La maestra dell'800 . . . non era un buon partito.
di Annalisa Santi, dal
SAM - Gilda,
2/3/2006
Riandare con il pensiero alla figura della
maestra nell’Ottocento non è soltanto un’importante commemorazione
storica che testimonia la nascita e l’affermazione della categoria
magistrale, ma è anche la significativa volontà di riappropriarsi di
un passato “delle origini” che appartiene a noi tutte insegnanti
elementari. Fin dall’inizio della sua storia l’insegnamento venne
considerato una sorta di “missione” a cui votarsi e alla quale
dedicare interamente la propria vita. Una missione totalizzante che
investiva sia la sfera pubblica che la sfera privata, nella quale il
matrimonio, obiettivo che riguardava tutte le donne di “casa”, non era
previsto.
Nella mentalità comune una donna che lavorava dalle sei alle otto ore
fuori di casa non poteva essere la moglie ideale: lo svolgimento delle
faccende domestiche richiedeva allora un’enorme quantità di tempo ed
energie, energie che alle maestre venivano appunto sottratte dalla
scuola. Insegnare si presentava come un lavoro alquanto faticoso anche
dal punto di vista fisico: la maestra doveva raggiungere a piedi la
propria scuola, spesso situata lontano o in luoghi disagevoli. Una
volta arrivata doveva adoperarsi per il riscaldamento delle proprie
aule e per organizzare anche fisicamente la lezione. L’arrivo della
scolaresca, di solito una pluriclasse numerosa con più di quaranta
alunni di età diverse, segnava l’inizio di un’intensa mattinata
scolastica. Non di rado la maestra, oltre alle lezioni regolari del
mattino, doveva assicurare la sua presenza anche nei corsi serali e
festivi per gli adulti. Tali iniziative, organizzate dai Comuni,
avevano sì il lodevole scopo di ridurre l’analfabetismo, ma
ricorrevano di fatto al medesimo personale che svolgeva il servizio al
mattino, di fatto oberandolo con doppi turni di lavoro.
La ricompensa per le molte ore dedicate alla scuola era tutt’altro che
generosa, i salari erano molto bassi, soprattutto nelle scuole rurali:
un uomo che sposava una maestra avrebbe avuto una moglie che per sole
330 lire annue sarebbe stata impegnata buona parte del giorno in
scuole malsane, umide e malriscaldate. Una donna spesso a rischio di
malattie come la tubercolosi, mentre una florida robustezza e una
buona salute costituivano delle qualità irrinunciabili nella scelta di
una moglie: tali prerogative appartenevano più alle contadine e alle
operaie, che alle maestre. La loro stessa giovinezza, trascorsa a
studiare nelle stanze buie e spartane dei conventi, diventava un
marchio caratteriale che le accomunava più alle monache che alle altre
donne. Da ciò scaturiva la convinzione popolare che esse fossero
giustamente destinate ad una condizione di eterno nubilato.
Riguardo la sfera morale, la remissività veniva considerata una
qualità femminile irrinunciabile: al momento dell’assunzione in
servizio (che seguiva criteri molto discrezionali), venivano preferite
quelle maestre che davano prova di assoluta sottomissione: nessun
Comune ne avrebbe assunto una che si battesse per i propri diritti e
che rivendicasse l’autonomia del proprio lavoro. L’aspirante maestra
non avrebbe mai dovuto porre in discussione l’autorità maschile,
compiendo il tentativo esecrabile di rovesciare gli atavici ruoli
sessuali del comandare e dell’ubbidire. Tutta la comunità avrebbe
trovato sconveniente avere in paese una maestra che andasse a testa
alta per la strada, in modo “sfrontato”, rifiutando di piegarsi al
ruolo servile che da essa ci si attendeva. Possedendo simili requisiti
diventava impossibile sia trovare un lavoro, sia un marito.
Solo alcune categorie maschili consideravano la maestra come la moglie
più adatta. A dire il vero si trattava di poche eccezioni, ma il loro
numero era destinato ad aumentare con il passare degli anni,
contribuendo a smantellare i pregiudizi. Vi appartenevano solitamente
uomini che lavoravano nel settore pubblico, di cultura medio-alta e
con una mentalità decisamente moderna per quei tempi. Apprezzavano una
donna che avesse scelto con coraggio la carriera del lavoro
intellettuale e con la quale avevano in comune la stessa formazione
umanistica. Spesso si trattava di uomini di legge, impiegati,
funzionari del Regno, medici, talvolta sottufficiali dell’esercito
regio, che si mostravano desiderosi di formare una nuova famiglia con
una donna del luogo. Erano uomini che per le nozze non ritenevano
necessaria una ricca dote, di cui spesso le giovani maestre erano
sprovviste in quanto orfane, o appartenenti a famiglie borghesi cadute
in rovina. Queste giovani, che avevano studiato generalmente in
educandati femminili, possedevano un tasso culturale ben al di sopra
della media delle altre donne del popolo e costituivano una rarità. Va
precisato, d’altro canto, che la scolarità femminile spesso non veniva
considerata un pregio: veniva ancora guardata con sospetto, come
qualcosa di sovversivo. C’era una grande reticenza nel far studiare le
bambine: generalmente le famiglie preferivano scolarizzare i figli
maschi: pensiamo che in alcune zone dell’Italia, nel 1861,
l’analfabetismo femminile raggiungeva ancora picchi dell’81%. Le
uniche donne istruite che non fossero monache o aristocratiche erano
appunto le maestre, tra l’altro spesso scelte come mogli soprattutto
dai loro colleghi insegnanti.
Questa diffusa condizione di nubilato a partire dal 1880 inizia a
registrare una lieve inversione di tendenza: uno sguardo agli archivi
dei comuni rurali rivela la presenza di maestre che utilizzavano il
doppio cognome di donne sposate. Affiancando così il proprio
nominativo a quello del marito esse dimostravano la volontà di
rivendicare con orgoglio, agli occhi di una società ancora ostile, la
propria condizione di educatrice, di moglie e di madre. Le cifre
ufficiali tuttavia poco ci illuminano sulle unioni di fatto che molte
maestre, spesso loro malgrado, si trovarono a condurre: gli archivi
parlano solo dei matrimoni per così dire “leciti”, poco trapela delle
situazioni di miseria e di povertà che obbligavano le maestre a
concedersi ai potenti locali, rinunciando per sempre “all’onore” e
alla speranza di crearsi una famiglia propria: diari e lettere
testimoniano spesso vicende di abusi, di degrado e di povertà. E se è
vero che nelle campagne si registravano le situazioni peggiori, anche
nelle aree urbane si verificavano pesanti condizionamenti: in alcuni
casi una maestra non poteva sposarsi senza un’autorizzazione speciale
del sindaco, il quale, mediante un provvedimento, accondiscendeva in
un certo senso al matrimonio. Una misura che testimonia quanto fosse
diffusa l’opinione secondo la quale alla maestra dovesse bastare una
famiglia astratta, “ideale”, costituita dai suoi alunni, e che essa
non dovesse coltivare inutili velleità matrimoniali, per dedicarsi
unicamente ai figli della patria.
Annalisa Santi