dalla Luna

 

Si valuta bene se si è stati ben valutati

Astolfo sulla Luna,  9.2.2012

 

Breve premessa di carattere sociologico

Perché nel nostro paese stenta a metter radici una cultura della valutazione? Sarebbe semplicistico dire che ove trionfa la raccomandazione non è né utile né vantaggioso compiere uno sforzo per valutare equamente. Possiamo anche elencare brevemente i sintomi della “malattia della raccomandazione” che altrove, pur essendoci, non reca altrettanti danni sociali: dunque, cominciando dal vertice della piramide, osserviamo che solitamente i politici italiani non si dimettono in nessun caso,  gli amministratori pubblici vengono “cooptati” in base all’orientamento politico, le attività imprenditoriali sono sussidiate dallo Stato in base a criteri poco trasparenti, i cittadini agiscono ancora secondo il paradigma comportamentale del familismo amorale introdotto negli anni ’50 da Banfield per spiegare le basi sociali di una società arretrata. E se l’immobilismo e la corruzione della burocrazia possono essere additati sia come effetto che come causa secolare della cultura della raccomandazione, è proprio dopo il miracolo economico italiano degli anni ’50 che questa “inclinazione” ha finito da un lato per produrre bassa mobilità sociale e dall’altro per rafforzare il dualismo territoriale.

Dunque, poiché la scuola è lo specchio della società, è facile capire quanto sia arduo introdurre nel nostro paese una cultura della valutazione. Ciò particolarmente nella attuale congiuntura politico-istituzionale che, per esigenze di bilancio e altre inconfessabili ragioni, oltre a falcidiare il sistema di istruzione nazionale, sta introducendo cambiamenti strutturali, come l’introduzione del sistema duale istruzione/formazione subito dopo la scuola media grazie alla devoluzione alle regioni delle competenze sui percorsi di qualifica triennale. Parleremo più avanti delle connessioni fra questa scelta di politica scolastica e il sistema nazionale di certificazione delle competenze, mentre è doveroso analizzare ora la questione della valorizzazione del merito che rovescia la logica degli incentivi, premiando un numero prestabilito di lavoratori ipoteticamente già “bravi”, invece che sollecitare un miglioramento complessivo delle prestazioni della massa dei docenti. Quest’ultimo obiettivo verrebbe raggiunto molto più facilmente attraverso una storica posizione Gilda ossia con l’individuazione e l’eliminazione del cosiddetto “demerito”, che – come si sa – ha riguardato, almeno fino all’attuale degenerazione del corpo docente, pochi casi isolati. Un insperato suggerimento nel definire alcuni criteri per individuare i docenti “inadatti al ruolo” ci arriva ora da un’autorevole rivista scolastica non certo antigovernativa[1]: si tratta dei docenti “che a) non sanno gestire le classi; b) eccedono in severità o tolleranza; c) rifiutano ogni forma di critica; d) evitano qualunque confronto; e) boicottano le commissioni d’istituto; f) non si trattengono mai a scuola un minuto più oltre il proprio orario di servizio; g) non si aggiornano.”

 

La valutazione dei docenti

Ma i progetti ministeriali sarebbero molto più ambizioni, per cui, venendo al nostro discorso, potremmo porre il problema nel modo seguente: come evitare di trasmettere alle nuove generazioni la cultura della raccomandazione. Per quanto riguarda la cosiddetta valorizzazione del merito, l’anno scorso il Ministero si è impegnato nel “Progetto Valorizza”, di cui analizzeremo ora brevemente la logica complessiva. In base alle informazioni date dai soggetti che hanno curato il Rapporto di ricerca su questo progetto ministeriale – l’Associazione TreeLLLe e la Fondazione per la scuola della compagnia di San Paolo - esso è basato sul criterio della reputazione professionale condivisa, partendo dal presupposto che tale reputazione sia presente nella scuola di oggi. Gli obiettivi dichiarati sarebbero due: evitare che i titolari della reputazione di cui sopra si scoraggino ed attirare bravi professionisti soprattutto nelle lauree scientifiche. Il metodo seguito per applicare il criterio della reputazione condivisa con gli obiettivi dichiarati è stato quello di raccogliere informazioni sul lavoro dei docenti da tutte le componenti scolastiche (docenti, famiglie, studenti da ora in poi D, F, S) per convogliarle nel Nucleo di Valutazione Ristretto (NVR composto da 2 docenti, il DS e il Presidente del Consiglio d’istituto senza potere di voto). 33 scuole distribuite nelle regioni Piemonte, Lombardia e Campania hanno manifestato la volontà di aderire al progetto, che prevedeva la candidatura su base volontaria  di docenti “con buona reputazione” allegando un questionario di autovalutazione e il proprio CV. Successivamente è stato distribuito un questionario per indicare tre nomi, con breve motivazione della reputazione di ciascuno (restituito da 63% F e 68% S), e su questa base e sulla base delle proprie convinzioni ciascun membro del NVR ha fatto la sua lista: infine sono stati scelti come meritevoli i docenti che apparivano in almeno due delle tre liste dei componenti NVR.

