dalla Luna

 

Riflessioni sul rendimento scolastico degli studenti italiani.

Astolfo sulla Luna,  6/1/2008


Partiamo da un'osservazione e da un'ipotesi interpretativa: l'osservazione riguarda le performances scolastiche negative degli studenti italiani rispetto a quelli stranieri, che a livello macrosistemico vengono rilevate dalle indagini OCSE-PISA ed imputate generalmente al cattivo funzionamento del sistema scolastico nazionale. Per un insegnante che ha modo di osservare il comportamento dei suoi studenti, fra i quali quelli di nazionalità straniera sono sempre più numerosi, il livello microsistemico della classe può suggerire ipotesi interpretative più raffinate per spiegare i mediocri risultati degli italiani, rispetto a quelli migliori mostrati dagli stranieri.

Nelle classi del biennio delle superiori è infatti riscontrabile in media un miglioramento relativo superiore degli studenti stranieri non italofoni, in confronto a quelli italiani che godono di livelli di partenza generalmente più elevati. Se si va poi a confrontare le performances all'interno del gruppo degli stranieri, si nota che la nazionalità degli stessi incide in maniera piuttosto rilevante: in generale gli studenti provenienti dai paesi che appartenevano al blocco Sovietico oppure dell'Estremo Oriente conseguono risultati migliori di quelli che provengono ad esempio dall'area dell'America Latina. È logico, per quanto piuttosto semplicistico, attribuire questa differenza all'impegno nello studio, sicuramente più costante nel primo gruppo di studenti che negli altri.

Tuttavia l'ipotesi dell'impegno ci aiuta in prima battuta ad attenuare lo stretto legame solitamente ipotizzato fra rendimento degli studenti e qualità del sistema scolastico: se infatti a parità di ambiente di apprendimento, i miglioramenti nei risultati di studenti estranei al nostro sistema divergono sostanzialmente fra loro, bisognerà aggiungere altre ipotesi interpretative per spiegare il fatto che anche in un sistema scolastico che si presume deficitario alcuni studenti migliorano sensibilmente le loro performances scolastiche ed altri invece restano al palo (1).

Detto questo, siamo anche consapevoli del fatto che parlare di impegno nello studio sia piuttosto banale se non si tenta di attribuire tale atteggiamento a qualche altra variabile di tipo sociologico o psicologico. Trascurando volutamente le sofisticate teorie elaborate in tali campi, ipotizzerò che esso sia direttamente proporzionale all'aspettativa di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Questa ipotesi piuttosto rozza spiega però abbastanza bene il comportamento dei gruppi di studenti provenienti ad esempio dai paesi dell'Est europeo, ove si vive in condizioni socio-economiche generalmente difficili. Essa spiega inoltre a nostro parere il minor impegno dei gruppi provenienti dai paesi dell'America Latina o da altre aree del pianeta, per i quali l'aspettativa di miglioramento delle condizioni di vita non è necessariamente legata alla maggiore istruzione, e soprattutto degli studenti italiani, i quali in generale possiedono scarse o nessuna aspettativa di miglioramento socio-economico. Essi sono infatti solitamente consapevoli delle condizioni generali in cui versa il nostro paese, descritte recentemente in modo molto efficace per quanto riduttivo dal New York Times (2).

Guardando la situazione italiana dal punto di vista di uno studente adolescente, le possibilità di rendersi indipendente dalla famiglia sono oggi alquanto incerte: dopo il diploma le prospettive sono infatti quelle di offrirsi su un mercato del lavoro precario e poco remunerativo oppure di intraprendere una carriera universitaria "a tempo indeterminato" e di dubbia professionalizzazione. Come sappiamo il nostro è il paese dei Peter Pan, uomini e donne che talora alla soglia dei 40 anni vivono ancora con gli anziani genitori; scontata la cornice demografica di questo singolare fenomeno: record mondiale negativo nei tassi di natalità e fertilità (quest'ultimo di 1 punto percentuale inferiore a quello di circa 2,2 figli per donna, necessario a mantenere una popolazione numericamente stabile) e conseguente esplosione della popolazione nelle classi di età più elevate con simmetrico impressionante assottigliamento delle classi di età inferiori.

Tralasciando ancora una volta le interpretazioni sociologiche di questo fenomeno, che - fra i grandi paesi - ha qualche analogia con il caso Giapponese, ci concentreremo sulla questione pensionistica, che è senz'altro la più grave emergenza socio-economica italiana. L'altra grave emergenza, il gigantesco debito pubblico che grava sulle nostre finanze, ha, nell'epoca della globalizzazione finanziaria, implicazioni di carattere internazionale più rilevanti di quelle domestiche, almeno finché l'Italia farà parte - come è del tutto auspicabile per la sua stabilità interna - dell'Eurozona.

