La scuola, i ladri e le polpette avvelenate del merito

di Anna Angelucci, MicroMega 28.2.2015

La ‘questione del merito’ sta diventando così centrale nelle nostre vite perché la usiamo a livello individuale e sociale per placare la nostra ansia di dare un senso alle frustrazioni umane e professionali legate ormai al nostro lavoro. E se talvolta ci capita di pensare di meritare il nostro disagio perché non siamo abbastanza bravi, sicuramente ci è molto più comodo e usuale imputarlo ai nostri colleghi, quei dannati ‘fannulloni’ all’origine di tutta questa ira di dio. Sarebbe ora che cominciassimo, invece, a considerare le nostrane istanze meritocratiche – parafrasando T. S. Eliot – come la carne di cui il ladro si serve per distrarre i cani mentre entra di soppiatto per svaligiare la casa. […] E, per dirla con Marshall McLuhan – che amava citare Eliot – pensare che sistemi valutativi e ‘premiali’ come questi siano a guardia della sua ‘qualità’ è come pensare che la funzione dei ladri sia quella di cibare i nostri cani.

M.Stazio e D. Borrelli, La parabola del meritocrate immeritevole, Roars, dicembre 2014

Mi è ritornata in mente la conclusione dell’articolo in epigrafe mentre, tornando a casa, riflettevo sul recente furto nell’appartamento dei vicini, con tanto di cagnone addormentato dalle polpettine dei ladri. Così siamo noi docenti: addormentati dalle variegate polpettine – Rav, questionari, Invalsi, test, valutazione, merito – che il MIUR ci propina mentre ci sfila ogni giorno i soldi dalle tasche, siano i nostri stipendi bloccati nei rinnovi contrattuali e negli scatti di avanzamento, siano i soldi delle scuole ridotti di due terzi negli ultimi due anni. E noi, obbedienti e rispettosi come cani ben addestrati, pronti a ingurgitare le quotidiane dosi di pappette soporifere e a far quadrare i miserevoli bilanci personali e della scuola, lavorando con compensi forfettari appena simbolici, ove non gratis, vagamente in colpa perché, sentendo di non aver ancora compiutamente assimilato la ‘cultura della valutazione’, mostriamo di non apprezzare appieno quelle saporite cibarie ministeriali.

Così pensavo, traccheggiando in giardino con i fiori e provando a spiegare al mio cane che non deve accettare cibo da estranei. Ma non volendo autoinfliggermi l’ennesima riflessione analitico-filosofica su valutazione e ingegneria sociale, meccanismi inconsci, competizione globale e Foucault, ho lasciato vagare l’immaginazione tra i miei ricordi del passato, quand’ero studentessa di belle speranze, al liceo e all’università. Stagioni non morte ma presenti e vive e indimenticabili, di cui conservo ancora ogni minimo sussulto, ogni sguardo, ogni palpito. E i volti dei miei insegnanti.

A scuola, mio dio, non c’era ancora l’autonomia. Purtuttavia, strano a dirsi, funzionava. Studiavamo, chi più chi meno, come è sempre stato. E contestavamo. E socializzavamo. E facevamo teatro e cineforum pomeridiani, senza immaginare che potesse essere un ‘progetto’. E andavamo in laboratorio, senza sentire esperti e politicanti blaterare di didattica laboratoriale. All’università, trovai il vecchio ordinamento. E meno male, mi dico, quando confronto il corso di laurea in Lettere che sta facendo mia figlia oggi con quello che ho fatto io trenta anni fa nella stessa università, la Sapienza di Roma: io tantissimi libri da leggere e da studiare, mesi e mesi per preparare ogni esame; lei, vittima innocente del 3+2, a baloccarsi in pochi giorni con fotocopie e qualche capitolo di manuale.

Poi, da adulta, già docente di ruolo, meritevolmente vincitrice di concorso ordinario (o forse no, se pensiamo che nella proposta di riforma del Governo contano di più le doti organizzative che certo mi difettano), pendolare fuori sede a Perugia, per il diploma specialistico in Italiano per Stranieri – che strana ubbìa voler continuare a studiare senza essere obbligata a farlo ma solo per il gusto di approfondire quegli aspetti della linguistica che all’università avevo trascurato e che invece mi sembrano così urgenti nelle ore di italiano in classe - con la Giannini docente ordinaria di sociolinguistica che però, non so perché, in due anni non ci fece mai una lezione, né leggemmo mai una sua riga. E fu una straordinaria fortuna assistere alle lezioni di un giovane docente a contratto fuori sede, oggi studioso di fama internazionale, per me semplicemente folgorante.

