Centro Studi Gilda

 

Fino ad un certo punto . . .

Pensieri sulla professione docente.

(Quattro chiacchiere sul come stare in campo senza risentimento, senza

sentirsi amareggiati o vittime o comunque lamentosi di tutto quel che accade) 

 di Paola Cavallari, dal Centro Studi della Gilda del 25/2/2005

 

 Maestro è colui

che  aspetta  là

ove l’allievo deve arrivare

A. G.  Gargani

 

Premessa n°1: Dei dispositivi del motivare  

Siamo immersi nella cultura di massa, che tradotto in altre parole vuol dire cultura del divertimento, stiamo sempre più inoltrandoci nel  paese dei balocchi, televisivi o meno. Il sogno invade lo spazio del reale.

E anche nelle direttive, nei congressi, nei corsi di aggiornamento di – almeno - questi ultimi 10 anni, a volte tematizzata  esplicitamente, a volte  data per presupposto scontato ed ovvio, corre la parola d’ordine:  attrarre l’allievo, motivarlo, catturarlo nella rete onirica da noi ordita per poi somministrargli  la dote quotidiana di “informazioni” o “competenze”.  I ragazzi chiedono di sognare e noi li assecondiamo.   La ricreazione  non è affatto finita, per parafrasare il celebre testo di Bottani. Dalla stessa logica nasce il POF. I trucchi per “gestire” una classe, che va coccolata nell’eventuale pretesa di continuare il suo sogno, sono diventati  parte essenziale della professionalità  del mestiere-insegnante. Lentamente è stata messa ai margini, giudicata obsoleta, la serietà di quel lavoro adulto che è la trasmissione di un sapere “libero e disinteressato” (detto nei termini politici della grande tradizione liberale, alla M. Weber: disinteressato ad altri fini estranei all’insegnamento); di questo lavoro adulto - detto in termini invece più vicini alla sensibilità contemporanea,è stata messo in ombra il senso profondo: l’insegnamento come esercizio volto a trasmettere linguaggi e saperi alle nuove generazioni, con la finalità che diventino adulte e responsabili, consegnando loro le conoscenze di cui una civiltà è custode. 

 

Premessa n°2: Del credo aziendalista

Su questo punto sono state già spese molte parole e quindi non mi soffermo troppo. Questo punto, faccio notare, è legato al primo. È ovvio infatti che, essendo le scuole agenzie culturali che si fanno concorrenza in un contesto culturale complessivo “nutrito” dalla cultura di massa, quello che ne consegue è una gara al ribasso delle proposte culturali ed insieme una sfida al ribasso dell’autorevolezza del prestigio e della serietà del lavoro docente.

Nello stesso tempo questa prospettiva è molto feconda per introdurre un altro aspetto: la cultura aziendalista che, sotto le spoglie dell’autonomia, ha ammantato le scuole, è la cultura che professa la nuova fede tecnologica: il know-how, la flessibilità, lo spirito d’impresa, le tre “I”, il saper specialistico, ecc. ecc. Sono la spia di quella che un filosofo come Severino chiama: civiltà della Tecnica. In tale quadro occorre essere consapevoli. Consapevoli che – come dice Severino - si sta attuando uno scontro: tra un mondo antico, rappresentato dalla tradizione filosofica, religiosa, politica ed umanistica e il mondo della Razionalità scientifico-tecnologica.

Non si può non essere d’accordo: l’idolo del razionalismo tecnico ha pervaso la scuola. Ma il problema, come si vede, estenderebbe a un orizzonte molto più ampio.

 ***

 Per tornare ad una prospettiva più incentrata sui territori scolastici, credo che,

se il quadro delineato è questo

ci sarà utile scambiar quattro chiacchiere sul come stare in campo

senza risentimento, senza sentirsi amareggiati o vittime

o comunque lamentosi di tutto quel che accade…

 

Forse un po’ di  nicciana fierezza di operosità “inattuale” ci gioverebbe.

Ma per avere la forza di farlo occorre  essere saldi del proprio essere. E per far questo occorre una  assertività del proprio ruolo sociale, averla chiarita e interiorizzata: qualcuno se la fa da solo, qualcuno  dopo un processo in relazione con qualcuno, magari  incontrato nelle pagine d’un libro.

