L’imbarazzante silenzio sulla valutazione dei dirigenti scolastici Anna Maria Bellesia, La Tecnica della Scuola 10.3.2015 Da preside era diventato manager, quasi quasi amministratore delegato del consiglio di amministrazione dell’istituzione scolastica autonoma. Lo abbiamo conosciuto più che altro come burocrate ipertrofico. Oggi Renzi lo vede come preside-sindaco con nuovi poteri. Ma sulla valutazione stiamo a zero, dopo ben 15 anni dall’attribuzione della qualifica dirigenziale. Più poteri Quando è entrato in vigore il D.lvo 150/2009 (Brunetta), i DS hanno creduto di poter trarre il massimo vantaggio dalle nuove norme per rafforzare il loro ruolo, anche a costo dello scontro con i sindacati rappresentativi dei docenti. Hanno ottenuto di ascrivere alle proprie esclusive competenze l’organizzazione del lavoro e le modalità di utilizzazione del personale, materie che prima rientravano nella contrattazione integrativa. Poi hanno voluto andare oltre, con interpretazioni forzate delle norme. Per esempio esautorando il collegio docenti dal deliberare il piano annuale delle attività, che rientra nella competenza collegiale (art. 28 del CCNL). Nessuna valutazione Tuttavia una dirigenza così concepita ha il suo piede d’argilla. Il D.lvo 150/2009 da un lato accresce i poteri e le responsabilità del dirigente pubblico, dall’altro lega il 30% della retribuzione alla capacità di raggiungere i risultati rispetto agli obiettivi assegnati. Per i dirigenti scolastici, invece, la retribuzione di risultato dipende ancora dai parametri quantitativi degli istituti che dirigono. È come se il decreto Brunetta, tanto enfatizzato, sotto questo aspetto, non esistesse. Pur dicendo debolmente di voler essere valutati, sono sempre riusciti a guizzare via da ogni forma di valutazione, e quindi dalla responsabilità di risultato. E anche rispetto a quella introdotta col Sistema Nazionale di Valutazione non sono mancate le resistenze. A proposito, che fine ha fatto la proposta organica per la dirigenza scolastica che l’Invalsi doveva presentare entro dicembre 2014? Un silenzio imbarazzante. Eppure questi dirigenti esigono a gran voce che i docenti siano valutati, vogliono essere loro stessi a farlo, ad attribuire le premialità, e perfino a scegliersi i docenti “migliori”. Nel bel Paese del nepotismo, clientelismo, raccomandazioni e corruzione, nessuna persona assennata scommetterebbe un centesimo che questa sia la strada giusta per migliorare la scuola. La scuola necessita di una governance inclusiva e partecipativa La scuola non è un’azienda e, per la sua stessa natura di “comunità”, necessita di una governance partecipativa e non verticistica. Gli stessi governanti dell’epoca Berlusconi-Gelmini-Brunetta lo avevano implicitamente riconosciuto, non estendendo il ciclo della performance alla scuola e non toccando l’art. 25 del D.lvo 165/2001 sui dirigenti scolastici, che devono confrontarsi con le competenze degli organi collegiali. Non solo nella scuola, ma in tutta la pubblica amministrazione, l’attuale linea di tendenza a livello dei Paesi Ocse più evoluti va verso una governance inclusiva e partecipativa, che consiste nel rendere accessibile e cooperativo il processo decisionale, favorire l’accountability e costruire “capacità civica”. Invece di puntare sulla funzione di coordinamento ed esercitare una leadership fondata su processi di policy making trasparenti, inclusivi, aperti e democratici, i dirigenti scolastici hanno scelto di concentrarsi sul monocratico, depotenziando le funzioni decisionali degli stessi organi collegiali competenti per legge. Hanno mortificato il corpo docente e tenuto ai margini le altre componenti. Famiglie e studenti hanno continuato ad essere considerati “destinatari” e l’unica “centralità” pervicacemente perseguita è stata quella verticistica, focalizzata sul capo. Non c’è da meravigliarsi se la percezione della dirigenza è stata sentita sempre più come antagonista e poco adatta alla scuola. Ma il preside–sindaco a chi risponde? La riforma Renzi punta ad una sburocratizzazione, passando certe incombenze amministrative agli Uffici scolatici territoriali. Sarebbe l’occasione buona per ricalibrare la funzione e recuperare la consapevolezza di essere a capo di una istituzione che eroga un servizio di istruzione, formazione, educazione. Invece c’è da preoccuparsi, perché si parla tanto di nuovi maggiori poteri mentre continua l’imbarazzante silenzio sulla valutazione. “I dirigenti scolastici diventano leader educativi con strumenti e personale adeguati per il miglioramento dell’offerta formativa” leggiamo nei comunicati governativi. Renzi parla di preside-sindaco. Avrà la facoltà di scegliersi lo staff, di nominare i docenti mentori, di presiedere il nucleo di valutazione, di gestire con chiamata diretta l’organico funzionale. Ma a chi risponde del suo operato? Chi controlla e garantisce dagli abusi? La riforma prevede per i DS l’aumento retributivo di 35 milioni di euro. Sarebbe ora però che una quota consistente del loro stipendio venisse legata al merito e alla capacità di raggiungere gli obiettivi connessi al loro ruolo. Altrimenti non si vede con quale autorevolezza e garanzia possano presiedere il nucleo di valutazione dei docenti. Se non si trova la soluzione contestualmente alla riforma, si apre uno scenario che va contro la logica del buon senso e del buon andamento. Contro il Testo Unico della P.A., che prevede valutazione e retribuzione di risultato come caratteristica intrinseca ed ineludibile della qualifica dirigenziale. E contro anche l’esito della consultazione (a cosa è servita?) da cui è emerso che nella scuola deve prevalere il clima collaborativo e non la competizione e il conflitto permanenti, per accaparrarsi poi meno soldi di prima!
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