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Un caso di studio su un
classico
dell’informazione giornalistica: la non-notizia
Astolfo sulla Luna, 23.8.2014
È apparso su Italia Oggi del 19 agosto scorso un articolo a firma di
Giovanni Scancarello, intitolato “Il buco nero dell’aggiornamento.
L'Ocse accusa il sistema italiano: i docenti sono lasciati a loro stessi
durante la carriera”. Scorrendo il testo, che pare riportare
informazioni datate, non si riesce a trovare la fonte di questa “accusa”
dell’Ocse. In realtà, una simile notizia era apparsa sul Sole 24 Ore del
25 giugno scorso, a firma di Flavia Foradini e col titolo “Identikit del
docente italico: l'Ocse pubblica il nuovo rapporto Talis”.
In buona sostanza, questo rapporto,
il cui acronimo significa “Teaching and Learning International Survey”,
afferma niente di meno che “Le abilità che servono agli studenti per
contribuire in modo efficace alla società, sono in continua evoluzione.
Tuttavia, i nostri sistemi scolastici non stanno tenendo il passo veloce
del mondo che ci circonda”.
La tesi, che potremmo ormai meglio
definire una tautologia, è corroborata da una messe di dati a dir poco
stratosferica, dei quali riportiamo solo quelli che ci interessano. Per
inciso – dal momento che si tratta del rapporto Talis 2013 – ci sarebbe
da chiedersi quanto la pubblicazione di questi dati “tenga il passo
veloce del mondo che ci circonda”, ma tant’è.
In ogni caso, nei dodici mesi precedenti alle rilevazioni che riguardano
principalmente la scuola secondaria di primo grado, il 75,4% dei nostri
docenti ha partecipato ad attività di aggiornamento professionale, ma
nel 2008 era l'85%, e l'odierna media OCSE è 88,4%. Solo il 30% dei
nostri docenti insegna in scuole in cui viene valutata l'abilità di
insegnamento in classe (OCSE: 92,6%), ma in Italia, Giappone, Norvegia e
Spagna, anche là dove ciò avviene, nella maggior parte dei casi la
procedura non ha alcuna conseguenza sulla carriera.
Fin qui la “notizia”, anzi le
notizie, come dirò alla fine, per ora soffermiamoci sul succo del
ragionamento: i docenti italiani si aggiornano meno dei colleghi degli
altri paesi avanzati, e soprattutto negli anni recenti tale divario è
aumentato. Infatti, mentre nel 2008 la quota di nostri insegnanti che si
aggiornavano era paragonabile alla media OCSE, oggi su otto insegnanti
due italiani non si aggiornano, mentre solo uno sfugge da tale dovere
professionale negli altri paesi considerati dall’indagine.
A cosa è dovuto il peggioramento
della situazione? Il rapporto Talis punta il dito contro l’assenza di un
legame fra avanzamenti di carriera e “valutazione dell’abilità”
nell’insegnamento, ma secondo me non è questa la ragione. Prima però di
proseguire nel ragionamento, mi si permetta un’autocitazione: nel
lontano 2007, quando iniziai la mia modesta rubrica su questo
visitatissimo sito, osservavo che “siamo gli unici lavoratori dipendenti
ad autoaggiornarsi gratis: il lavoro che facciamo ci impone di
continuare a studiare, pena lo scadimento qualitativo delle nostre
prestazioni lavorative, cosa che non ha effetto tanto sulla
retribuzione, quanto sulla “soddisfazione” dei nostri “utenti”.” Allora
esistevano ancora le Ssis, e nell’articoletto il sottoscritto cercava di
attirare l’attenzione sull’istituto del tutor del tirocinante, come
volano per avviare comunità di pratica professionale e questo perché “da
questa condizione dell'insegnante come lavoratore subordinato sui
generis, nasce la scommessa storica della Gilda - associazione
professionale prima che sindacato”.
Qualche anno dopo, per illuminata
iniziativa di alcuni cari colleghi, è nata l’Associazione Docenti art.
33, il cui limitato successo finora ottenuto parte da quello che è
secondo me il vero motivo del declinante aggiornamento professionale
della classe insegnante.
Il paziente lettore mi permetta
però di citare un altro fatto, prima di arrivare alle conclusioni:
l’ultimo Contratto Agidae delle scuole private introduce l’istituto del
riconoscimento dei tempi di lavoro, che cita la “attività di
aggiornamento” all’interno di 50 ore totali da suddividere a cura del
Collegio Docenti con le usuali attività di programmazione, stesura POF,
incontri con specialisti e quant’altro. In altro punto del contratto si
precisa che non è prevista retribuzione accessoria per tali attività, né
che il superamento di tale monte ore dia diritto a soldi in più.
Tuttavia “le ore per la partecipazione ai corsi di aggiornamento
professionale e didattico, di formazione e riqualificazione del
personale, comprese le attività connesse alla gestione del ‘sistema
qualità’, promossi dalla Scuola durante i periodi di attività didattica
fuori del normale orario di lavoro” sono trasformate in giorni di ferie
aggiuntive, per un massimo di 40 ore annue. Ora, poiché niente di meno
che Giancarlo Cerini nel suo agostano “Orario di lavoro docenti. Due
sane provocazioni” ritiene questa una novità degna della massima
attenzione per dare visibilità al nostro “lavoro sommerso” e recuperare
quindi un minimo di riconoscimento sociale, è tempo di tirare le somme
del nostro ragionamento. Tanto più che molte delle cose fin qui dette
sono ben note a chi il 29 agosto prossimo definirà il nuovo “pacchetto
scuola” e ha già parlato di 36 ore settimanali e non più di un mese di
ferie annuali.
Il motivo per cui il 10% degli
insegnanti italiani si è “disaffezionato” all’aggiornamento è
semplicemente la crisi socio-economica che morde ormai da 6 anni. Questa
apparentemente banale spiegazione dei dati del rapporto Talis, dimostra
tutta la sua evidenza se ci chiediamo come mai l’Italia si è allontanata
anche in questo settore dalle performance degli altri paesi Ocse. Ma
semplicemente perché da noi l’aggiornamento non è pagato
dall’amministrazione da cui dipendiamo, e ciò a prescindere da eventuali
meccanismi contrattuali di “riconoscimento non monetario”. Da questo
punto di vista è interessante notare che il contratto Agidae,
notoriamente taccagno nei confronti del personale, lega le ferie
aggiuntive al fatto che la formazione dei docenti sia organizzata dalla
scuola, leggi controllata ideologicamente.
Dimenticavo quasi di dire perché le
non-notizie sono due: come mai un giornale pubblica alla fine dell’anno
scolastico dati che riguardano in gran parte quello precedente? Perché
in quel momento il governo si era impegnato in un piano per l‘edilizia
scolastica e bisognava che qualcuno ricordasse che per far stare la
scuola al passo coi tempi “c'è bisogno di agevolare l'accesso per i
docenti ad aggiornamenti professionali altamente qualificanti con un
maggiore sostegno sia economico sia pratico, che incentivi la
partecipazione". E come mai l’altro pubblica la stessa non-notizia
addirittura in prossimità del nuovo anno scolastico? Ma per auspicare
che i soldi risparmiati ad es. nel dimensionamento della rete scolastica
non vengano buttati in dubbie iniziative di aggiornamento, come era
successo ai tempi delle vacche grasse. Se non vere e proprie notizie,
dal momento che riportano dati vecchi di un anno e più, sembrerebbero
comunque un paio di buoni consigli: vedremo quanto verranno ascoltati
fra qualche giorno.
23 ago. 14
Astolfo sulla Luna
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