Maestro è colui
che aspetta là
ove l’allievo deve arrivare
A. G. Gargani
Premessa n°1:
Dei dispositivi del motivare
Siamo immersi nella
cultura di massa, che tradotto in altre parole vuol dire cultura del
divertimento, stiamo sempre più inoltrandoci nel paese dei
balocchi, televisivi o meno. Il sogno invade lo spazio del reale.
E
anche nelle direttive, nei congressi, nei corsi di aggiornamento di
– almeno - questi ultimi 10 anni, a volte tematizzata
esplicitamente, a volte data per presupposto scontato ed ovvio,
corre la parola d’ordine: attrarre l’allievo, motivarlo, catturarlo
nella rete onirica da noi ordita per poi somministrargli la dote
quotidiana di “informazioni” o “competenze”. I ragazzi chiedono di
sognare e noi li assecondiamo. La ricreazione non è affatto
finita, per parafrasare il celebre testo di Bottani. Dalla stessa
logica nasce il POF. I trucchi per “gestire” una classe, che va
coccolata nell’eventuale pretesa di continuare il suo sogno, sono
diventati parte essenziale della professionalità del
mestiere-insegnante. Lentamente è stata messa ai margini, giudicata
obsoleta, la serietà di quel lavoro adulto che è la trasmissione di
un sapere “libero e disinteressato” (detto nei termini politici
della grande tradizione liberale, alla M. Weber: disinteressato ad
altri fini estranei all’insegnamento); di questo lavoro adulto -
detto in termini invece più vicini alla sensibilità contemporanea,è
stata messo in ombra il senso profondo: l’insegnamento come
esercizio volto a trasmettere linguaggi e saperi alle nuove
generazioni, con la finalità che diventino adulte e responsabili,
consegnando loro le conoscenze di cui una civiltà è custode.
Premessa n°2:
Del credo aziendalista
Su
questo punto sono state già spese molte parole e quindi non mi
soffermo troppo. Questo punto, faccio notare, è legato al primo. È
ovvio infatti che, essendo le scuole agenzie culturali che si fanno
concorrenza in un contesto culturale complessivo “nutrito” dalla
cultura di massa, quello che ne consegue è una gara al ribasso delle
proposte culturali ed insieme una sfida al ribasso
dell’autorevolezza del prestigio e della serietà del lavoro docente.
Nello stesso tempo questa prospettiva è molto feconda per introdurre
un altro aspetto: la cultura aziendalista che, sotto le spoglie
dell’autonomia, ha ammantato le scuole, è la cultura che professa la
nuova fede tecnologica: il know-how, la flessibilità, lo spirito
d’impresa, le tre “I”, il saper specialistico, ecc. ecc. Sono la
spia di quella che un filosofo come Severino chiama: civiltà della
Tecnica. In tale quadro occorre essere consapevoli. Consapevoli che
– come dice Severino - si sta attuando uno scontro: tra un mondo
antico, rappresentato dalla tradizione filosofica, religiosa,
politica ed umanistica e il mondo della Razionalità
scientifico-tecnologica.
Non si può non essere d’accordo: l’idolo del razionalismo tecnico ha
pervaso la scuola. Ma il problema, come si vede, estenderebbe a un
orizzonte molto più ampio.
***
Per tornare ad una prospettiva più incentrata sui territori
scolastici, credo che,
se il quadro delineato è questo
ci sarà utile scambiar quattro chiacchiere sul come
stare in campo
senza risentimento, senza sentirsi amareggiati o
vittime
o comunque lamentosi di tutto quel che accade…
Forse un po’ di nicciana fierezza di operosità “inattuale” ci
gioverebbe.
Ma
per avere la forza di farlo occorre essere saldi del proprio
essere. E per far questo occorre una assertività del proprio ruolo
sociale, averla chiarita e interiorizzata: qualcuno se la fa da
solo, qualcuno dopo un processo in relazione con qualcuno, magari
incontrato nelle pagine d’un libro.
Questa consapevolezza cosa dice? Che noi rappresentiamo, incarniamo
– degnamente o meno - un Valore: i saperi che la società ha maturato
nel tempo. Questo sapere può avere come tutte le cose mondane,
limiti e mancanze; è comunque qualcosa da conoscere. Ha un valore
che trascende noi.
