scuola e cittadinanza

"Mi dica lei..."

di M. Gloria Calì,  Insegnare, 20.2.2015

Domatori domati, sovrani senza scettro, capitani che hanno perso il timone: ecco come appaiono i genitori che, al colloquio periodico, sconsolati e sconfitti, vengono a deporre nelle robuste mani degli insegnanti la guida dei loro virgulti.

Rispetto al quadro di un alunno in cui prevalgono le tinte nebbiose del disinteresse, della riottosità, dell’indifferenza totale o parziale al rispetto delle regole sociali e/o apprenditive, il genitore oppone un altro quadro altrettanto fosco di un figlio mendace, sordo ai richiami, spesso pronto al ricatto pur di ottenere la PlayStation, lo Smartphone, su su fino al tatuaggio, o allo scooter; scatta allora la domanda fatale: “Professore, mi dica lei come devo fare!”.

Allora il docente deve rispondere, pena la perdita di autorevolezza, e l’addossamento totale della responsabilità dell’insuccesso scolastico del giovane sfuggente. “Se non riesce a farlo studiare lui, che è il suo insegnante, devo riuscirci io? Faccio già tanta fatica come mamma/papà…” si sente la sua voce che parla da dentro, come se fosse un ventriloquo. 

Qua si “parrà la tua nobilitate”, professore.

Ogni tanto ti viene il dubbio, spesso fondato, che i genitori non abbiano voglia di impegnarsi troppo, perciò preferiscono recitare il copione degli adulti tanto affaticati, delegando alla scuola la fatica di Sisifo dell’educazione dei figli.
Spesso però sono sinceri: in certi contesti sociali e culturali i genitori avrebbero bisogno, loro, di maestri e di guide, perché sono troppo giovani, o troppo sbandati e sofferenti di mali più grandi persino di loro; in altri contesti, all’estremo opposto, si credono grandi, perciò titolari solo di diritti (alla carriera, allo svago, ecc.) e non si rendono conto che devono farsi piccoli per accostarsi ai loro figli senza schiacciarli. 

In entrambi i casi, la risposta dell’insegnante però non può essere generica o, peggio prescrittiva, come, ad esempio, “deve studiare”. Se si potessero contare gli esiti positivi dell’esortazione “studia!” avremmo la possibilità di coinvolgere un gruppo di esperti per progettare la riconversione dell’energia fisica e mentale, dilapidata per il suddetto richiamo in quantità gigantesche, per l’illuminazione di una città intera. 
Il nodo è che il genitore e l’insegnante dovrebbero mettere al centro della loro attività verso il (malcapitato) alunno/figlio due parole magiche: “come” e “perché”.

A questo punto, dando per scontato che il genitore sia sincero, l’insegnante deve consegnargli indicazioni concrete, e allora si trasforma in governante (“Dove studia suo figlio? In cucina? Con il fratellino più piccolo? Cerchi di trovargli un posto dove non perda la concentrazione”); nutrizionista (“Non fa colazione? Ma ha bisogno di energie, per la mattinata scolastica!”); personal trainer (“Gli faccia fare fare un po’ di sport, magari di squadra”); psicologo (“Provi a non chiedergli sempre perché non ha avuto 9 anziché 8”); pediatra (“E' molto irritabile, signora: gli faccia fare un emocromo”).
Si potrebbe continuare per molto ancora, ed è tutto vero: spesso c’è bisogno di indicare strategie di gestione degli spazi e dei tempi, di organizzazione e percezione delle priorità, oliare o regolare i meccanismi della gratificazione. Certe volte l’indicazione è accolta con gratitudine sincera e rincuora il genitore ben intenzionato che aveva bisogno solo di essere snebbiato; altre volte, purtroppo, ti rimanda una sconfitta già incassata, rispetto alla proposta di soluzione offerta dall’insegnante: è allora che ti balena davanti agli occhi l’immagine di un figlio gigantesco, solo e dispotico, e di un genitore piccolo piccolo, che guarda disorientato il gigante imbronciato. 

E’ un passaggio delicato, perché in fondo il genitore, più o meno consapevolmente, chiede veramente aiuto al docente:  e lì bisogna tenere ben fermo che l’obiettivo è un minore, e la sua disponibilità a partecipare attivamente ad un percorso di crescita che gli consegna strumenti per essere migliore. Non si dovrebbe mai invadere la delicatezza dei contesti familiari, ma cercare in se stessi il meglio della propria complessità umana, calibrarla e finalizzarla grazie all’esperienza e all’attrezzatura professionale; non è sempre facile mantenere il distacco e la lucidità, ma è importante per instaurare quel rapporto di fiducia che è alla base di ogni alleanza educativa scuola-famiglia.

E’ un passaggio delicato, impegnativo e rischioso; roba da insegnanti, in altre parole.