Il progetto Valorizza ha previsto una fase di validazione quantitativa e qualitativa dei risultati: i questionari somministrati a fine giugno per valutare il grado di accordo sui meritevoli da parte delle componenti scolastiche sono stati compilati e restituiti con le percentuali seguenti: 43% D, 36% F, 57% S. Due ricercatori delle Fondazioni hanno inoltre intervistato alcuni membri dei NVR e alcuni docenti (premiati e no) delle scuole coinvolte, intercettando un desiderio diffuso di veder riconosciuta la propria professionalità, correttamente giudicata dal progetto. Restano tuttavia diffuse perplessità sul criterio difficilmente precisabile della reputazione professionale, insoddisfazione sugli strumenti di autocandidatura e preoccupazione sulle capacità di giudizio delle famiglie socialmente svantaggiate. A questo proposito, analizzando la correlazione fra le variabili del modello, si scopre l’influenza delle opinioni di F e S sulle decisioni del NVR. In particolare un F = + 10% implica + 6% di probabilità di ricevere il premio. Molto premiati sono i docenti di lettere delle superiori, mentre svantaggiati risultano i docenti con molte classi e con minor anzianità. Per la maggioranza delle componenti scolastiche non sono stati fatti errori nella lista dei premiati (87% F, 75% S, 61 % D), mentre gli errori segnalati dalla minoranza riguardano un docente premiato su tre.  In conclusione la convergenza dei giudizi di tutte le componenti riguarda un candidato su cinque, mentre all’interno del NVR sale al 70 %.

 

Commento mio: che il giudizio delle famiglie risulti la componente più importante al fine di premiare i docenti meritevoli, può dipendere da diverse variabili: di quali docenti i ragazzi parlano a casa e come ne parlano? Quale atteggiamento prevale nei genitori che vanno al ricevimento: di condivisione degli obiettivi educativi o di protezione pregiudiziale verso i figli? Banale poi constatare che gli studenti hanno di norma due genitori, e che le percentuali di restituzione e di gradimento sono più elevate proprio per la componente famiglia: ci auguriamo quindi che la concordanza familiare con le scelte fatte non sia un mero fatto statistico, come farebbe supporre la distribuzione per materia, per numerosità di classi e per età dei premiati. Mentre le Fondazioni raccomandano un allargamento della sperimentazione su base volontaria con l’aumento dei premi e un non ben chiaro meccanismo di feedback informativo sulla classe insegnante, potrebbe essere interessante chiedersi quanto è costato ai contribuenti un progetto del genere e rapportare tale cifra con quella impegnata per distribuire i premi ai meritevoli. Dopodiché valutare l’efficacia del progetto in base al raggiungimento degli obiettivi dichiarati: ha evitato di scoraggiare i meritevoli l’elargizione di una 14^ una tantum? Ha spinto i cervelloni nelle materie scientifiche ad intraprendere la carriera dell’insegnamento? Secondo autorevoli ricerche la classe insegnante è generalmente motivata nel suo lavoro dal positivo contatto che viene a crearsi con i discenti: detto altrimenti, gli insegnanti disposti ad impegnarsi oltre quanto strettamente obbligatorio, non lo farebbero per i soldi ma per la soddisfazione che otterrebbero dai riscontri positivi degli studenti e delle loro famiglie. Il controesempio si ha osservando un collega in difficoltà per il cattivo rapporto che – per mille motivi di difficile individuazione – viene a crearsi con una sua classe.  Se le cose stanno così, difficile pensare che i famosi due docenti premiati fra quei tre che hanno ritenuto di aver bisogno del crisma dell’ufficialità reputazionale per sentirsi soddisfatti del proprio lavoro, abbiano così evitato una crisi vocazionale. Quanto alla penuria di docenti preparati di materie scientifiche è chiaro che solo nel lungo termine un progetto del genere potrebbe sortire qualche effetto: di conseguenza dopo un anno di sperimentazione nulla è possibile dire circa l’eventuale sua efficacia rispetto al secondo obiettivo dichiarato.