Occorre quindi essere portatori-portatrici di una fierezza antica.
Questo significa anche essere non ciechi e non ingenui di fronte
all’età critica che stiamo vivendo, e questo si riallaccia a quanto
mette in luce Severino.
Il
conservare non può essere tacciato di oscurantismo e
conservatorismo, così come – per fare un esempio tra tanti - il
“giorno della memoria” non può essere visto se non come
un’istituzione che si attualizza per promuovere un pensiero critico.
Io
mi sento molto aiutata dal pensiero di Hannah Arendt, laddove dice
(Le citazioni sono tratte dal libro Tra passato e futuro):
“Secondo me il conservare è parte essenziale dell’attività
educativa, che si prefigge sempre il custodire, il proteggere
qualcosa: il bambino, il mondo, il bambino dal mondo e il mondo dal
bambino, il nuovo dal vecchio, il vecchio dal nuovo. La
responsabilità globale che l’educatore si assume rispetto al mondo
nasce da una posizione “conservatrice”, ma questo vale solo nella
sfera dell’educazione, o meglio nei rapporti tra adulti e bambini,
non già nell’ambito politico”. Nella sfera educativa i rapporti
devono cioè essere necessariamente asimmetrici, mentre così non è
nelle altre relazioni umane.
“L’insegnante è come un operaio/a che sempre aggiusta il vecchio
perché non si deturpi del logorio del tempo e inoltre si disponga ad
essere usato dalle nuove generazioni. Anche la “negazione” di questo
materiale ”vecchio” fa parte di un processo dialettico vitale.
Qui sta un punto decisivo: “Per secoli, cioè lungo l’intero periodo
della civiltà romano-cristiana, non c’è stato bisogno che
l’educatore fosse conscio di questa sua caratteristica specifica; il
rispetto del passato era parte essenziale della mentalità romana che
il cristianesimo non modificò né soppresse, ma semplicemente
trasferì su basi diverse”. “Tanto completa era la concordanza tra l’ethos
specifico del principio educativo e il senso etico e morale vigente
nell’insieme della società (che) l’autorità di chi insegna(va)
è(era) fermamente radicata nell’autorità trascendente del passato.
Ma oggi non siamo più in quella situazione ed è poco ragionevole
comportarsi come se ci fossimo ancora”.
Ciò per cui la Arendt mi aiuta a non abbassare il livello del mio
orizzonte di attesa, sia rispetto la classe che mi è affidata, sia
rispetto gli organismi scolastici, è l’idea della responsabilità che
mi trascende e insieme mi garantisce: “L’insegnante si qualifica per
conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in
proposito... è autorevole in quanto, di quel mondo si assume la
responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante
di tutti i cittadini adulti della terra. Se si sottrae è come se
dicesse: ”me ne lavo le mani” o “arrangiatevi”.
***
Un
articolo della Costituzione, il 34, afferma nel terzo comma: “I
capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi”. Con l’avvento della
scolarità di massa e dopo il ’68 è stato interpretato nel senso che
tutti hanno il diritto di “raggiungerli. Ma non era questa
l’intenzione del legislatore. “Si è voluto dimenticare che questo
comma è anche una asserzione implicita – come scrive M. Salvati sul
Corriere della Sera magazine del 13.1.05- ma chiarissima, del
rigore e della serietà dei gradi più alti degli studi e quindi della
necessità di selezione, parola tabù da trent’anni a questa parte”
(così come mai attuato è stato il comma successivo sulle provvidenze
allo studio per tali alunni).
L’ethos
condiviso, nel primissimo dopoguerra, ancora era orientato a saldare
in una coappartenenza le idee di valore dei saperi, loro
trasmissione rigorosa e riconoscimento del merito. Oggi non più. Ma
questo disconoscimento non è un buon motivo per fare naufragare
quell’ethos anche con la nostra complicità o resa.
