire, condurre, generare… Questi significati mostrano il carattere asimmetrico del processo educativo. Non si tratta tanto della coppia insegnante-allievo che coopererebbero, come se fossero su un piano di parità all’impresa educativa, ma piuttosto di una assunzione di responsabilità da parte dell’educatore che si prende cura della formazione del suo allievo. E’ lui che cura e forma, conduce, genera e fa uscire.
1.3 Il prendersi cura dell’altro nella scuola, non può prescindere dal sentimento. Se non ama i suoi alunni, è difficile che l’insegnante riesca ad educare. Potrà passare dei contenuti e degli strumenti concettuali, anche importanti, ma non passa quell’orizzonte valoriale che è indispensabile per educare. Si tratta di un sentimento simile a quello dei genitori per i figli, che precede e in un certo senso rende possibile la trasmissione del sapere. Solo sullo sfondo di un sentimento naturale è possibile portare un giovane a quella seconda nascita, di tipo spirituale e culturale, in cui consiste per Hegel (Filosofia del diritto) l’educazione. Ma prendersi cura dell’altro significa anche riconoscere che nel processo educativo è in gioco anche il potere. Chi sa, e si suppone che l’educatore sappia, ha un potere che l’educando non ha. Da questo potere deriva la sua autorità. Solo chi detiene questo potere può educare, può condurre la nave fuori dal porto e farla salpare. L’assunzione della responsabilità di educare comporta il riconoscimento di una asimmetria, tra chi forma e chi è formato, che è anche una questione di potere. Disponibilità al sentimento e consapevolezza del proprio potere vanno coniugati. Contro tutte le illusioni di una metodologia “oggettiva”, che sarebbe in grado di sviluppare capacità e fornire competenze agli allievi sulla base di standard uniformi, senza sentimento e senza assunzione di responsabilità, non c’è educazione e nemmeno cultura. Senza sentimento l’autorità degenera in autoritarismo e senza autorità, il sentimento perde forza e si tramuta in vuoto sentimentalismo, privo di un’autentica energia trasformativa. L’autorità rimanda sempre al potere e non vederlo è pericoloso. Il potere non visto e non riconosciuto agisce infatti comunque nella relazione, come fredda e autoritaria imposizione di un insegnamento astratto, incapace di coinvolgere emotivamente gli alunni. Si tratta dal punto di vista della psicologia del profondo dell’Ombra del potere, un archetipo che quando si impadronisce della psiche di una persona tende a farla ammalare gravemente. Il rapporto educativo non è un rapporto orizzontale, ma implica sempre una dimensione verticale, come avete detto nel vostro appello per una rinascita di una cultura educativa verticale, e quindi rimanda ad una asimmetria anche di potere. In questo senso la coppia archetipica, per dirla con Hillman, che soggiace al rapporto educativo, Insegnante-Allievo rimanda ad un’altra coppia archetipica, quella Padre-Figlio su cui tornerò nell’ultima parte di questa relazione Conoscere il potere che si genera nel campo educativo è indispensabile invece per saperne utilizzare l’energia trasformativa e per evitarne gli aspetti d’Ombra. Quelli legati ad una soddisfazione narcisistica del proprio Io (“come sono bravo!”) e all’esercizio delirante del controllo sull’altro. (“devi riconoscermi come autorità!”). Nel caso del rapporto educativo preferisco parlare di sentimento, piuttosto che di eros in quanto mi pare che il termine sentimento meglio esprima l’analogia tra l’educazione impartita dai genitori e quella degli insegnanti e contribuisca a ricollocare la questione dell’educazione su un terreno naturale, legato alla generazione ed alla trasmissione del sapere tra generazioni. Il recupero di questo terreno naturale, vorrei dire spontaneo della relazione educativa, radicato nell’istinto di insegnare e di imparare, nel sentimento spontaneo che proviamo davanti ai bambini e a tutto ciò che nasce, permette di collocare anche la relazione di potere nella sua giusta cornice. Non si tratta del potere sull’altro, ma del potere su di sé. Quel potere che consente di sentire la propria ricchezza e la propria sovrabbondanza e che spinge naturalmente a donarla agli altri. Molti insegnanti ancora oggi fanno questo, donano se stessi e il proprio tempo ai loro alunni e in questo fare realizzano pienamente il loro compito educativo. Per queste ragioni, affinché sia ancora possibile educare nella scuola, è indispensabile riflettere sulla figura e sul ruolo dell’educatore a partire dal nesso tra dimensione affettiva e di potere che quel ruolo comporta. Da quel nesso, da quel legame deriva il principio di autorità indispensabile per la trasmissione di un sapere e di una cultura. Sapere è potere e viceversa. Il sentimento mette in campo una relazione personale carica di rischi e sempre soggetta allo scacco. Ma non esistono scorciatoie metodologiche. La strada passa per l’assunzione di una integrale responsabilità personale.
