dalla Luna

 

Piccolo contributo alla “buona scuola”
ovvero cosa ne sarà degli esami di Stato


Mentre si rincorrono le voci sulle modifiche all’esame di Stato, che passano dal rovesciamento delle prove d’esame alla cancellazione dei commissari esterni, non sarà male riandare col pensiero alla trascorsa sessione d’esame, quella 2014, che probabilmente sarà l’ultima fatta con il “modello Berlinguer”. Secondo le “buone intenzioni” del ministro caduto nel 2000 sul concorsaccio, l’esame di Stato doveva avere una forte impronta almeno multidisciplinare, se non interdisciplinare. L’idea a mio giudizio non era male, ma vediamo cosa ne è rimasto dopo 16 anni di applicazione, compresa l’infausta parentesi morattiana della commissione tutta interna.
Partiamo dal colloquio, il momento più importante anche dopo la riduzione del suo peso in termini di valutazione finale: come sappiamo parte dall’esposizione della cosiddetta “tesina”, che non dovrebbe richiedere più di 5-7 minuti. Tuttavia – a prescindere dalla qualità e dall’originalità del lavoro portato dall’esaminando – è immediatamente evidente il problema della gestione dei tempi e degli interventi dei commissari, specialmente quando le “linee guida” sulla sua conduzione - fornite dall’UST nella riunione preparatoria dei presidenti di commissione - suggeriscono di interrompere l’esposizione solo in caso di “scadimento qualitativo”, evento possibile ma non così probabile, considerata la propensione degli studenti al riciclaggio delle tesine reperibili ormai ovunque.

Se si aggiunge che sempre le suddette “linee guida” suggeriscono di non rivolgere direttamente domande agli studenti come se fosse un’interrogazione, ma piuttosto di sollecitare i collegamenti interdisciplinari con un’eventuale azione di scaffolding, si comprende la difficoltà che un commissario può incontrare a “collegarsi” con un qualche argomento del programma disciplinare durante l’esposizione della tesina. Il risultato è che i tempi dedicati all’avvio del colloquio raddoppiano, e poi inizia l’interrogazione di ciascuno dei 6 commissari su almeno altrettante discipline, cosa fra l’altro defatigante per i candidati. Si osserva spesso una dilatazione dei tempi di interrogazione dei membri interni di commissione, allo scopo vagamente autopromozionale di evidenziare la preparazione dei loro studenti. Conclusione: ogni colloquio, dopo il rito della discussione degli elaborati, supera tranquillamente i 60 minuti dopodiché si passa alla valutazione collegiale con metodologie spesso ondivaghe, finalizzate a scaricare le responsabilità del presidente di commissione o a coprire quelle di qualche suo membro troppo invadente.

Passiamo ora ad analizzare brevemente lo svolgimento delle tre prove scritte: sulla prima e seconda prova di provenienza ministeriale poco c’è da aggiungere a quanto è stato detto, salvo che se – come si dice – saranno di provenienza interna alle singole istituzioni scolastiche, dovranno tendere a ridurre l’attuale complessità della prima prova nonché variabilità più o meno casuale della seconda. Infatti il ventaglio di testi all’interno delle diverse tipologie di prima prova proposte dal ministero ogni anno è piuttosto esteso anche nella dimensione dei fascicoli, finendo spesso per disorientare gli studenti che devono scegliere quale traccia svolgere, almeno a giudicare dalla qualità degli elaborati prodotti. In altre parole, la prima prova – così com’è ora strutturata – appare poco efficiente rispetto agli obiettivi che si pone.

Quanto alle seconde prove, tante quanti sono gli indirizzi di studio nel nostro paese, è del tutto evidente la loro erraticità, la quale si gioca sul fatto che le tracce dovrebbero essere elaborate nell’ipotesi che i programmi ministeriali delle rispettive discipline siano stati svolti nella loro interezza, mentre non è detto che ciò accada ad ogni tornata d’esame. Infine la terza prova scritta, che nelle intenzioni di chi l’aveva ideata avrebbe dovuto avere un carattere fortemente multidisciplinare mentre – e purtroppo non è una riduzione giornalistica – si è ridotta ad essere “il quizzone”. In questo caso l’arbitrarietà regna sovrana, sia nella predisposizione rigorosamente individuale da parte di ciascun insegnante coinvolto, sia nei criteri di misurazione che nel caso delle suddette “linee guida” possono magicamente far lievitare un cinque in tutte e quattro le discipline in un voto pari a 10, corrispondente alla sufficienza.

A degna conclusione delle osservazioni appena fatte si sottolinea la ritualità burocratica dell’esame, che – nonostante la recente introduzione dei plichi informatici al suo avvio – si conclude con la chiusura delle carte in un involucro di carta da pacchi debitamente sigillato con la cera-lacca. Se è rimasto solo questo come simulacro del valore di titolo legale dell’esame di Stato, allora sarebbe veramente il caso di cambiarlo nella sostanza, in modo da renderlo più serio e rigoroso: questo obiettivo tuttavia non può essere raggiunto se non viene cambiata anche la struttura dell’istruzione secondaria; altro che membri di commissione tutti interni, solo per risparmiare qualche migliaio di Euro. Altrimenti meglio abolirlo del tutto, utilizzando prove autentiche di fine periodo prima degli scrutini finali. Ma questo non è un discorso affrontabile nel sondaggio #labuonascuola, perché richiederebbe il rovesciamento della concezione di scuola che oggi è basata sulla libertà nel metodo di insegnamento con programmi disciplinari obbligatori, aprendo alla libertà nella scelta dei contenuti da insegnare secondo metodiche condivise fra colleghi di corso e di disciplina.

 

17  ottobre  ’14

Astolfo sulla Luna


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