 A questo punto sembra del tutto giustificata la sospensione della sperimentazione richiesta dalla Gilda degli Insegnanti e concessa dal Ministro nell’incontro coi sindacati del 24 gennaio scorso. In altre parole,  un progetto alquanto complesso che ha coinvolto diversi soggetti con una spesa a consuntivo immaginiamo piuttosto significativa, non ha certo inciso nella generale cultura della raccomandazione scalfendola con l’introduzione di un pur necessario criterio di valutazione della professionalità dei docenti: se le cose stanno così, allora a non funzionare non è tanto il criterio teorico della reputazione professionale - sul quale si può discutere ma che non va a parere di chi scrive respinto a priori (come invece sembra fare il  relativo comunicato Gilda) - ma le sue modalità di attuazione pratica che si sono dimostrate inutilmente costose ed in ultima analisi fallimentari, nel tentativo di sostituire o affiancarsi al buon vecchio criterio dell’anzianità di servizio nel definire la carriera degli insegnanti. Certo è che a forza di respingere nuove proposte chiedendo a gran voce la reintroduzione dei gradoni di anzianità, piuttosto che (ri)proporre valide alternative come la riduzione di orario frontale a fronte dell’impegno in attività di progettazione, tutoraggio e ricerca didattica per i docenti più anziani, stiamo finendo nel cul de sac dell’assunzione diretta (v. l’art. 8 della Legge cd crescilombardia del 4/4/12). A proposito di criteri, il ricorso esclusivo all’anzianità di servizio per definire le graduatorie di mobilità - per quanto gli anni di onorata carriera siano inattaccabili per la loro oggettività e per la ragionevole presunzione che l’esperienza di insegnamento sia un elemento prezioso della qualità del lavoro d’aula - ha creato delle vere e proprie discriminazioni, quando gli anni di continuità di servizio in una certa sede accumulati con il punteggio già assegnato per l’anzianità garantiscono il posto vicino a casa a colleghi relativamente giovani, impedendo ad altri l’avvicinamento oppure determinandone l’individuazione come soprannumerari, specialmente in un epoca come questa di feroce taglio degli organici. In conclusione a parere di chi scrive la questione di come introdurre una corretta metodologia valutativa del corpo insegnante è soltanto rinviata, nella speranza che nel frattempo la condizione degli insegnanti non mostri nuovi sintomi di degenerazione.

La valutazione del sistema scolastico

Cerchiamo ora di affrontare una seconda questione riguardante la valutazione, quella che riguarda l’intero sistema scolastico, i cui legami con la prima non sono mai stati ben evidenziati: perché gli amministratori del sistema scolastico ritengono di doverlo valutare? Perché dicono che attraverso la valutazione di prodotto (cioè la “misurazione” degli apprendimenti) è possibile migliorare l’efficienza del sistema. Ascoltiamo allora ciò che dice il prof. Dan Koretz, uno dei maggiori esperti americani di quella pratica che laggiù chiamano Educational Testing  ed è diffusa capillarmente ormai da 30-40 anni, mentre qui da noi sta muovendo timidamente i primi passi con i cosiddetti test Invalsi. Il “High-stakes testing”, letteralmente test di posta alta, pietra d’angolo della politica educativa americana, ha prodotto risultati gonfiati nella crescita dei punteggi rispetto al reale miglioramento nell’apprendimento degli studenti. Inoltre, l’inclusione di studenti “svantaggiati” nel sistema dei test ha aumentato il rischio di penalizzarli ulteriormente. Il professore segnala in particolare i limiti informativi dei test, sia di affidabilità a causa della distorsione dei risultati, sia per il “bias”, letteralmente condizionamento, causato da errori fuorvianti come nel caso dei punteggi in matematica di studenti non madrelingua che trovano difficili le complessità linguistiche dei quesiti posti.

