Gli effetti della riforma della Buonascuola. I nuovi poteri dei presidi annullano la contrattazione Antimo Di Geronimo, ItaliaOggi 31.3.2015 Il disegno di legge sulla Buona scuola, se sarà approvato senza modifiche, riporterà indietro le lancette dell'orologio di più di 20 anni in termini di contrattazione. È del 1992 la legge che introdusse la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. Alla quale fu data attuazione nel 1993 con il decreto legislativo 29, che consentì anche ai dipendenti pubblici di giovarsi della contrattazione collettiva nazionale. Un vantaggio di non poco conto, se si pensa che il rapporto di lavoro contrattualizzato comporta la parità delle parti: l'amministrazione ha diritto di ricevere la prestazione ed ha il dovere di corrispondere la retribuzione e le assenze tipiche (ferie, permessi, congedi aspettative); i lavoratori hanno il dovere di fornire la prestazione e di ricevere in cambio la retribuzione e le assenze tipiche. Tutto nero su bianco in un contratto collettivo nazionale che si applica a tutta la categoria e che viene scritto al tavolo negoziale dai rappresentanti dei lavoratori (i sindacati rappresentativi) e del governo ( l'Aran). Prima del 1992 il rapporto di lavoro era regolato da un decreto del presidente della repubblica e la posizione dei lavoratori era molto più debole. Anche allora c'erano i diritti e i doveri. Ma il diritto dei lavoratori si esauriva nella retribuzione. Per fruire delle assenze tipiche, invece, la posizione del lavoratore era quella del cittadino che rivolge un'istanza all'amministrazione perché aspira ad un beneficio oggetto di potere amministravo. Vent'anni fa i permessi non esistevano: al loro posto c'erano i congedi. Questa posizione è nota ai giuristi come interesse legittimo. E si differenzia dal diritto proprio perché, a differenza di quest'ultimo, che può essere legittimamente preteso, non può essere chiesto sbattendo il pungo sul tavolo. In questi casi, infatti, l'amministrazione gode di ampia discrezionalità e può rigettare la domanda avendo come unico onere quello di motivarla. In buona sostanza, dunque, lo scontro in atto tra il governo e il coro dei sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda) che rivendicano all'unisono il diritto di mantenere e difendere quello che è stato conquistato in più di 20 anni, va ben oltre la consueta dialettica governo-sindacati. Questa volta è in gioco la sopravvivenza stessa del sistema di rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Che rischiano di rimanere senza tutele in un sistema caratterizzato dall'inasprimento parossistico del sistema gerarchico verticale. Quello che preoccupa i sindacati, oltre alle storiche questioni del precariato e del mancato rinnovo del contratto, è anche e soprattutto la cancellazione del diritto alla titolarità della sede e alla mobilità per i docenti. Un problema di non di poco conto se si pensa che i docenti sono la categoria professionale con il più alto tasso di pendolarità nel pubblico impiego. Il disegno di legge Renzi, infatti, istituisce un albo regionale dal quale i dirigenti scolastici trarranno i docenti una volta ogni tre anni. Il tutto cancellando con un colpo di spugna diritti e punteggi accumulati da docenti che attendono di avvicinarsi alla sede di residenza, talvolta, anche da vent'anni. Non solo. Alla precarietà della sede dei docenti, la cui stabilità dipenderà dal gradimento del dirigente scolastico, farà da contraltare anche la precarietà della sede di dei dirigenti scolastici. Anche per loro, infatti, gli incarichi avranno durata triennale. E l'attribuzione della sede deriverà dal gradimento del direttore regionale, il cui incarico dipenderà, a sua volta, dal gradimento del vertice politico di riferimento. In pratica, il sistema di regole tassative, rigidamente informate al principio del merito (titoli di studio e professionali, esperienza e continuità) di fonte negoziale sarà sostituito con un sistema gerarchico verticale basato sulla discrezionalità incondizionata. |