2. La personalità dell’educatore. 2.1 La questione poste ci costringono a focalizzare l’attenzione sull’insegnante ed a prendere coscienza che nel processo di apprendimento molto, quasi tutto vorrei dire, oggi, dipende dalla personalità dell’educatore, dalle sue conoscenze e dalla sua formazione, ma anche dai suoi atteggiamenti e dalla sua capacità di rispondere a una vocazione. Quella di insegnante. La coppia archetipica Insegnante-Allievo è, da questo punto di vista, una coppia intrapsichica che si “costella”, si struttura, prima di tutto, nell’insegnante stesso. E in questo strutturarsi è centrale la relazione simbolica che essa intrattiene con l’archetipo del Padre. Nei sogni quasi sempre l’insegnante svolge una funzione paterna e ancora oggi, in una società dove la presenza femminile nella scuola si avvia a diventare pressoché totale, compaiono più spesso nei sogni dei pazienti, (anche giovani, uomini e donne) insegnanti maschi nella funzione di consigliare, incoraggiare, aiutare il sognatore a superare od affrontare un problema. Almeno questa è la mia esperienza. La figura del Maestro sembra così imparentata, dal punto di vista archetipico con quella del Padre.
2.2 In una conferenza tenuta nel 1925 al Congresso internazionale degli educatori di Heildelberg, dal titolo Il significato dell’inconscio nell’educazione individuale Jung confronta diversi tipi di educazione e sostiene che l’educazione attraverso l’esempio, è il metodo più efficace, che riesce anche dove gli altri falliscono, perché si basa sull’identità inconscia tra il bambino e i suoi genitori. (Lévy-Bruhl participation mystique). “Su questo dato fondamentale dell’identità psichica si fonda in ultima analisi qualsiasi educazione… Tale fattore è così importante che un cattivo esempio può far fallire completamente anche il miglior metodo educativo che operi a livello conscio.” (Opere, vol. XVII, p. 146) Per questa ragione l’insegnante deve prestare particolare attenzione all’educazione della propria personalità. Non si tratta di educare alla personalità i giovani. Come ideale contrapposto all’uomo-massa la “personalità” è un ideale adulto…” Piuttosto il bambino da educare alla “personalità” è quello che ogni adulto porta dentro di sé. (C.G. Jung Il divenire della personalità 1934, p. 166) “Nessuno può educare ad acquisire una personalità se non la possiede egli stesso. E non il bambino, ma solo l’adulto può acquisire la propria personalità come il frutto maturo di un’intera vita indirizzata a questo scopo.” (p. 166) Come il medico, anche l’educatore, deve avere sempre presente la possibilità di venire ingannato, coscientemente o inconsciamente, e proprio non soltanto dal suo paziente, ma in prima linea da se stesso (p. 111). Perciò il pedagogo dovrebbe prestare molta attenzione al suo proprio stato psichico, per potere, qualora ci sia qualcosa che non funziona con i bambini che gli sono stati affidati, capirne la causa (118). Il pedagogo può errare ed è auspicabile che si renda conto dei propri difetti. “Solo chi è in grado di assentire consapevolmente alla forza della vocazione che gli si fa incontro dal più intimo essere, diventa una personalità.” (174). Ma lo sviluppo della personalità è nello stesso tempo un dono e una disgrazia perché la fedeltà alla propria legge (pistis, fiduciosa lealtà) condanna all’isolamento. Come insegna il rapporto di Socrate col suo demone. Per questa ragione talvolta la nevrosi insorge come tentativo di eludere la vocazione. Ma aderire alla propria vocazione, come mostra la figura di Cristo porta a vivere “l’unica vita che abbia un senso, una vita cioè che mira alla realizzazione individuale…” (p. 175).
