Grammatiche e pratiche.

Insegnare è come scrivere.

Intervista all'autore di "Via Gemito".

di Domenico Starnone, Anna Folli, da Golem n° 8/9/2001

 

Vincitore del Premio Strega e finalista al Campiello con il romanzo Via Gemito, Domenico Starnone ha ormai raggiunto una grande popolarità. Prima di questo suo successo, però, l'eclettico scrittore napoletano si era fatto apprezzare per i suoi articoli, le sue sceneggiature (Del Perduto amore diretto da Michele Placido, Tutto l'amore che c'è di Sergio Rubini, La guerra degli Antò di Riccardo Milani) e i suoi irresistibili libri dedicati alla scuola. Starnone è stato, come tutti sanno, per molti anni un appassionato professore che agli intensi anni d'insegnamento ha dedicato prose scolastiche ironiche e divertite come Ex Catedra, Fuori registro, Solo se interrogato. A lui, dunque, abbiamo rivolto qualche domanda sulla scuola di ieri e su quella di oggi.

 

 

Riporto due brani tratti da Fuori registro: "Mi sono convinto che il sapere è il catalogo ragionato degli orrori gratuiti del mondo". E ancora "Ormai so che niente cambierà: seguiterò a insegnare saperi senza redenzione... badando a non fare troppo male ai miei allievi". Frasi come queste sembrano mettere in dubbio la funzione stessa della scuola. C'è il senso di una sconfitta, di una crisi in cui i professori si interrogano sul loro ruolo.

All'inizio degli anni '90 esistevano due tipi di insegnanti: c'era chi cercava disperatamente di nascondere i propri dubbi anche a se stesso, sforzandosi di pensare che tutto andava perfettamente. Questo perché, dopo aver dedicato la propria vita alla scuola, prendere atto della crisi significava mettere in discussione la tua stessa esistenza. E c'era invece chi, coraggiosamente, non poteva non rendersi conto che qualcosa doveva cambiare. Ci si chiedeva prima di tutto come erano i giovani che stavano crescendo in quegli anni e cosa era più giusto fare per aiutarli.

 

Quando descrivi i tuoi studenti, sembri essere conquistato dalla loro genuinità. C'è in te una grande partecipazione umana verso il loro mondo e i loro problemi. Dopo quindici anni, è ancora questo il modo in cui guardi ai giovani del 2000?

Io ho amato molto la scuola. A un certo punto me ne sono andato, soffrendo, non perché ero deluso, ma perché era diventata inconciliabile con la mia attività di scrittore. In ogni caso, la partecipazione ai problemi dei ragazzi rimane. Ma soprattutto rimane l'attenzione verso il loro mondo, che mi aveva permesso di capire che loro stessi stavano mutando. Ex Catedra è stato scritto nel 1985 e già allora era chiaro che il clima stava cambiando. Negli studenti nasceva un atteggiamento che avrebbe dato origine proprio in quegli anni a un movimento nuovo. Non si scendeva più in piazza contro la scuola, ma per restaurare nella scuola un ordine, un modo di studiare che apparteneva più ai genitori di quei ragazzi che ai loro fratelli maggiori. Con i miei libri, penso di avere registrato quanto stava avvenendo.

 

Hai una tua idea di come dovrebbe essere la scuola? O puoi almeno ipotizzare in quale direzione ci si dovrebbe muovere?

È difficile rispondere. Posso dire che una scuola legata a concetti di classe, promozioni, bocciature, ormai non ha molte possibilità di funzionare. Credo invece in una scuola che si avvicina ai ragazzi, che crea un rapporto. Ho visto dalla mia esperienza che questo è l'unico modo per ricevere da loro, anche dal punto di vista intellettuale. Vorrei dunque una scuola poco punitiva ma molto seria, densa. Non mi sembra ci si stia muovendo in questa direzione.

 

Una scuola di questo tipo è ipotizzabile soltanto con insegnanti che abbiano delle grandissime qualità.

Sì, certo. Ma credo che, fatta eccezione per pochissimi, all'inizio gli insegnanti abbiano una grande spinta. Entrando in classe per la prima volta, quasi tutti hanno una carica di energie che si vuole indirizzare al meglio. Poi, lentamente, si viene schiacciati dai problemi istituzionali e burocratici, dalle difficoltà con il preside e dei programmi troppo rigidi.
E invece il lavoro dell'insegnante è fortemente creativo, tanto che io l'ho sentito molto vicino a quello della scrittura. È altrettanto caldo. Un autore entra nel libro, perde il senso del tempo e si immerge completamente in quello che sta raccontando. Il giorno dopo, quando riprende, deve ritrovare lo stesso tono, la stessa voce. Questo avviene anche per l'insegnante che deve ad ogni lezione ritrovare con gli studenti il filo di un discorso già iniziato. Se viene lasciato solo in questo suo lavoro, se quello che gli si chiede è soprattutto di tenere in ordine il registro, di fare un certo numero di interrogazioni e compiti in classe, questa tensione viene a cadere. Bisognerebbe invece concentrarsi sui ragazzi, sul rapporto con loro, sulla possibilità di suscitare entusiasmi e interessi.

 

Rispetto ai libri sulla scuola, nel tuo ultimo romanzo, Via Gemito, c'è qualche cosa di diverso nello stile, forse anche nelle ragioni per cui scrivi.

È vero, ma il cambiamento era già in atto. Mi sono progressivamente allontanato dai toni con cui avevo raccontato l'esperienza scolastica: l'ironia di fondo è rimasta ma si è andata sempre più assottigliando. Via Gemito è il risultato di un percorso, più che una rottura con il passato. Ed è certo il romanzo al quale ho dedicato più tempo, con una lunga gestazione prima della stesura, un lungo lavoro di ricerca e di memoria nei miei ricordi infantili. Lì dentro ci sono anche le mie letture, c'è la Lettera al padre di Kafka, c'è Con gli occhi chiusi di Tozzi.

 

I tuoi primi libri apparivano fortemente autobiografici. Ed è altrettanto autobiografico Via Gemito.

All'epoca di Ex Cattedra mi fermavano per chiedermi se esistesse davvero quel mio studente o se si fosse verificato un determinato episodio. In realtà niente mi era realmente accaduto: quanto raccontavo era successo magari a un mio collega, altre storie le avevo sentite raccontare. Mi apparteneva invece il quadro generale, lo sguardo che rivolgevo a quegli avvenimenti. L¹autobiografia a volte può anche essere un esperimento terapeutico, un modo per mettere ordine nella propria esistenza. E in fondo credo che, in modo più o meno mediato, chi scrive faccia sempre dell'autobiografia. La prima persona, che io uso sempre nei miei libri, è un'operazione letteraria perché il racconto in terza persona mi sembra falso: si parla di un fatto che non si dovrebbe conoscere. Per questo tendo a dare una dimensione autobiografica anche quando invento. In questo caso, non ho voluto raccontare solo mio padre, ma la storia di un uomo e della sua disperazione. Di un artista che non ha gli strumenti culturali per esprimere pienamente una forte vocazione. Nella sua ostinazione, nel suo prendere sempre il mondo di petto c'è anche, credo, la forza espressiva del personaggio.

 

Sta già pensando a un nuovo lavoro?

Si, e ho già iniziato a lavorarci. Ha a che fare con la difficoltà di essere padre, perché credo che la paternità sia un fatto puramente culturale e non fisico, come è invece la maternità.