La valutazione dei contesti educativi. di Caterina Gammaldi, Insegnare 5.3.2015
Il processo avviato nei mesi scorsi che porterà le scuole a redigere entro luglio 2015 il primo rapporto nazionale di autovalutazione (RAV) e i piani di miglioramento nei due anni scolastici successivi mi suggerisce di riprendere la discussione sulla valutazione delle pratiche educative e didattiche, con una particolare attenzione ai contesti educativi e alla dimensione del “fare scuola”. Un’esigenza questa, che impone lentezza e leggerezza, in controtendenza rispetto alle soluzioni adottate dall’INVALSI, le quali sembrano imporre la fretta delle soluzioni mediante la compilazione di un questionario e di un format ad hoc.
Un primo aspetto che mi pare significativo chiarire è cosa intendiamo per valutare il “contesto educativo” oltre ai dati disponibili nelle scuole suggeriti dalla normativa. Contro gli approcci riduzionistici propongo il valore della “negoziazione” e della “condivisione di significati”, il valore del confronto fra gente di scuola e destinatari dell’insegnamento-apprendimento. In questa prospettiva colloco le osservazioni che seguono sul modello di funzionamento del sistema scolastico, nello specifico quello che si riferisce al processo di insegnamento-apprendimento, in lenta evoluzione. Il tema più importante: intercettare e trattenere bambini e adolescenti nell’avventura della conoscenza a scuola, appare non adeguatamente risolto con scelte culturali e organizzative efficaci, che abbiano a riferimento i principi di una scuola democratica, di tutti e di ciascuno.
Nella fattispecie le procedure previste dal RAV chiedono alle scuole di indagare il contesto e le risorse, ovvero l’ambiente-scuola, ma l’operazione non è neutra: i soggetti e le situazioni fanno la differenza.
Concretamente potrebbe essere messo al lavoro un gruppo di testimoni privilegiati sul “fare scuola”, sul processo di insegnamento-apprendimento, sui contesti educativi favorevoli all’apprendimento, con l’intento di porre a tema aspetti quali la relazione educativa, il gruppo classe, il ruolo del sapere in senso formativo, delle metodologie attive nella costruzione delle competenze in contesti d’uso, dell’interazione adulto-soggetto che apprende e dell’interazione possibile nel gruppo dei pari. Sono questioni che sempre più richiamano l’attenzione di chi fa il nostro mestiere su aspetti quali: “come faccio a far crescere l’identità, la motivazione, l’autostima, l’autonomia, la competenza, la cittadinanza?”. Se non riconduciamo la valutazione e l’autovalutazione alla progettualità rischiamo di assumere una logica del “rendere conto” a misura di cliente, e quindi refrattaria al pensiero progressivo. Se l’osservazione si sposta sul gruppo classe, è relativamente facile dire che esso è ancora un monolite (lo stesso dalla metà dell’800 all’oggi). La mitica classe non è mai entrata in discussione, nemmeno quando timidamente si sono fatte strada opzioni quali “gruppi di apprendimenti”, classi parallele, classi -laboratorio. Solo raramente nel nostro sistema scolastico compaiono modelli diversi di aggregazione dei bambini e degli adolescenti, aspetto non secondario per superare la logica del criterio trasmissivo e nozionistico, a vantaggio dell’apprendimento per tutti. Certo il gruppo classe è un importante luogo di relazione e di apprendimenti, ma non sempre garantisce le condizioni necessarie per rispondere alla tanto discussa differenza di censo, di sesso, di etnia… Il tempo e lo spazio per l’apprendimento sono spesso organizzati in modo troppo rigido e veloce. Mentre Massimo Recalcati ci propone una lettura erotica dell’ora di lezione [1], in modo non irriverente, io vi propongo, in rapporto al contesto, una lettura pedagogica dell’ora di lezione.
Non si possono continuare a suggerire inutilmente pratiche di lavoro cooperativo o la didattica laboratoriale senza che si sperimentino le condizioni per praticarli. Non giova il permanere dell’unico modello di insegnamento ormai presente in tutta la scuola (dal maestro unico/prevalente al professore), che impedisce compresenze, una diversa organizzazione del lavoro; penso anche alla contrazione eccessiva del tempo scuola, alle classi pollaio, a vantaggio esclusivo della trasmissione culturale. Ferme restanti la stabilità e la regolarità che devono caratterizzare i luoghi di apprendimento e di lavoro, sto proponendo di guardare con altri occhi al clima che si vive nelle classi, che, come è noto, è fatto di comunicazione verbale e non fra bambini e adulti, di relazioni fra persone, con oggetti e ambienti (ivi comprese le situazioni di eccellenza o quelle in cui si usano le LIM e i tablet, a Nord come a Sud.
Per questo propongo che non si smetta di ricercare un’idea di insegnamento-apprendimento efficace, che investa sulla cooperazione, che proceda per problemi, che investa sul dialogo, sul rafforzamento del pensiero, sul decentramento del punto di vista, sul dubbio. Propongo, in conclusione, non un guardare carico di soggettività, piuttosto un osservare carico di intenzionalità, assumendo una pluralità di punti di vista e le soluzioni necessarie a colmare le differenze inevitabili in contesti territoriali diversi che storicamente nel nostro Paese sono quello che la storia e l’esperienza hanno disegnato.
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