 Questa consapevolezza cosa dice? Che noi rappresentiamo, incarniamo – degnamente o meno - un Valore: i saperi che la società ha maturato nel tempo. Questo sapere può avere come tutte le cose mondane, limiti e mancanze; è comunque qualcosa da conoscere. Ha un valore che trascende noi.

Occorre quindi essere portatori-portatrici di una fierezza antica. Questo significa anche essere non ciechi e non ingenui di fronte all’età critica che stiamo vivendo, e questo si riallaccia a quanto mette in luce Severino.

 Il conservare non può essere tacciato di oscurantismo e conservatorismo, così come – per fare un esempio tra tanti - il “giorno della memoria” non può essere visto se non come un’istituzione che si attualizza per promuovere un pensiero critico.

 Io mi sento molto aiutata dal pensiero di Hannah  Arendt, laddove dice (Le citazioni sono tratte dal libro Tra passato e futuro): “Secondo me il conservare è parte essenziale dell’attività educativa, che si prefigge sempre il custodire, il proteggere qualcosa: il bambino, il mondo, il bambino dal mondo e il mondo dal bambino, il nuovo dal vecchio, il vecchio dal nuovo. La responsabilità globale che l’educatore si assume rispetto al mondo nasce da una posizione “conservatrice”, ma questo vale solo nella sfera dell’educazione, o meglio nei rapporti tra adulti e bambini, non già nell’ambito politico”. Nella sfera educativa i rapporti devono cioè essere necessariamente asimmetrici, mentre così non è nelle altre relazioni umane.

“L’insegnante è come un operaio/a che sempre aggiusta il vecchio perché non si deturpi del logorio del tempo e inoltre si disponga ad essere usato dalle nuove generazioni. Anche la “negazione” di questo materiale ”vecchio” fa parte di un processo dialettico vitale.

Qui sta un punto decisivo: “Per secoli, cioè lungo l’intero periodo della civiltà romano-cristiana, non c’è stato bisogno che l’educatore fosse conscio di questa sua caratteristica specifica; il rispetto del passato era parte essenziale della mentalità romana che il cristianesimo non modificò né soppresse, ma semplicemente trasferì su basi diverse”. “Tanto completa era la concordanza tra l’ethos specifico del principio educativo e il senso etico e morale vigente nell’insieme della società (che) l’autorità di chi insegna(va) è(era) fermamente radicata nell’autorità trascendente del passato. Ma oggi non siamo più in quella situazione ed è poco ragionevole comportarsi come se ci fossimo ancora”.

Ciò per cui la Arendt mi aiuta a non abbassare il livello del mio orizzonte di attesa, sia rispetto la classe che mi è affidata, sia rispetto gli organismi scolastici, è l’idea della responsabilità che mi trascende e insieme mi garantisce: “L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito... è autorevole in quanto, di quel mondo si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra. Se si sottrae è come se dicesse: ”me ne lavo le mani” o “arrangiatevi”.

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Un articolo della Costituzione, il 34, afferma nel terzo comma: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Con l’avvento della scolarità di massa e dopo il ’68 è stato interpretato nel senso che tutti hanno il diritto di “raggiungerli. Ma non era questa l’intenzione del legislatore. “Si è voluto dimenticare che questo comma è anche una asserzione implicita – come scrive M. Salvati sul Corriere della Sera magazine del 13.1.05- ma chiarissima, del rigore e della serietà dei gradi più alti degli studi e quindi della necessità di selezione, parola tabù da trent’anni a questa parte” (così come mai attuato è stato il comma successivo sulle provvidenze allo studio  per tali alunni).

L’ethos condiviso, nel primissimo dopoguerra, ancora era orientato a saldare in una coappartenenza le idee di valore dei saperi, loro trasmissione rigorosa e riconoscimento del merito. Oggi non più. Ma questo disconoscimento non è un buon motivo per fare naufragare quell’ethos anche con la nostra complicità o resa.

