Orgoglio professionale & associazioni disciplinari

"PRENDERE LA SCUOLA A PALLATE DI STERCO

E' DIVENTATO UNO SPORT NAZIONALE".

Conversazione con Adriano Colombo, segretario nazionale del GISCEL.

di Stefano Borgarelli,  DocentINclasse, 24/1/2006

 

Insegno italiano, le elaborazioni teoriche e la meritoria azione del GISCEL mi sono familiari da parecchio tempo. Puoi tracciare un profilo della tua associazione per gli utenti di questo sito, che rappresentano tutte le materie?

Il GISCEL si è costituito come “Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica” nell’ambito della Società di Linguistica Italiana (SLI); col tempo si è articolato in gruppi regionali, che sono attualmente una quindicina (più un gruppo extra moenia costituito in Giappone da italianisti e lettori di italiano).

Le sue caratteristiche sono lo stretto rapporto fra docenti universitari e non e l’articolazione in gruppi di ricerca teorico-didattica. Sono caratteri comuni ad alcune associazioni disciplinari di insegnanti.

La sua attività culmina nei Convegni nazionali biennali (si sta per tenere il quattordicesimo), dedicati a temi specifici dell’educazione linguistica (ad esempio la scrittura, il lessico, lo svantaggio linguistico, educazione linguistica ed educazione letteraria) e le pubblicazioni che conseguono a questi e ad altri momenti di ricerca (sta per uscire il trentesimo libro dal 1985 a oggi).

Con questi caratteri, il GISCEL non assume dimensioni di massa: i soci a pieno titolo (cioè iscritti anche alla SLI) sono circa duecentocinquanta, molti altri colleghi frequentano le attività senza iscriversi, molti di più sono raggiunti dalle attività di formazione in servizio che svolgono i soci, sia in sedi associative sia in svariate sedi istituzionali.

 

Un pilastro dell’azione del GISCEL nel campo dell’educazione linguistica è costituito dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, un “manifesto” del 1975 che gettava le basi per un rinnovamento profondo degli insegnamenti linguistici. Le Tesi furono allora elaborate e sottoscritte da un folto gruppo di docenti universitari e di scuola: qual era il clima culturale in cui maturò quella sinergia così feconda, capace d’abbattere gli steccati?

Forse non è facile, per chi non ha vissuto quegli anni, ricostruire il clima politico-culturale in cui è nato quel documento e tutto il movimento che vi ha ruotato intorno. C’era l’esperienza dei grandi pionieri dell’educazione democratica come Mario Lodi, Bruno Ciari, don Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana, e tanti altri. C’era in atto la fase “eroica” dei corsi delle “150 ore” per l’alfabetizzazione dei lavoratori, che erano il risultato di un forte impegno del movimento sindacale sui temi culturali ed educativi. C’era la critica radicale del movimento del Sessantotto, che aveva richiamato la scuola e la ricerca alle loro responsabilità sociali. Era anche un momento di forte rinnovamento degli studi linguistici, e per tutta una fase si creò un nesso stretto fra linguistica, educazione e impegno politico.

Le Dieci tesi sono una sintesi brillante di tutto questo: partono dalla centralità della lingua nello sviluppo individuale e sociale, dalla necessità di rimuovere gli ostacoli linguistici alla piena partecipazione di tutti alla vita collettiva (articolo 3 della Costituzione), richiamano a questo compito la scuola e tutte le istituzioni culturali e politiche, svolgono una critica serrata a un’educazione linguistica “tradizionale” che faceva (fa ancora?) della lingua uno strumento di selezione e discriminazione.

Certo molte cose sono cambiate da trent’anni a questa parte: ad esempio, non esiste più una correlazione diretta fra prestazioni linguistiche degli studenti e reddito familiare, ma contano più altre variabili, come la scolarizzazione e gli interessi culturali dei genitori; certe condizioni sono migliorate, nel senso che la generazione di linguisti che in quegli anni esordiva ci ha messo a disposizione una quantità di strumenti scientifici, utili anche a progettare l’educazione, che allora non esistevano; altre sono peggiorate: è crollato l’investimento sociale nella scuola (e non parlo di risorse finanziarie), e con esso è diminuita la tensione professionale di parte degli insegnanti. Per contro, la didattica ha fatto notevoli passi avanti.

Con tutto questo, il messaggio delle Dieci tesi resta valido nella sostanza e continua ad animare il lavoro della nostra associazione.

 

In vista della Giornata di studio A trent’anni dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, svoltasi a Roma nell’aprile 2005, il GISCEL ha condotto un’indagine tra quasi 700 insegnanti d’Italiano, mostrando che più della metà di loro non aveva mai sentito parlare delle Dieci tesi. Come interpreti questa perdita di memoria storica?

