Istruzione / Meritocrazia Valutare e punire nella scuola di Matteo Renzi Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi? Quali le analogie con l’università? Perché nel mondo della scuola la parola “merito” produce di regola risposte difensive? Come viene ridisegnato il ruolo dei Presidi-Manager? Come mai dagli anni ’80 ad oggi l’istruzione è oggetto di un vero e proprio bombardamento a suon di riforme? La sollecitazione di un coinvolgimento dal basso segna un cambiamento di tendenza? Si va delineando una linea strategica e, se sì, quale? Su questi temi Roberto Ciccarelli intervista Valeria Pinto, l’autrice di “Valutare e Punire”. Una sintesi dell’intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 3.9.2014. Roberto Ciccarelli e Valeria Pinto, Roars 14.9.2014
Roberto Ciccarelli:
«Il “patto educativo” di Renzi sulla scuola è
ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche
neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non
c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di
filosofia teoretica alla Federico II di Napoli,
autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione
nell’università e nella ricerca “Valutare e punire” (Cronopio)
– Il governo accelera un processo costruito in
decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia
impegnato in una trasformazione così ampia». Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi?
Valeria Pinto:
È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si
parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della
nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si
accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del
management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e
della formazione continua si chiarisce che i docenti devono
raggiungere gli obiettivi «preposti». Preposti da chi? Chi decide?
Sempre più questi obiettivi coincidono con i quelli dei cosiddetti
«portatori di interessi», interessi che, alla fine, sono solo
interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su
altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma
neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende.
Anche nell’università la valutazione costituisce ormai l’architrave
istituzionale e il nuovo luogo di potere: una concentrazione mai
vista prima. Essa è infatti una forma di governo, la forma di
governo dello «evaluative State», lo Stato della valutazione. Si
chiama «governing by number», governo con i numeri o governo a
distanza. A dispetto della parvenza democratica – siamo consultati
su tutto ormai, specie online, ma a contare sono solo le opinioni
che danno copertura a scelte già fatte – è un governo di controllo
capillare teso a «cambiare le menti», come disse Monti premier, di
fatto citando la Thatcher.
Certo. Sono ricorrenti
i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del
potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di
amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di
rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto
l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di
lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale
dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro
attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che
meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto
questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui
emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto anche
nell’università, dove forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa
significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione
del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.
Quando è stata
istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con
l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a
questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che
sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito
facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il
privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per
riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel
2006. Si deve a lui, che già parlava di «equità», l’ideazione dell’Anvur.
In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal
riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale
esistente. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali
e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di
mantenere fermo questo ordine. Essa non combatte le diseguaglianze,
ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è
l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello
che si prospetta per la scuola è questo.
Il momento centrale per
le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999,
definito oggi da Žižek «un attacco concertato a ciò che Kant
chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che
vediamo all’opera nel progetto renziano: educare al problem-solving,
subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e
utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i
progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della
riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto
breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una
«industria socialista», secondo la celebre espressione di Milton
Friedman.
La forza di questo
discorso intimidisce e rincoglionisce, come disse Tullio Gregory
dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi,
ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro
sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata
interiorizzata, mentre la «cultura della valutazione» – nel migliore
dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia
– ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. È come la
rana bollita di Chomsky, quella che all’inizio sguazza felice
nell’acqua tiepida. Poi, mentre la temperatura sale, si sente un po’
fiacca ma non se ne dà pensiero, sdrammatizza. Quando l’acqua
diventa calda davvero magari sì, si mette sulla difensiva, ma non
serve niente, in un attimo è cotta. Ecco che cose che ci avrebbero
fatto orrore solo qualche decennio fa sono oggi proposte e accettate
come soluzioni «semplici e concrete», secondo una «pragmatica
generale» che è la nuova cifra del tempo.
Le due cose non sono
mai state in alternativa: si tratta di formare nuove soggettività
flessibili conformi alle regole del mercato. Quello determinato
dalla valutazione è un «quasi-mercato», l’analogo del sistema
informativo dei prezzi. Sorprendentemente ancora qualcuno si ostina
a non vedere il nesso, peraltro dichiarato (basta sfogliare, ad
esempio, il recente libro della Fondazione Agnelli La
valutazione della scuola).
La cosiddetta «school
choice». L’intento è fornire alle famiglie le informazioni per
scegliere come investire il proprio capitale (in primis
capitale umano) e per rendersi quindi responsabili delle proprie
scelte ovvero del proprio destino. La conseguenza logica è il
modello «voucher» per rendere le famiglie «libere» di scegliere la
migliore scuola per i loro figli, nella sostanziale liquidazione
della scuola pubblica. Si parte dall’assunto che «le risorse
pubbliche non saranno mai sufficienti», presentato come un’evidenza
naturale, nella neutralizzazione di qualunque interrogativo sul
perché, e si rende semplice buon senso l’ingresso dei privati. Ecco
che la finanziarizzazione del sapere diventa qualcosa di molto
tangibile.
Nel «patto educativo»
si parla di «finanza buona», di «obbligazioni ad impatto sociale», i
«social impact bond» già utilizzati in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti. La scuola è sempre più risucchiata in un universo di
concetti, valori, criteri che ha nel mercato il suo unico
riferimento. Questo movimento è cominciato con la trasformazione di
sufficienze e insufficienze scolastiche in crediti e debiti. La
logica privatistica è funzionale all’ingresso dei privati, ad affari
in carne ed ossa, fino al grande business della formazione.
Come si farà, ad
esempio, nella scuola dell’obbligo ad affidare degli alunni a
insegnanti riconosciutamente di serie B o a istituti
trasparentemente di serie C? Di fronte a risultati negativi degli
allievi, le famiglie dovranno prepararsi a una class action? In un
sistema dove l’istruzione è un diritto sancito dalla costituzione, è
legittimo che qualcuno abbia insegnanti «eccellenti» e altri abbiano
invece insegnanti «screditati»? Ma anche questi scogli saranno
superati, perché a questo punto gli insegnanti mal valutati – per
qualunque motivo – non potranno che essere allontanati… al momento
si parla di mobilità, ma così come si parla di «superare il grigiore
dei trattamenti indifferenziati» avendo di mira il contratto
collettivo, si potrà ben chiamare «resi finalmente mobili» gli
insegnanti accompagnati alla porta.
Quello atteso da chi
avesse avuto la pazienza di guardare dove queste pratiche avevano
già mostrato le proprie vere finalità: tagli, estinzione dei
processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre
più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli
interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro
legittimazione culturale. Poi un po’ di ridefinizione dei rapporti
di potere: sostanzialmente una rilegittimazione dei vecchi poteri
sotto forma di nuove «tecno-baronie». E soprattutto: nessuna
evidenza – nessuna evidenza indipendente – che la valutazione abbia
migliorato la ricerca e l’istruzione. D’altra parte non è concepita
per questo. Stiamo parlando di processi che sollecitano sempre una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Quello di Renzi non fa eccezione perché fa appello alla convinta partecipazione di coloro che vi sono sottoposti. È sulla base di una consapevolezza indebolita, fiaccata (la rana bollita), che si rende possibile quello che viene definito «patto sulla scuola», espressione che ricorda il patto che Berlusconi diceva di avere siglato con gli italiani. Lo Stato valutativo funziona sempre solo con la sostanziale complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Alla fine, siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione. Bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato. |