3. Processi inconsci e formazione dell’identità personale:appunti da sistemare 3.1 La consapevolezza che i processi inconsci sono più potenti di quelli consci è stata ri-scoperta dall’uomo contemporaneo grazie alla psicoanalisi di Freud e alla psicologia analitica di Jung. A differenza di Freud però Jung ritiene che i contenuti inconsci non siano soltanto quei contenuti che la coscienza individuale ha rimosso e ricacciato nell’inconscio. Oltre al rimosso l’inconscio contiene immagini, alcune di carattere collettivo, cioè che si possono manifestare indipendentemente dall’esperienza personale e dalla collocazione spazio-temporale, che hanno una funzione compensatoria nei confronti della coscienza. In particolare Jung chiama archetipi quegli aspetti dell’inconscio collettivo che si presentano tanto nei miti quanto nei sogni. La presenza delle immagini archetipiche conferisce all’inconscio un carattere vitale e creativo, indispensabile per arricchire e rendere più completa la coscienza individuale e per trovare un senso e una direzione nella vita. Potremmo dire, seguendo Jung, che il sogno svolge, nei confronti della coscienza, una funzione educativa. “La nostra psicologia è dunque una scienza pratica…l’intenzione e l’intimo significato di questa nuova psicologia sono di carattere tanto medico quanto educativo.” (C.G. Jung Psicologia analitica ed educazione,1924-46, p. 92) “Il trattamento mediante l’analisi del sogno è un’attività eminentemente educativa. (p.103) Ed è vero anche l’inverso perché una corretta educazione è la migliore salvaguardia contro la malattia psichica. (Jung parla, Adelphi, p. 78.) Per questa ragione Jung dedica particolare attenzione al problema dell’educazione, come mostrano i suoi scritti raccolti nel vol. XVII delle Opere, sotto il titolo Lo sviluppo della personalità. Le fantasie omosessuali mostrano con evidenza come l’esigenza di amore vero non sia soddisfatta. (p. 125) I genitori… E la poca educazione e la mancanza di consapevolezza degli educatori stessi hanno effetti molto più intensi dei loro consigli più o meno buoni, dei loro ordini, dei loro castighi e delle loro intenzioni. (p. 129) 3.2 All’inizio della vita questa identità si realizza nei confronti della madre, ma proprio la percezione inconscia che questa identità non può perdurare troppo nel tempo fa sì che nell’evoluzione naturale della personalità, l’istinto afferri la prima opportunità che si presenta per sostituire la madre con un altro oggetto. (p. 153) L’altro che rompe la diade madre-figlio/a è il padre. Nell’identità non c’è distinzione cognitivo- affettiva fra differenti individui. Si tratta di identità inconscia con l’oggetto. L’identificazione, per quanto inconscia, viene a compiersi tra sé e un altro in sé già distinti e separati tra loro. “…l’identificazione può essere utile fin tanto che manca ancora la possibilità di percorrere una via individuale.” (Tipi psicologici, p. 449) 3.3 Istituto dell’iniziazione, il rito di passaggio all’età virile e adulta. “Sotto questo aspetto l’omosessualità dell’adolescenza è il bisogno della presenza di un uomo, frainteso certo, ma comunque utile.” (155). Identificazione col padre per uscire dall’identità con la madre. Ma come è possibile nella società senza padri? E la scuola che ruolo potrebbe svolgere se ci fossero insegnanti maschi? Agli inizi del secolo scorso Freud ricordava, con una passione inusuale per lui, i suoi insegnanti: “L’emozione che provavo incontrando i miei vecchi professori del ginnasio mi induce a fare una prima ammissione: è difficile stabilire che cosa ci importasse di più, se avessimo più interesse per le scienze che ci venivano insegnate o per la persona dei nostri insegnanti. … Questi uomini, che pure non furono tutti dei padri, diventarono per noi i sostituti del padre.” [1] Ma oggi difficilmente gli studenti possono provare quel tipo di emozione. Nella scuola infatti gli