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La formazione degli
insegnanti
di Astolfo sulla Luna, 2/1/2007
Marco Mamberti nell’ultimo numero di
Professione Docente ricorda che le associazioni degli insegnanti sorte
alla fine del XIX sec. in Italia, furono spazzate via dal fascismo con la
sua ideologia corporativista. Una delle tante conseguenze di questa
“anomalia” tutta italiana è che “gli insegnanti sono gli unici a fare
formazione ed aggiornamento a proprie spese e fuori dall’orario di
servizio senza ricevere retribuzione alcuna.” È vero, siamo gli unici
lavoratori dipendenti ad autoaggiornarsi gratis: il lavoro che facciamo ci
impone di continuare a studiare, pena lo scadimento qualitativo delle
nostre prestazioni lavorative, cosa che non ha effetto tanto sulla
retribuzione, quanto sulla “soddisfazione” dei nostri “utenti”. Da questa
condizione dell'insegnante come lavoratore subordinato sui generis, nasce
la scommessa storica della Gilda - associazione professionale prima che
sindacato. In coerenza con questa scommessa, la Gilda degli Insegnanti
deve occuparsi di formazione degli insegnanti, perché è compito
istituzionale di ogni ordine o associazione professionale l’autogestione
della propria formazione sia in entrata che in servizio.
Ma quali sono gli aspetti della
nostra formazione che dobbiamo gestire?
È costume delle varie Gilde sparse
per l’Italia di organizzare convegni e seminari sulla figura professionale
dell’insegnante in relazione ad una serie di problematiche tipiche della
nostra epoca: dai giovani studenti sempre più "difficili" alle opinioni
distorte dei mass-media, da un mondo politico sempre più distante
dall'idea di scuola palestra della democrazia, al dilagare dell’ideologia
della cultura-merce, per finire con la sindrome da burnout. Queste
iniziative riguardano il livello della responsabilità educativa, a cui
abbiamo sempre tenuto fortemente e su cui non siamo disposti a cedere:
sarebbe stata mossa politicamente accorta che – nella famosa assemblea di
Cattolica del maggio 2002 – avessimo adottato un codice etico in linea con
questa nostra convinzione: avremmo forse evitato la flessione di consensi
nella tornata RSU del 2003, ma i primi conteggi 2006 sembrano indicare la
capacità di mantenere questa immagine di serietà e responsabilità nei
confronti della nostra categoria.
Esiste tuttavia un altro livello
della formazione del quale a mio parere dovremmo occuparci come
associazione professionale, che nella bozza di codice etico era anche
indicato: mi riferisco al dovere di aggiornamento disciplinare e
pedagogico e su questo vorrei soffermarmi ora. Storicamente la posizione
della Gilda degli Insegnanti (che è nata nelle scuole superiori) è stata
sempre quella di respingere le proposte pedagogiche delle burocrazie
ministeriali e universitarie, puntando sul ruolo formativo delle singole
discipline. Credo anzi che fra i nostri iscritti ci siano valenti studiosi
nelle rispettive discipline, ma il punto non è questo.
Il punto è che per reazione alla
svolta della pedagogia centrata sullo studente (cliente) abbiamo finito
per autocentrarci, compiendo l’errore opposto. Rischiamo perciò di
dimenticare che l’insegnamento è sempre una forma di comunicazione oltre
la quale (non) c’è l’apprendimento, e che su queste problematiche varrebbe
la pena di confrontarsi seriamente, perché si tratta di aspetti
fondamentali della nostra professione. È vero che l’insegnamento è
un’arte, ma, a differenza degli artigiani medievali, non siamo stati
capaci di creare le nostre botteghe con qualche apprendista. Dal punto di
vista pedagogico, specialmente alle superiori, siamo tutti autodidatti, e
quindi poco inclini al confronto specialmente con soggetti imbevuti di
teorie pedagogiche ma ancora inesperti, come sono i tirocinanti delle Ssis.
Tuttavia, accantonando provvisoriamente la pregiudiziale
anti-universitaria, perché non lasciarsi osservare durante la propria
attività didattica da questi futuri colleghi, perdendo qualche minuto per
scambiare un’opinione sul lavoro fatto e sui suoi risultati? Perché non
approfittare dell’obbligo di tirocinio di 120 ore che il docente tutor poi
dovrà certificare, per verificare le conoscenze dei "sissini" sul piano
disciplinare ed aprire un confronto dialettico con le istituzioni
universitarie che, dopo la riforma 3+2=0, non riescono più a sfornare
laureati competenti?
Dunque, potremmo utilizzare la
formazione iniziale - così com'è attualmente strutturata - come occasione
di confronto con l'università, e - in una prospettiva di cambiamento -
come volano per rilanciare la formazione in servizio, sul piano
dell'aggiornamento disciplinare e pedagogico, con l'obiettivo di creare
comunità di pratica fra insegnanti, nel cui ambito far circolare le
proprie esperienze didattiche. Si potrebbero quindi studiare forme di
tutela della creazione intellettuale, con interessanti ricadute nel
mercato dei libri di testo, cioè nelle nostre tasche…
Ma forse sto sognando, in un paese in
cui non si riesce nemmeno a mettere fine alle sanatorie ope legis delle
innumerevoli forme di precariato, molte delle quali sono gestite abilmente
dagli altri sindacati come sacche di consenso.
Forse invece è troppo poco, e non è
nemmeno la prima cosa da fare sul piano della formazione; mi pare però che
sia meglio di non far nulla, dando l’impressione che anche noi – come gli
altri sindacati – tolleriamo casi come quello del prof. M, sorto agli
“onori” della cronaca nel primo mese di quest’anno scolastico.
Astolfo sulla Luna
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