Scuola, limiti e demagogia della riforma

di Angelo Cannatà, MicroMega 16.3.2015

C’era una volta un Paese dove l’insegnante faceva lezione, dialogava, valutava. Latino, greco, filosofia, matematica, fisica… si studiavano con passione e sudore: “Niente si conquista senz’amore e fatica”, ripeteva il mio Prof. Era la buona scuola del passato. Formava persone. E, naturalmente, professionisti. I migliori medici, ingegneri, fisici, giuristi, filosofi, giornalisti, che occupano posizioni di rilievo nell’Italia di oggi, hanno fatto il liceo nella vecchia scuola di una volta. Insegnare. Una missione, prima che una professione.

Sono passati trent’anni: guidano reparti di cardiologia o laboratori d’analisi, sono avvocati e matematici e ricercatori, gli studenti di allora, ma ricordano gli anni del liceo: la severità e la comprensione (indispensabili per una valutazione non idiotamente numerica); la disponibilità all’ascolto; il silenzio, quando a parlare erano i classici, mediati dalla voce dell’insegnante. Ricordo il timbro, l’intercalare, le pause, puntuali, precise del mio professore d’italiano. Ancora oggi, lontanissima vicinanza, rammento quella voce. Una presenza che ha avuto un ruolo nella mia vita.

Quella scuola, oggi, non c’è più. Decine di ministri della pubblica istruzione l’hanno distrutta. Dominano corsi e progetti: corsi di aggiornamento sulla sicurezza (senza mettere in sicurezza gli istituti); corsi sull’ambiente; la legalità; la violenza; la droga; e naturalmente progetti: sulla cittadinanza; l’altruismo; l’educazione stradale; il clima… Mi fermo. L’elenco è infinito. La scuola ha cambiato verso. Ma il cambiamento non è di per sé progresso. Lunghe riunioni pomeridiane, dove si produce carta e si discute sul nulla, sono la negazione della buona scuola: ore ed ore per programmare lezioni su slide con schemi e riassuntini annessi; filmati; valutazioni su griglie cosiddette “oggettive”; interrogazioni scritte, “con risposta vero/falso” anche in filosofia come se l’elogio socratico del dialogo fosse passato in vano. Non va bene. La scuola ha cambiato verso, ma nella direzione sbagliata.

La tecnologia domina e, continuamente, chiede d’essere rinnovata. E’ un business. Adesso sembra che le lavagne multimediali siano obsolete: “sono strumenti costosi superati dai proiettori di ultima generazione”. S’insegue l’ultima moda e l’ultima innovazione didattica, dimenticando che la lezione è, soprattutto, parola, voce, empatia: un insegnante che trasmette un’emozione, non solo nozioni. Altrimenti, meglio sostituire il docente col computer. Google fornisce informazioni più precise di quelle di qualsiasi Prof. Se si dimentica che insegnare è, anzitutto, educare a porsi delle domande la scuola è finita.

Insomma. Più ore d’informatica: giusto. Lasciando, però, alla letteratura italiana, latina, greca… alla filosofia, alla storia… il compito di trasmettere un sapere fatto di concetti, idee, visione; carico di senso; veicolato da una passione. Un sapere critico. Capace di vedere, per esempio, la demagogia di Renzi, che parla di migliorare la scuola pubblica, mentre sposta denaro verso quella privata.

Renzi è un demagogo. E un pericolo. Mette gli insegnanti gli uni contro gli altri: ha stabilito a-priori che solo il 5 % dei docenti di ogni scuola è meritevole di un premio, un incentivo economico. Com’è arrivato a “questa” soglia? Con quali criteri? Soprattutto: quali docenti verranno premiati? Deciderà il preside. Sembra già di vederli i portaborse, i leccaculo, i maratoneti dei “progetti-a-pagamento-sull’acqua-calda”, quelli che hanno sempre le carte a posto - le carte -, il registro in ordine, ma, poveretti, appena aprono bocca per fare lezione non sanno di cosa parlano. E non li ascolta nessuno. Questi, fatte le necessarie eccezioni, verranno incentivati.

Il disegno di legge concede troppo potere ai presidi. Ai dirigenti manager. Secondo uno schema aziendalistico: efficienza, profitto. Dimenticando che la scuola non è – non deve essere – una fabbrica; che gli alunni non sono una merce; che i risultati maturano nei tempi lunghi e quanti incespicano all’inizio, danno buoni risultati, spesso, alla fine del processo formativo. “Più inglese, economia, arte, e 500 euro per l’aggiornamento culturale”, dice Renzi. D’accordo. Ma non basta.

Troppe risorse sono indirizzate verso le scuole private: è un privilegio lo sconto fiscale “fino a 400 euro” per chi iscrive i figli alle scuole paritarie, si calpesta volutamente la Costituzione. Di più: “l’autonomia scolastica” consentirà di raccogliere fondi e donazioni: lascia troppo spazio agli interventi esterni nella scuola pubblica. Il rischio è che il “sostegno economico” influenzi, orienti, condizioni. Non distinguere (nettamente) le competenze dello Stato da quelle dei privati è un errore, trasforma la scuola in impresa, in fabbrica. La snatura.

C’era una volta un Paese dove il docente insegnava e dialogava e la scuola era pubblica e le finalità, gli obiettivi, li decideva lo Stato, nell’interesse di tutti, non del mercato. Quella scuola non c’è più. Ha cambiato verso, ed anche anima. Riusciremo a formare (ancora) cittadini dotati di spirito critico? Ha (ancora) questo obiettivo la nostra scuola? “Gli studi devono essere funzionali all’immissione nel mercato del lavoro.” Funzionalità e mercato. Il Dio denaro anzitutto. Non va bene. Se non educa l’istruzione pubblica alla critica dell’esistente, quale altra agenzia educativa lo farà?

Renzi non sta cambiando verso, alla scuola. La indirizza verso lidi cari alla Confindustria e alla borghesia imprenditrice di riferimento.