insegnanti maschi sono una specie in via di estinzione: nei paesi dell’OCSE gli insegnanti della scuola elementare e dell’infanzia sono quasi solo femmine (94%), (in Italia il 94,6% alle elementari) e quelli della scuola secondaria inferiore lo sono al 62,7%, mentre quelli delle superiori al 48,9%. In prospettiva la femminilizzazione è destinata a crescere rapidamente anche in questo ordine di scuole. Le insegnanti donne sotto i trent’anni raggiungono infatti alle medie, già oggi in Italia, il 72% del totale e la partecipazione ai concorsi per l’insegnamento vede una schiacciante maggioranza femminile.[2] Si comprende la gravità della situazione se si riflette sul fatto che la presenza di figure maschili accanto a quelle femminili ha sempre favorito nella scuola i processi di identificazione degli adolescenti, indispensabili per la loro crescita psicologica. Per i maschi il professore rappresenta infatti una figura in cui potersi identificare e/o disidentificare, fino a quando non si raggiunge una piena maturità. Può piacere o non piacere. Aiuta comunque un giovane a dirsi: “Da grande vorrò (o non vorrò) essere così.” Per le ragazze l’insegnante maschio rappresenta simbolicamente l’altro da sé, in forma matura rispetto ai giovani coetanei. Permette loro di abbozzare delle fantasie sul futuro. “Da grande mi piacerebbe (o non mi piacerebbe) un uomo di quel tipo.” Consente di sviluppare in modo più completo e articolato il proprio lato maschile interiore, quello che Jung chiama Animus che, come vedremo, riveste un’importanza fondamentale nell’equilibrio psichico di una donna. Oggi invece la scuola tende a diventare rapidamente un luogo unisex. In fondo si è affermata l’idea che il genere dell’insegnante sia del tutto ininfluente nella crescita psico-fisica degli studenti, a tal punto che anche l’insegnante di Educazione fisica è diventato lo stesso per maschi e femmine. La scuola si presenta, da questo punto di vista, come una zona grigia, omologante, in cui non è importante crescere come donne e come uomini nella ricchezza delle proprie differenze, ma solo come studenti che, alla fine, si distinguono in base ad una valutazione di tipo prevalentemente quantitativo. La funzione paterna svolta dalla scuola non soffre solo per la mancanza di insegnanti maschi, ma anche per il venir meno, dal punto di vista culturale, di un saldo rapporto con la tradizione e con il passato nella loro dimensione trascendente [3] che, andando oltre l’aspetto contingente del tempo, permette al presente di assumere senso e significato. Si tratta in altre parole del rapporto con la memoria e con la storia della nostra civiltà, di cui gli insegnanti sono in gran parte responsabili nei confronti delle nuove generazioni. Proprio la crisi del rapporto con il passato ha fortemente indebolito l’autorità[4] degli insegnanti, uomini e donne. La scuola come istituzione si è illusa di poterla supplire con procedure di tipo burocratico. Al rapporto anche emotivo tra maestro e allievo, modellato sulla relazione verticale padre-figlio, si è così sostituito un rapporto che tende per sua natura al massimo di spersonalizzazione delle funzioni: gli insegnanti vengono invitati a conseguire obiettivi didattici e formativi, ad attribuire crediti e debiti, a valutare capacità, competenze e conoscenze. L’aspetto formativo della loro funzione resta di fatto residuale, a favore di un modello mutuato da una concezione dall’organizzazione aziendale, peraltro vecchia, finalizzata all’ottimizzazione delle risorse.