 

Queste posizioni non vanno fraintese, né a “destra” né a “sinistra”: non si rimpiangono qui “i bastioni perduti”. Quello che una politica antiautoritaria sulla scuola ha scalzato negli anni 70 e 80 non è in questione (siamo ben lontani da questo pericolo!). L’insegnante che ama il suo lavoro non ci pensa nemmeno a rivendicare “privilegi professionali” o stili di insegnamento imperturbabili o tiepidi di fronte alle persone che danno vita/costituiscono la classe. Le “buone pratiche” sono sempre un tesoro: la crescita degli allievi è la causa formale del nostro lavoro quotidiano, non il preservare saperi morti. La relazione con loro connota in maniera indiscutibile questa nostra scelta, o vocazione. Ma di scelta si tratta, di decisione, di vocazione: non ci siano ripensamenti. E in quanto tale, l’insegnante è in grado di sapere quel che è bene e quel che bene non è. Pur sapendo socraticamente di non essere onnisciente, non può lasciarsi “indebolire” dai ricatti dei sensi di colpa, o di scrupoli per questioni malposte, da seduzioni di profili professionali “ingenui”, nel senso di accondiscendenti a quel sogno adolescenziale, di cui parlavo all’inizio, che il senso comune pare inseguire. Facciamo un parallelo: un buon psicanalista è assai sensibile e attento alla relazione che instaura con il suo paziente. E come potrebbe degnamente lavorare, come potrebbe pensare di ottenere miglioramenti? Eppure non sarà mai lui/lei a rompere il silenzio all’inizio di ogni seduta. Deve essere il paziente ad “agire”.

Aver cara la relazione educativa non è quindi equivalente al confondere i confini di ciò che debbo fare io insegnante e di ciò che devi fare tu allievo. Io, insegnante, posso (devo?) motivarti allo studio, ma fino ad un certo punto (espressione sempre di Arendt); adotto strategie per limitare il tuo senso di estraneità ai vari argomenti, ma fino ad un certo punto.  Ho l’obbligo piuttosto di ascoltarti, di sostenerti nell’accesso ai linguaggi, di trasmetterti e consegnarti la preziosità di un determinato tema di studio, perché in esso tu possa cogliere scintille di vita. E di valorizzare la curvatura originale che tale materiale acquista ai tuoi occhi, autenticare le feconde intuizioni che il tuo pensiero vivace sa produrre. Insomma, in una scuola dove ancora  si dà conto dei contenuti “la stupidità non è necessaria”!

 

È vero che le modificazioni dell’età contemporanea intersecano direttamente i modi dell’apprendimento. Non si disconosce la crisi settoriale nella crisi globale in cui le generazioni dell’età postmoderna si trovano impastate. L’orologio interno dei giovani è profondamente mutato: lo spazio s’è fatto più ampio e il tempo più breve, le relazioni più improntate all’orizzontalità che non alla verticalità. Gli studiosi M.Benayasag e G.Schmit nel loro libro L’epoca delle passioni tristi (che consiglio), invitano i lettori a valutare tali questioni: il futuro –dicono - è percepito dagli adolescenti e ragazzi come una minaccia, non un’opportunità.

Ancora di più allora ha senso anche per loro poter contare su figure che non rinunciano a rappresentare un punto fermo, così come il mandato politico di cui parlavo prima è una stella polare nel nostro lavoro quotidiano. Che non è solo gravoso: per questo ricordo le parole che Chiara Zamboni scriveva nel libro Buone notizie dalla scuola solo 2 anni fa. “S’è perduto l’essenziale per il quale siamo diventati insegnanti… (La cultura) ci è stata insegnata a scuola, all’università. Ci siamo innamorati di essa solo quando era in costante rapporto con la nostra vita, e con quel che avveniva e a cui noi partecipavamo. È per questo che abbiamo voglia di trasmetterla: l’avevamo considerata fondamentale prima di tutto per noi.

***

Molte questioni importanti in questo testo non sono state trattate. Ho tematizzato un aspetto e solo in parte: arginare la debolezza simbolica della pratica dell’insegnamento. Insomma: resistere, resistere, resistere!

In tedesco la parola Ruf (chiamata) è direttamente imparentata con la parola Beruf (mestiere); tramite la felice intuizione inaugurata da Lutero, si è colta in quella lingua la implicazione diretta tra i due concetti: la chiamata che ognuno di noi accoglie nello svolgimento del proprio mestiere. E perché no?