Insomma, quanti ricordi! E i professori! Al liceo, rigorosamente scientifico per chi, come me, non aveva una famiglia blasonata dai tradizionali studi classici, il professore di matematica mi chiamava, insieme alla mia compagna di banco, con gli epiteti più disparati per significare che gli apparivamo deficienti. E certo io lo ero: mi sembrava di non capire niente. Lui si spolmonava, col suo toscano spento tra le labbra o tra le dita, e spiegava, spiegava, spiegava. Faceva e ripeteva mille esercizi alla lavagna arrabbiandosi molto con chi non capiva. Si vedeva che conosceva e amava la sua materia e che non poteva accettare che non la si padroneggiasse. Era competente. Lui. Io invece no. Ero bloccata. Ero inibita. Ero convinta di non capire la matematica e quindi non la capivo. Se mi avessero fatto un test Invalsi quell’anno lì, lui (sic) sarebbe stato giudicato immeritevole. Immeritatamente. Invece, la prof di italiano. Radicale, giovane amica di Pannella, impegnata in tutte le battaglie civili di quegli anni. Non spiegava mai. Non interrogava mai. A fine quadrimestre ci faceva tornare a scuola di pomeriggio e imbastiva una mitica interrogazione generale in cui ognuno diceva la sua. Ogni tanto, buttava lì un riferimento casuale a un testo, un consiglio di lettura, una citazione. E io leggevo, leggevo, leggevo e, affascinata dalla sua vaghezza, mi innamoravo della letteratura. Al biennio ero stata un’allieva scarsina e frustrata: ricordo ancora quando dissi che I Promessi Sposi erano una tragedia, beccandomi un meritatissimo tre. Ma nessuno pensò che fosse stata l’insegnante a non spiegarci bene che cos’è un romanzo storico, nè che forse certe modalità didattiche fossero obsolete e andassero rese più ‘attraenti’. Questa è una stupida moda dei nostri giorni, in cui sei bravo se usi le Tic. Io invece penso che le Tic andrebbero bandite dalle aule scolastiche e che dovremmo farne degli strenui Presidi di Difesa del Libro! Sono certamente un’insegnante immeritevole. Un test Invalsi di italiano allora avrebbe fatto secche entrambe.

Arrivata all’università scelsi il professore più severo, il più noto, il più importante. E anche quello meno disponibile. Una volta, dopo una lunga attesa fuori dalla porta del suo studio, uscì e ci disse “Oggi non ho voglia di parlare con voi”. E io, che venivo da lontano, scrivevo la tesi e avevo una certa fretta di laurearmi, giù a piangere come un vitello. Poi mi rimboccai le maniche e continuo a scrivere, temprandomi alla vita. Era algido, distante, temibile. Le sue lezioni erano la scoperta del metodo, del rigore assoluto, dell’analisi puntuale. Erano la prova provata che gli studi umanistici possono essere una scienza dura e che davvero non esistono due culture. Mi ha dato un metodo, di studio e di lavoro. Ma un questionario di apprezzamento degli studenti lo avrebbe fatto a pezzi.

Un altro insegnante, indimenticabile, fu quello che nei tre anni delle sue lezioni di critica letteraria mi fece scrivere, scrivere, scrivere. Nessuno lo faceva a Lettere in quegli anni. Eravamo tutti affascinati e disorientati dalla stravaganza dei suoi corsi monografici e additati da quelli che seguivano insegnamenti più tradizionali: niente Croce, nè De Sanctis, nessun testo canonico nè lezioni cattedratiche. Ma letture, commenti, analisi e Bettelheim, Propp, la psicoanalisi, le fiabe e tanto lavoro con la semantica, con le parole e il senso. Non aveva pubblicato molto e forse, su richiesta, non avrebbe potuto esibire un gran florilegio di citazioni internazionali. Un fannullone, probabilmente, per l’opinione pubblica e per i criteri bibliometrici dell’Anvur.

Gli insegnanti, vil razza dannata. Immeritevoli per definizione. Scansafatiche e lavativi. Uomini e donne senza qualità. Che non meritano i loro lauti stipendi. Che non sfornano studenti ‘competenti’ come idiot savant e si ostinano a volerli divergenti, riflessivi e critici. Che non accettano di essere valutati con un test e continuano a rigettare il  falso mito dell’oggettività. Ma qualcuno, tra i fautori dell’Invalsi, ha mai letto Pirandello’?

Ti supplico, almeno tu che sei intelligente non mangiare mai le polpette degli estranei” sussurro al mio cane, rientrando a casa.