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Scuola e finanza Astolfo sulla Luna, 26.10.2008
Va detto che ogni paese industrializzato ha sviluppato un proprio originale sistema di istruzione e che non poteva essere altrimenti, per il semplice fatto che il gesto di leggere e scrivere è fondamentalmente diverso a seconda della lingua utilizzata; basta inoltre aver presenti le differenti tradizioni culturali presenti nei vari paesi europei, che rappresentano poi la ricchezza del nostro continente. Questa è la ragione fondamentale per cui - a prescindere da confronti più o meno oggettivi in termini di standard di rendimento o di efficienza - non è possibile trasferire un modello didattico-organizzativo da un paese all’altro sperando che nel paese “importatore” esso consegua risultati analoghi a quelli ottenuti nel paese “esportatore”: è il caso, ad esempio, del modello della personalizzazione dell’insegnamento, che si vorrebbe ancora oggi importare in Italia dai paesi anglosassoni e nordici (4), dove esso ha una lunga tradizione legata al particolare ruolo educativo delle chiese protestanti nazionali, ruolo che prima di tutto ha garantito la coesione nazionale. Diversa da questo punto di vista è stata la situazione dei paesi a tradizione cattolica, dove ad un modello educativo confessionale per sua natura “universale” (dal greco katholikòs), lo stato ha dovuto contrapporre un modello educativo laico finalizzato prima di tutto a creare o rafforzare l’identità nazionale. La premessa, che ha poco di finanziario, serve per leggere sotto un’altra luce la ricetta politico-istituzionale che accompagna oggi la politica di tagli finanziari; si dice infatti che il pluralismo di cui è stata finora portatrice la scuola pubblica, verrà garantito da tre ingredienti della ricetta: la regionalizzazione delle competenze in materia di organizzazione scolastica, l’autonomia funzionale e didattica degli istituti scolastici e l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale. Poiché quest’ultimo corrisponde in pratica al finanziamento delle scuole private, lo slogan che giustifica tale riallocazione delle risorse è “dal pluralismo nella scuola al pluralismo tra le scuole“. Ora, la motivazione del primo e dell’ultimo ingrediente sta nel fatto che oggi il governo italiano non ritiene più utile né necessario che la scuola contribuisca a creare un’identità nazionale, sottolineando semmai le differenze regionali e/o ideologiche presenti nel paese. Il secondo ingrediente della ricetta, la cosiddetta autonomia scolastica , allo stato attuale non è altro che un brutale meccanismo per spingere le scuole - costrette dalla consistente riduzione dei finanziamenti - sul “mercato”. In teoria, stando alle dichiarazioni di chi in questi giorni progetta il federalismo fiscale - che dovrebbe essere l’impalcatura del nuovo sistema scolastico italiano, oltre che di chissà quante altre cose - la riallocazione delle risorse dovrebbe essere fatta secondo criteri di solidarietà, responsabilità ed efficacia, ma.. Ma stiamo a sentire cosa diceva Piero Calamandrei in un discorso pronunciato a Roma nel lontano febbraio del 1950 in difesa della scuola pubblica, a proposito delle manovre per screditare la medesima: “l’operazione si fa in tre modi …. Rovinare le scuole di Stato … attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private … dare alle scuole private denaro pubblico”. Tradotto in odierno politichese: tagli finanziari alla scuola statale, assenza di un vero sistema nazionale di valutazione di tutte le scuole, ed introduzione del buono-scuola alle famiglie.
Quali saranno gli effetti di questa
politica? Senza un efficace sistema di valutazione l’apertura al privato
- in buona parte formato dai cosiddetti diplomifici - porterà
velocemente ad un sensibile abbassamento della qualità media del sistema
scolastico5. Ciò avverrà con buona pace dei teorici del mercato
dell’istruzione, i quali sostengono che la libertà di scelta educativa
delle famiglie instaurerà una leale e benefica concorrenza fra le
scuole: trattare l’istruzione come una merce qualsiasi non mi sembra
un’intuizione particolarmente felice!6 Così il cerchio si chiude: oggi, politici che hanno predicato e praticato per decenni le virtù del libero mercato, dichiarano senza alcuna remora che è giunto il momento per lo Stato di intervenire nell’economia per salvare le istituzioni finanziarie; d’ora in poi i soldi dei contribuenti non serviranno più per fornire servizi sociali dignitosi, ma per realizzare il cosiddetto “socialismo bancario” che tanto assomiglia a quello della fattoria degli animali.
Note 1. I due articoli sono reperibili nel sito www.docentinclasse.it "L'istruzione come forma di comunicazione" - giugno '06 e “L’organizzazione curricolare dell’istruzione fra passato e futuro” – marzo ’08; 2. Il filosofo scozzese paragonò un uomo istruito ad una macchina costosa, osservando che il suo salario dovrà ripagarlo entro un tempo ragionevole dell'intero costo dell’istruzione che aveva ricevuto; cfr. “La Ricchezza delle Nazioni“, Utet, 1975 pag. 198; 3. L’ultimo erede della scuola economica classica era contrario a quella sorta di monopolio naturale che fa sì che solo persone in grado di sostenere i costi di un'istruzione avanzata possono aspirare a redditi proporzionati a tali costi. Considerando tale forma di monopolio un impedimento alla reale concorrenza nella ricerca dei benefici derivanti dall'istruzione, riteneva necessario un intervento pubblico che ponesse rimedio alle imperfezioni del libero mercato: ciò perché l'istruzione era vista come un bisogno nazionale; cfr. “Principi di economia politica“, Utet, 1983;
4. Si veda ad
esempio Giorgio Chiosso, “Da dentro. Personalizzare: una strategia
europea” in Nuova Secondaria, 15 settembre 2008;
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