Perché parlare di una “perdita”? Il rinnovamento dell’educazione linguistica ha riguardato una minoranza di insegnanti, per quanto consistente; sono convinto che venti anni fa una ricerca analoga non avrebbe dato esiti diversi.

Basta pensare a quale è stata la politica, o la non-politica, del personale e della sua formazione in tutti questi anni per rendersi conto che messaggi culturalmente e professionalmente impegnativi dovevano stentare a diffondersi. L’amministrazione a volte non ha diffuso nemmeno i programmi vigenti, altro che tesi! Tutta l’attenzione è stata attirata su improvvisazioni buropedagigicihe come gli “obiettivi” o le schede di valutazione, lasciando poco spazio alle questioni di fondo e alla didattica vera.

Certo questo non esime dalle sue responsabilità un’associazione come la nostra, ma bisogna pure accettare realisticamente che le sue possibilità di raggiungere grandi masse di insegnanti sono limitate. Preferirei guardare alla parte del bicchiere mezzo piena: a quel 18% che ha detto di aver letto le Tesi, a quel 21% che comunque ne sa qualcosa.

Il nostro intervento poi non si rivolge solo a chi insegna italiano: la lingua è una dimensione trasversale dell’esperienza e della cultura, e il successo negli studi, in qualunque campo, passa attraverso la padronanza linguistica. Tutti gli insegnanti fanno in qualche misura educazione linguistica, il problema è che assumano questo ruolo consapevolmente. Noi abbiamo preso delle iniziative in questo senso: seminari sulla “scrittura in contesti disciplinari” che hanno coinvolto, accanto agli italianisti, docenti di scienze, storia, filosofia...

 

Mentre nella Commissione De Mauro che elaborava le indicazioni curricolari per l’attuazione della riforma dei cicli, le associazioni disciplinari erano largamente presenti, col cambio di legislatura e di maggioranza il loro lavoro è stato azzerato. In una tavola rotonda con altri esponenti delle associazioni, come si legge su “Riforma & Didattica. Tra formazione e ricerca” - n. 4/2004, hai affermato: “[…] per la prima volta, nella storia della Repubblica, si sta procedendo a una innovazione radicale del sistema scolastico senza nessuna forma di concertazione tra diverse correnti politiche e culturali, senza una grande consultazione del mondo della scuola e della ricerca didattica. Tutta l’elaborazione avviene in sedi imprecisate, in condizioni di completa opacità.” Imputi quanto accaduto solo all’arroganza dei nuovi vertici ministeriali, in perfetto accordo coi pedagogisti di stato, o anche a relativa debolezza “contrattuale” – per così dire – delle associazioni stesse?

La forza delle associazioni disciplinari degli insegnanti è nelle esperienze e competenze di cui sono portatrici, che nell’insieme formano un patrimonio unico. Ma non sono certo associazioni in grado di mobilitare le masse, per cui dipende esclusivamente dal potere politico servirsi di questa competenza o di improvvisati pasticcioni, come ha fatto questa maggioranza.

Per “farsi sentire” bisognerebbe raggiungere l’informazione, ma dove la vedi una stampa attenta ai competenti? In anni di sforzi il Forum delle associazioni disciplinari ha ottenuto una volta un articolino su Repubblica (con qualche imprecisione di fatto, se no che giornalismo sarebbe?).

 

In che misura credi contribuiscano associazioni come il GISCEL alla ridefinizione d’un profilo dell’insegnante all’altezza del lavoro intellettuale che svolge, spesso non percepito con la chiarezza necessaria nel suo valore, in primo luogo da chi fa questo mestiere?

In un documento per la nostra associazione ho scritto: «Il primo compito della formazione in servizio è aiutare gli insegnanti a ritrovare serenità, riprendendo piena consapevolezza del proprio ruolo professionale e sociale». Tutto il nostro lavoro è un appello implicito all’orgoglio professionale: vogliamo essere professionisti competenti, e riconosciuti come tali.

Prendere la scuola a pallate di sterco è diventato uno sport nazionale (vedi l’intervista di Veneziani; ma quanti discorsi simili anche “a sinistra”?). Sta a noi ricordare che la scuola nei decenni passati ha compiuto, da sola o quasi, il miracolo della scolarizzazione di massa. Adesso, sempre lasciata sola o quasi, sta svolgendo un lavoro per l’integrazione degli immigrati incomparabile a quello di qualunque altra istituzione. Il corpo docente ha visto crollare il suo prestigio sociale; l’importante è che non si lasci vincere da pur fondate frustrazioni. facendosi coinvolgere in una specie di autodenigrazione.

Il nostro contributo è che rivolgiamo ai colleghi discorsi didatticamente molto concreti, ma che contemporaneamente guardano in alto, alle ragioni scientifiche e al valore sociale del nostro mestiere.

 

Intervista a cura di Stefano Borgarelli