[5] Ciò è particolarmente evidente nei sistemi di verifica: sempre più test e prove scritte, sempre meno interrogazioni e valutazioni orali. Siamo ben lontani dall’insegnamento di Socrate, che non solo era esclusivamente orale, ma valorizzava il dialogo come momento indispensabile per accedere alla verità. Nonostante tutti gli sforzi di una pedagogia e di una metodologia ‘scientifica’, i giovani sembrano oggi incontrare maggiori difficoltà nella loro maturazione. Certo la scuola non ne è la prima e nemmeno l’unica responsabile, coinvolta in un processo che, come abbiamo visto, ha radici lontane. Però una scuola sempre più facile e meno impegnativa, basti pensare all’abolizione degli esami a settembre e, di fatto, dell’esame di maturità, priva i giovani di quelle difficoltà che sono indispensabili in ogni processo di crescita. Senza prove e senza sacrifici non si cresce. Accade così che l’iniziazione alla vita ed alla società, di cui una volta erano custodi i padri, si ripresenti oggi in forme degenerate ed altamente rischiose per l’integrità psichica degli adolescenti. La crisi dell’autorità degli insegnanti infatti consegna gli studenti al giudizio ed all’arbitrio del gruppo dei pari, dei coetanei, che esercitano sempre sul singolo un potere coercitivo, basato sulla legge della forza e del numero: se non ti comporti come vuole il gruppo vieni escluso ed isolato. La scuola rischia allora di configurarsi come uno di quei nonluoghi[6] dove l’iniziazione, perduto il carattere di trasmissione verticale di saperi, valori e pratiche di vita, degenera in una comunicazione orizzontale di atteggiamenti psicologici e di comportamenti prevalentemente consumistici, guidati soprattutto dalle esigenze del mercato. Per i più piccoli, merendine e gadgets diventano prodotti irrinunciabili e favoriscono, fin dall’infanzia, il diffondersi di comportamenti di tipo conformista.[7] Per i più grandi l’uso di sostanze stupefacenti, di alcolici e superalcolici si iscrive nello stesso orizzonte simbolico di una moda sempre più griffata, dell’esibizione del lusso o di status symbol. Per tutti la dipendenza dalle immagini, della televisione e del computer, sviluppa in modo preoccupante un atteggiamento di tipo dipendente e passivo.
NOTE [1] S. Freud, Psicologia del ginnasiale (1914), Opere, vol. VII, Bollati Boringhieri , Torino 1089, pp. 478 e 480. [2] In Italia le percentuali di insegnanti donne sono sempre più alte della media OCSE. Per un breve commento a questi dati vedi C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, Ed. San Paolo, Milano 2003, p. 61. [3] H. Arendt, Tra passato e futuro, p. 247 sg.. [4] L’autorità dell’insegnante coincide con l’autorevolezza e non certo con il potere. “L’autorità comporta un’obbedienza nella quale gli uomini rimangono liberi.” Ibid., p. 147. [5] Oggi si fa strada proprio nell’organizzazione aziendale l’idea dell’importanza della formazione e della necessità di individuare forme di ‘tutor’ modellate su un ruolo paterno. Vedi D. Boldizzoni, R.C.D. Nacamulli, (a cura) Oltre l’aula. Strategie di formazione nell’economia della conoscenza, Apogeo, Milano, 2004. [6] “ Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico uno spazio che non può definirsi né relazionale né storico, definirà un nonluogo.” M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1996, p. 73. [7] Talvolta i bambini reagiscono a questa situazione omologante sviluppando atteggiamenti irrequieti e poco convenzionali con i quali sarebbe importante che gli educatori entrassero in rapporto per coglierne anche le potenzialità trasformative. Invece oggi si sta diffondendo l’idea che si tratti di una sindrome definita ADHD (attention disturb hyperactivity disorder ) da curare farmacologicamente. Così anche in Italia il metilfenidato è stato derubricato da stupefacente a psicofarmaco rendendone di fatto più facile l’accesso. Si tratta di una anfetamina prodotta dalla Novartis col nome di Ritalin che copre il 90% delle cure somministrate ai ‘pazienti’ affetti dalla suddetta sindrome. In Usa è ritenuta una droga di strada, che produce assuefazione, della stessa classe dei narcotici, come eroina, morfina e cocaina. Vedi a questo proposito il sito wwww.medicinenon.it//add.adhd_3.htm
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