Queste posizioni non vanno fraintese, né a “destra” né a “sinistra”:
non si rimpiangono qui “i bastioni perduti”. Quello che una politica
antiautoritaria sulla scuola ha scalzato negli anni 70 e 80 non è in
questione (siamo ben lontani da questo pericolo!). L’insegnante che
ama il suo lavoro non ci pensa nemmeno a rivendicare “privilegi
professionali” o stili di insegnamento imperturbabili o tiepidi di
fronte alle persone che danno vita/costituiscono la classe. Le
“buone pratiche” sono sempre un tesoro: la crescita degli allievi è
la causa formale del nostro lavoro quotidiano, non il preservare
saperi morti. La relazione con loro connota in maniera indiscutibile
questa nostra scelta, o vocazione. Ma di scelta si tratta, di
decisione, di vocazione: non ci siano ripensamenti. E in quanto
tale, l’insegnante è in grado di sapere quel che è bene e quel che
bene non è. Pur sapendo socraticamente di non essere onnisciente,
non può lasciarsi “indebolire” dai ricatti dei sensi di colpa, o di
scrupoli per questioni malposte, da seduzioni di profili
professionali “ingenui”, nel senso di accondiscendenti a quel sogno
adolescenziale, di cui parlavo all’inizio, che il senso comune pare
inseguire. Facciamo un parallelo: un buon psicanalista è assai
sensibile e attento alla relazione che instaura con il suo paziente.
E come potrebbe degnamente lavorare, come potrebbe pensare di
ottenere miglioramenti? Eppure non sarà mai lui/lei a rompere il
silenzio all’inizio di ogni seduta. Deve essere il paziente ad
“agire”.
Aver cara la relazione educativa non è quindi equivalente al
confondere i confini di ciò che debbo fare io insegnante e di ciò
che devi fare tu allievo. Io, insegnante, posso (devo?) motivarti
allo studio, ma fino ad un certo punto (espressione sempre di
Arendt); adotto strategie per limitare il tuo senso di
estraneità ai vari argomenti, ma fino ad un certo punto. Ho
l’obbligo piuttosto di ascoltarti, di sostenerti nell’accesso ai
linguaggi, di trasmetterti e consegnarti la preziosità di un
determinato tema di studio, perché in esso tu possa cogliere
scintille di vita. E di valorizzare la curvatura originale che tale
materiale acquista ai tuoi occhi, autenticare le feconde intuizioni
che il tuo pensiero vivace sa produrre. Insomma, in una scuola dove
ancora si dà conto dei contenuti “la stupidità non è necessaria”!
È
vero che le modificazioni dell’età contemporanea intersecano
direttamente i modi dell’apprendimento. Non si disconosce la crisi
settoriale nella crisi globale in cui le generazioni dell’età
postmoderna si trovano impastate. L’orologio interno dei giovani è
profondamente mutato: lo spazio s’è fatto più ampio e il tempo più
breve, le relazioni più improntate all’orizzontalità che non alla
verticalità. Gli studiosi M.Benayasag e G.Schmit nel loro libro
L’epoca delle passioni tristi (che consiglio), invitano i
lettori a valutare tali questioni: il futuro –dicono - è percepito
dagli adolescenti e ragazzi come una minaccia, non un’opportunità.
Ancora di più allora ha senso anche per loro poter contare su figure
che non rinunciano a rappresentare un punto fermo, così come il
mandato politico di cui parlavo prima è una stella polare nel nostro
lavoro quotidiano. Che non è solo gravoso: per questo ricordo le
parole che Chiara Zamboni scriveva nel libro Buone notizie dalla
scuola solo 2 anni fa. “S’è perduto l’essenziale per il quale
siamo diventati insegnanti… (La cultura) ci è stata insegnata a
scuola, all’università. Ci siamo innamorati di essa solo quando era
in costante rapporto con la nostra vita, e con quel che avveniva e a
cui noi partecipavamo. È per questo che abbiamo voglia di
trasmetterla: l’avevamo considerata fondamentale prima di tutto per
noi.
***
Molte questioni importanti in questo testo non sono state trattate.
Ho tematizzato un aspetto e solo in parte: arginare la debolezza
simbolica della pratica dell’insegnamento. Insomma: resistere,
resistere, resistere!
In
tedesco la parola Ruf (chiamata) è direttamente imparentata
con la parola Beruf (mestiere); tramite la felice intuizione
inaugurata da Lutero, si è colta in quella lingua la implicazione
diretta tra i due concetti: la chiamata che ognuno di noi accoglie
nello svolgimento del proprio mestiere. E perché no?