Quale utilità può avere allora l’uso dei test? Per il prof. Koretz possono essere indicatori approssimati, soggetti ad errori di misura, della comparabilità degli standard di certificazione fra le diverse scuole (il famoso school ranking che si vorrebbe introdurre anche da noi). Con l’avvertenza che se le differenze nella “graduatoria” sono piccole, è necessario assumere altre informazioni per conoscere i “piazzamenti”. I test possono quindi far parte di un programma di rendicontazione efficace degli insegnanti, i quali secondo l’accademico americano dovrebbero chiedersi quali sono i veri scopi della scuola (dovrebbero quindi fare quello per cui è nata la nostra associazione). L’inflazione da test rende però il semplice miglioramento dei risultati insufficiente ad indicare ad esempio l’efficacia di certe riforme scolastiche, e questo perché gli standard di prestazione sono poco significativi. I risultati sono: sbagliata distribuzione degli incentivi, false idee circa l’andamento delle prestazioni scolastiche, scelte errate da parte delle famiglie. Per il professore i test possono essere una potente medicina che se usata con attenzione può veramente migliorare l’istruzione. Il suo uso indiscriminato è invece rischioso e può avere severi effetti collaterali, data la scarsa indipendenza di giudizio con cui vengono somministrati. Conclude con una battuta: “I consumatori sono avvertiti”.

In realtà nel nostro paese l’introduzione dei test è stata rallentata da quella che è stata chiamata la cultura dell’adempimento scolastico: la paura dei ricorsi al Tar contro le bocciature ha ingessato per decenni il nostro sistema valutativo dal momento che la giurisdizione su tali ricorsi avviene sul piano strettamente formale. Nel ventunesimo secolo, in un epoca in cui – per richiamare il titolo di un famoso saggio di Raffaele Simone – la cosiddetta terza fase sta scardinando le forma-libro come veicolo di conoscenza, la diffusione dei test Invalsi nei vari ordini di scuola si scontra con la pratica ormai sclerotizzata del voto di scrutinio. In particolare alla fine del biennio dell’obbligo scolastico, dall’anno scorso essa coincide con l’obbligo di certificazione delle competenze secondo un modulo ministeriale, cosa che permette un confronto fra la certificazione compiuta dai consigli di classe relativa agli assi dei linguaggi, della matematica, e scientifico-tecnologico (non l’asse storico sociale, su cui è obiettivamente arduo confezionare test “oggettivi”) e i rispettivi risultati dei test. Ora, se come ci ammonisce il prof. Koretz l’uso indiscriminato dei test si traduce in una perdita di informazioni sui reali processi di apprendimento degli studenti (un po’ come la considerazione della variazione del PIL come unico indicatore del reale benessere di un paese), bisognerebbe essere certi che il procedimento di certificazione delle competenze recuperasse le informazioni perdute, in modo da restituire una valutazione affidabile dei progressi degli studenti. Tuttavia, siamo ben lontani da questa certezza, dato che è difficile trovare un riscontro dei livelli di certificazione assegnati ai ragazzi nella documentazione didattica in possesso dei docenti. Detto questo, si può ben temere che gli “effetti collaterali” del prof. Koretz facciano presto la loro comparsa nell’organismo già piuttosto malconcio della nostra scuola. In particolare va sottolineata una sorta di circolo vizioso della valutazione attraverso i test, riscontrato da numerosi studi in vari sistemi scolastici che adottano questo sistema di misurazione/valutazione ormai da tempo: in poche parole, nel momento in cui il test diventa un segnale di merito per il docente o di risalita per la scuola, la didattica si indirizza decisamente verso l’obiettivo di insegnare agli studenti a rispondere correttamente ai test. Questo effetto perverso, che sintetizzerei con lo slogan “misurare la qualità della scuola con strumenti che la peggiorano”, diverrà più probabile se il governo porterà avanti l’idea di sfruttare i risultati di questi test per distribuire le scarsissime risorse finanziarie disponibili dato che per esigenze di risparmio ha già attribuito ai docenti tutta la gestione delle prove Invalsi, inserendola di fatto nelle attività ordinarie funzionali all’insegnamento.

 

Competenze: certificazione o valutazione?

