Il passo lento della politica sulla riforma della scuola La velocità sembra essere il requisito essenziale dell’azione del governo. Ma c’è da chiedersi, come mai si fosse pensato a un decreto per un cambiamento così importante Paolo Franchi, Il Corriere della Sera scuola 11.3.2015 Una riforma al giorno toglie il medico di torno? Può darsi. Capita però che il turbo riformismo di governo si ingrippi. È il caso della scuola. Il Parlamento mugugna all’idea di trasformarsi in un votificio per i decreti governativi? Benissimo, diamogli fiducia. Niente decreto, ma un disegno di legge: vedrete che la questione dei precari e quella del bonus per le scuole paritarie le risolveremo lo stesso. Aspetteremo, vedremo. Nell’attesa, però, è forse il caso di porre una domanda che non c’entra con le tattiche di governo. Di chiedersi e di chiedere, cioè, come mai (precari e bonus a parte) si fosse pensato a riformare la scuola italiana attraverso un decreto, seppure illustrato da slides e sottoposto a consultazione online . Non è solo, né soprattutto, questione della presenza, o meno, dei fatidici requisiti di necessità e di urgenza. Prima bisognerebbe ragionare su come possa prendere corpo una riforma, tanto più se si parla di una riforma cruciale come quella della scuola, che chiama in causa l’idea stessa che abbiamo del Paese e del suo futuro. Certo, la velocità è divenuta requisito essenziale della politica, e un passato lontano, in cui tutto era incomparabilmente più lento, non ha risposte da offrire. Ma resta il fatto che una riforma della scuola che ha davvero cambiato, nel bene e nel male, l’Italia c’è stata: l’introduzione della scuola media unica (era il 1962) portò l’obbligo ai quattordici anni, chiuse l’epoca in cui ci si divideva, bambini tra chi avrebbe proseguito gli studi e chi era destinato a un lavoro subalterno, gettò le basi di quella scuola di massa che oggi bisognerebbe adeguare ai tempi nuovi. Alla guida del governo, sorretto dall’esterno dai socialisti, c’era Amintore Fanfani, uno che, quanto a politica del fare, nella storia repubblicana non ha avuto sin qui rivali. Tra gli obiettivi che illustrò alle Camere, dopo averli concordati con Ugo La Malfa e Riccardo Lombardi, uno (la riforma urbanistica di Fiorentino Sullo) si perse per strada assieme al suo ideatore, un altro (le Regioni) restò a lungo in stand by . La nazionalizzazione dell’energia elettrica, però, la condusse in porto (a tappe forzate, scontrandosi con durissime resistenze). E così fu anche per la riforma della scuola media. Approvata nel pieno delle vacanze, il 31 dicembre. Le possibili analogie finiscono qui. Perché la gestazione di queste riforme - le più significative nella storia del centrosinistra, anche se il centrosinistra cosiddetto «organico» non c’era ancora - era stata in realtà lunga, complessa, e aveva coinvolto le forze politicamente e intellettualmente più vivaci dell’Italia di allora. Un’Italia capace ancora di appassionarsi anche alla «battaglia del latino». Che voleva dire anche: primato della cultura umanistica o di quella tecnico scientifica? Scuola legata alle esigenze del mercato del lavoro o votata alla formazione dell’individuo? Di qua gli abolizionisti (Pietro Nenni bollò il latino come «la lingua dei signori»). Di là i sostenitori, minoritari ma numerosi e agguerriti tra i cattolici, e presenti anche tra i laici e persino tra i comunisti: fiero sostenitore del latino era stato Concetto Marchesi, lo stesso Antonio Gramsci aveva scritto che il latino e il greco avrebbero dovuto sì essere sostituiti «come fulcro della scuola formativa», ma sarebbe stato difficile trovare alternative che dessero «risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità». Si chiuse con un compromesso, l’abolizione completa sarebbe arrivata solo nei primi anni Settanta. Ma le sorti della battaglia erano segnate. Una simile temperie non può ovviamente essere rieditata, chi si ostinasse a considerare ancora le riforme come l’esito di un processo politico, sociale e culturale più vasto e complesso sarebbe trattato da nostalgico della democrazia discutidora. Tutto vero. Ma da qui a chiedersi solo, parlando di riforma della scuola, se quello di Matteo Renzi sia stato un passo indietro o un gioco d’astuzia, ne corre. |