Dunque, la questione pensionistica: non si tratta solo di constatare l'impossibilità di garantire per le generazioni entrate nel mondo del lavoro col nuovo millennio una previdenza pubblica dignitosa (3) ma soprattutto di osservare l'imponente redistribuzione della ricchezza che avviene fra generazioni, grazie ai trasferimenti di denaro a favore degli attuali pensionati che godono del sistema retributivo.

Ovviamente è necessario evitare qualsiasi colpevolizzazione di questi ultimi, in particolare la generazione che ha fatto l'Italia e che ora ha più di 60 anni: grazie ai sacrifici compiuti e ad una favorevole congiuntura internazionale (4) questa generazione ha potuto arricchire il paese e sé stessa, passando da condizioni marginali di sotto-occupazione rurale a condizioni regolari (per quanto altrettanto dure) di occupazione industriale e urbana.

Il fatto è che purtroppo il sistema pensionistico italiano ha mantenuto e anzi consolidato standard elevati di servizio anche nel periodo che ha segnato una battuta d'arresto nella crescita economica del paese - gli anni '70 - e nel periodo successivo in cui la crescita è stata drogata dal debito pubblico.

Tutto ciò ha portato da un lato alla concentrazione della ricchezza in senso generazionale e dall'altro al dirottamento di gran parte delle risorse statali verso le pensioni (e il sistema sanitario nazionale, la cui onerosità dipende anch'essa - a parità delle altre condizioni - dalla struttura per classi di età della popolazione), impedendone l'impiego ad esempio per i cd. "ammortizzatori sociali". Ci troviamo quindi con una generazione di anziani ricchi, cresciuti alla dura scuola della vita e perciò generalmente con un concetto autoritario dei rapporti con le giovani generazioni.

E qui torniamo ai nostri studenti, perché ai loro occhi noi rappresentiamo gli adulti, coloro che andranno in pensione in media fra circa dieci anni (5), presumibilmente con un sistema misto retributivo/contributivo, che se non garantisce gli standard degli attuali pensionati, sarà comunque sensibilmente più dignitoso delle pensioni del futuro (6). E forse riusciamo a darci una migliore spiegazione del loro atteggiamento nei confronti della scuola, e più in generale della vita: disimpegno e disincanto. Può allora bastare un atteggiamento autoritario nei confronti dei giovani, atteggiamento che presuppone la fiducia in un modello di vita condiviso, per motivarli allo studio?

Vivendo in un paese ripiegato sul proprio passato, "… having more fear than hope" - come constatava il NYT - è ancora credibile dire ai nostri ragazzi: "ricordatevi che studiate prima di tutto per il vostro futuro"? Chi riuscirà a convincerli che - nel migliore dei casi - non stiano invece studiando per la paghetta settimanale?

Ecco a nostro parere una buona spiegazione per il peggioramento dell'Italia nella graduatoria OCSE-PISA: parafrasando una massima molto usata in altri contesti, in fondo un paese ha la scuola che si merita.
 

1. D'altronde da che esiste la scuola si sono avuti "asini" e studenti modello, cosa che certa sociologia ha cercato di ricondurre esclusivamente ai diversi contesti familiari e/o sociali;

2.  D'altronde da che esiste la scuola si sono avuti "asini" e studenti modello, cosa che certa sociologia ha cercato di ricondurre esclusivamente ai diversi contesti familiari e/o sociali;

3. a parte le previsioni sulla copertura percentuale - il 30-40% rispetto all'ultimo stipendio percepito - delle pensioni che inizieranno ad essere erogate fra 15-20 anni, previsioni che dipendono dalla più o meno veloce eliminazione del sistema retributivo - ossia da decisioni politiche - è evidente che il cd. "secondo pilastro", le pensioni integrative di categoria, non è ancora decollato a 6-7 anni dal lancio ufficiale, mentre il "terzo pilastro", le pensioni private, è frenato dalla storica sottocapitalizzazione del nostro mercato mobiliare (spiazzato dalla concorrenza dei titoli pubblici);

4. è ben noto che il cd. "miracolo economico" degli anni '50 è interpretabile con un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni: bassi consumi interni, specializzazione in produzioni relativamente poco avanzate dal punto di vista tecnologico, inserimento in un contesto internazionale molto dinamico in termini politico-economici;

5. l'età media degli insegnanti italiani si attesta intorno ai 48-49 anni;

6. è interessante studiare il comportamento delle giovani generazioni secondo il modello economico del ciclo vitale di Franco Modigliani, il quale - partendo dalla constatazione che i soggetti pianificano i loro consumi con riferimento all'intero arco della vita - analizza i comportamenti economici sulla base delle aspettative di reddito futuro: usualmente vengono ipotizzate aspettative crescenti per i soggetti nuovi entrati nel mercato del lavoro, i quali si indebiteranno per anticipare alcune spese di consumo. Cosa succede se mancano tali aspettative, oppure se esse verranno disattese dagli eventi futuri?

 

 


Mestre, li 3 gen. 08 Astolfo sulla Luna

 

Astolfo sulla Luna
 


torna
su