L’ozio estivo è crescita, non spreco di tempo di Paolo Romano, Corriere Scuola di vita 30.3.2015 Un bell’amarcord le mie estati oziose negli anni della scuola. Tre lunghissimi mesi da passare, in qualche modo. Senza obblighi, fondamentalmente, salvo l’imperativo di doversi costruire il tempo, cosa alla quale gli impegni quotidiani scolastici non mi avevano abituato a fare. Solo dopo ho capito l’importanza di quell’embrionale urgenza di gestione autonoma delle ore. E così ho sperimentato la noia, che per qualche filosofo è il sentimento di angoscia per il tempo che passa, e sono riuscito a pensarci un po’ su (alla noia, dico), con tutta la carica di dubbi che ci può mettere un adolescente; né avrei immaginato che dopo la scuola non ci sarebbe stato più il tempo per pensare così a lungo e così a fondo, magari steso a guardare il soffitto, ma non “sdraiato”, a temi così cruciali e così dolorosi. Certo, mica tutto il tempo. Per il resto, ci sono estati in cui sono riuscito a divorare biblioteche intere, lontano dagli imperativi arcigni dell’obbligo scolare; ricordo l’estate dei russi, chè quasi quasi pensai di fondare nel quartiere un gruppo di adepti a Tolstoj; poi ci fu il tempo in cui le estati torride a Roma mi fecero declinare sui macigni leopardiani e i tormenti di Alfieri, giusto nelle ore in cui la canicola si faceva insopportabile e in attesa di organizzare una cena con i pochi amici rimasti in città. E divertirmi, così, a mescolare intrugli e ingredienti da far assaggiare alle inconsapevoli cavie: insomma, imparai a cucinare divertendomi, d’estate. Ovviamente, col passare del tempo, fui grande abbastanza per affrontare i primi viaggi, campeggi con poche migliaia di lire in tasca e dove il divertimento era tutto nel sapersi amministrare il poco, cercando il massimo divertimento: multa paucis, dicevano i latini. Non ho mai perso di vista l’importanza di quelle embrionali esperienze della maturità, neanche quando, in tre sedicenni, dovemmo sconfiggere nidi di vespe che ci invasero la casa al mare lasciataci da qualche genitore; neanche quando in autostop dovemmo raggiungere Roma partendo da Ostia, di notte e con lo sciopero. Un tempo incommensurabilmente bello e prezioso, un tempo che col ticchettio discreto della noia mi ha reso grande. Certo, mi venne in mente di lavorare. Anzi, fu una vera smania.Presi il giornale con gli annunci (di tempo ne avevo e tre mesi sono tanti), e andai a fare qualche colloquio come “rappresentante” di cosmetici per ditte improvvisate ed improbabili. Con la scusa giravo la città in autobus, conoscendone interni e vie periferiche.
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