Là dove ‘l sì suonava

di Benedetto Vertecchi, Minima Educationis 1.2.2015

Continua a manifestarsi nella politica italiana una sconfortante mancanza di interpretazioni educative. Sembra che nell’assumere decisioni l’unico criterio sia la rincorsa di un sentito dire che il più delle volte è composto solo da cascami di senso comune, accettati per l’apparenza di modernizzazione che ad essi si associa.

Gli effetti sono distruttivi: bambini e ragazzi (e, per altri versi, gli adulti) stanno perdendo la capacità di scrivere. La comunicazione sociale sollecita assai più l’ascolto della lettura. Il sovrapporsi dei messaggi ne favorisce un accoglimento solo superficiale, cui segue un rapido oblio. Nelle scuole sono sempre più rare le dotazioni che comportano esperienze percettive, organizzative, progettuali (le collezioni naturalistiche, iconografiche, le biblioteche – reali, non virtuali -, i gabinetti scientifici, gli spazi teatrali, le sale da musica). Sempre più trascurate le attività che comportino trasformazioni (laboratori) o interazioni con la natura (per esempio, il giardinaggio).

In fondo a questa china c’è il disfacimento della capacità di usare la lingua italiana. Se l’Invalsi, invece di organizzare inutili rilevazioni sull’universo, si preoccupasse di contribuire alla conoscenza del sistema educativo, dovrebbe studiare fenomeni come l’evoluzione del lessico attivo e passivo, l’organizzazione dei testi scritti e del parlato, la capacità di usare la lingua per descrivere e per esprimere un pensiero di qualche complessità.  

Accade, invece, che i modernizzatori di turno si sforzino di coprire la mancanza di una politica della lingua italiana, quella parlata da le genti del bel paese là dove ‘l sì suona» (Inf. XXXIII, vv. 79-80), spingendo a usare la lingua imperiale (o, meglio, la sua versione impoverita, che meglio risponde alle esigenze della globalizzazione). Rettori a caccia di lustrini, ministri che spesso come rettori si erano già insigniti di quei lustrini, tablerondisti   che si intendono di educazione come della coltivazione dei pomodori su Marte, prima hanno sostenuto l’opportunità di impartire l’insegnamento in inglese nelle università, ora vanno sostenendo la necessità che per parte dell’attività didattica si usi tale lingua già al livello primario.

Hanno mai riflettuto questi signori sulle conseguenze delle loro scelte? Invece di continuare la campagna promozionale sulla Buona Scuola, non sarebbe il caso di promuovere, non solo nelle scuole, ma nell’intera società, iniziative per la diffusione della conoscenza della lingua italiana, della letteratura, dell’arte, della musica? L’Italia è il paese di Galileo: ma quanti italiani hanno mai letto una riga dello studioso che ha fornito (in una splendida lingua italiana) un  contributo determinante allo sviluppo delle scienze sperimentali?

Purtroppo,  si deve aggiungere: quanti sarebbero in grado di capire testi come il Dialogo sui massimi sistemi?