Ad aggrovigliare ulteriormente la matassa c’è il problema del rapporto fra la valutazione degli apprendimento e la certificazione delle competenze, che abbiamo introdotto poco sopra. In realtà quest’ultimo onere ci è stato imposto dall’Unione Europea, la quale coi sistemi EQF/ECVET mirava ad attribuire crediti (credit points) alle qualifiche e/o alle sue componenti (units) con l’obiettivo di favorire la mobilità dei lavoratori fra i paesi membri. A prescindere dall’opinabilità di un operazione di riduzione delle “competenze in pillole”, l’adesione del nostro paese a questi programmi ci ha costretto ad adeguare almeno formalmente il nostro sistema di istruzione e formazione agli standard europei. Per quanto ci consta i sistemi regionali di formazione si sono adeguati sulla carta a questi standard con modalità a “geometrie variabili”, mentre il sistema nazionale di istruzione sta cercando ora i modi per conciliare la sua tradizione valutativa con questi nuovi “aggeggi” burocratici. Una partita tutta speciale stanno conducendo alcuni istituti professionali statali, laddove - in deroga per un anno al riordino dell’istruzione professionale - hanno potuto stabilire convenzioni con centri di formazione accreditati dalle regioni per rilasciare i consueti diplomi di qualifica triennale, che la Gelmini ha creduto bene di riservare alla formazione regionale perlopiù in mano ai privati. Concluso il regime di deroga, qualora non intervegano altre novità nel settore, la scelta politica del precedente ministro dell’istruzione comporterà nell’arco di due, massimo tre anni, l’appiattimento degli istituti professionali di Stato sugli istituti tecnici, con il risultato di introdurre anche in Italia il sistema duale istruzione/formazione di tradizione tedesca. A riprova di quanto affermo sta la scelta della provincia autonoma di Bolzano, dove la confluenza degli istituti professionali nell’istruzione tecnica è già realtà. Il fatto è che l’affidamento del segmento dell’istruzione e formazione professionale alle regioni di per sé non sarebbe un male, se corrispondesse ad una scelta di istituzioni ancorché private, comunque affidabili e con livelli qualitativi verificabili. Abbiamo ragione di credere che, se a Bolzano o anche nella contigua Trento la formazione professionale è una realtà consolidata e credibile, così non è nel caso della stragrande maggioranza delle regioni italiane. Dunque l’esclusiva data alle agenzie formative accreditate dalle Regioni nella certificazione delle competenze dei percorsi triennali si è rivelata un utile stratagemma per introdurre il sistema duale in salsa al pomodoro.

Tornando al sistema italiano di certificazione delle competenze, ormai pressoché a regime almeno formalmente per le qualifiche “basse”, esso brancola invece nel buio nel comparto dell’istruzione tecnica per non parlare del segmento liceale: quello che manca in particolare è la determinazione su scala nazionale degli standard minimi di competenza, senza i quali appare semplicemente privo di significato rilasciare una certificazione. E qui viene a collocarsi il labile nesso con la problematica valutativa la quale, per definizione, presuppone una determinazione – soggettiva quanto si vuole – dei livelli di apprendimento. Se nel settore della formazione professionale una certificazione formale di specifiche competenze può essere necessaria e sufficiente per la predisposizione di un Curriculum Vitae da allegare ad una richiesta di assunzione, così non è per evidenti motivi nel settore dell’istruzione tecnica e liceale. Come già accennato nel paragrafo precedente, la necessità di certificare le competenze acquisite alla fine del primo biennio del secondo ciclo – momento che nel settore dell’istruzione coincide col completamento dell’obbligo scolastico – richiederebbe una notevole modifica della prassi didattica e valutativa scolastica. A grandi linee: in primo luogo sarebbe necessario progettare percorsi di apprendimento interdisciplinari che abbiano come obiettivo le competenze come definite dal Ministero (vedi sopra); in secondo luogo bisognerebbe allestire prove di verifica diversificate che mettano in evidenza le competenze raggiunte dagli studenti; finalmente si dovrebbero utilizzare griglie di valutazione ad hoc che riescano ad intercettare le informazioni desunte da comportamenti, atteggiamenti e procedure osservate negli studenti. È difficile ipotizzare la realizzazione di queste opzioni didattiche nell’attuale panorama della scuola italiana, già sconquassata da fenomeni di degrado e procedimenti di deformazione; se è vero quanto detto finora, non vi è dubbio che il ricorso ai test di misurazione/valutazione apparirà a molti come l’ancora di salvezza nella tempesta della certificazione. E con ciò il cerchio è chiuso: l’obbligo di certificazione delle competenze spingerà a valutare in maniera standardizzata, la didattica si adatterà a questi strumenti valutativi i quali potranno infine essere agevolmente utilizzati per individuare i docenti meritevoli della gratifica. Tra parentesi, le vere gratifiche sono altrove, tra i collaboratori del dirigente scolastico o i distaccati presso uffici scolastici vari.

La battaglia finale è appena iniziata, sta a noi docenti – carne da macello nelle trincee delle generazioni – resistere mantenendo lo sguardo fisso oltre la frontiera del nemico della cultura intesa come spirito critico.    

 

 

[1] Nuova Secondaria, 15 maggio 2011, pag. 17;

 
 

Belluno, aprile ’12  

 

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