Il sistema universitario italiano e l’Europa:
alcune considerazioni sul riconoscimento dei titoli
e sulla libertà di movimento all’interno dell’Unione

 Angelo Rubino, Roars 13.9.2014

Il 25 giugno scorso il CUN ha approvato una raccomandazione per “l’armonizzazione del Sistema Europeo dell’Istruzione Superiore… tramite l’adozione di politiche che consentano… il mutuo riconoscimento automatico dei titoli di abilitazione per l’accesso alla docenza universitaria, attraverso l’adozione di direttive che determinino le condizioni di equivalenza, nel rispetto della diversità dei sistemi di Istruzione Superiore nazionali…”.

Si tratta sicuramente di un fatto positivo e rappresenta per me anche un’occasione per esprimere il mio punto di vista -dalla prospettiva di un ricercatore che ha trascorso numerosi anni della propria carriera all’estero dove ha anche conseguito l’abilitazione alla docenza universitaria- circa alcune questioni che riguardano la posizione del sistema universitario italiano nei confronti dell’Europa sul tema del riconoscimento dei titoli acquisiti in un Paese membro dell’Unione Europea e, più in generale, circa la libertà di movimento dei cittadini all’interno dell’Unione.

La mia riflessione parte da un elemento noto e fondamentale: l’Italia esporta “cervelli” in grande quantità verso l’Europa, ma ne importa pochissimi. Il nostro è quindi uno dei sistemi più chiusi del Continente per quanto riguarda gli ingressi e più aperto per quanto riguarda le uscite (o fughe…). Da ciò si dovrebbe supporre che, da tempo, si stia facendo, a tutti i livelli, ogni sforzo per porre un argine a questo squilibrio, le cui conseguenze negative si ripercuotono, in ultima analisi, sul benessere del Paese, che perde di anno in anno parte del proprio capitale umano senza che questa venga rimpiazzata da ingressi altrettanto qualificati dall’estero.

Ma, francamente, non ho la sensazione che le cose stiano esattamente così.

Prendiamo, per esempio, il caso della docenza universitaria.

A mio avviso, già la legge del 3 luglio 1998, numero 210 presentava diversi elementi di dubbia equità riguardo al trattamento riservato agli studiosi europei che volessero lavorare nel nostro Paese. Il “concorso”, per esempio, si concludeva con l’identificazione di due “idonei” che poi potevano essere chiamati direttamente da qualsiasi Ateneo nazionale al ruolo di professore. Ma ai possessori di idoneità comunitarie (per esempio l’Habilitation tedesca) o ai professori attivi in Paesi dell’Unione non veniva dato alcun riconoscimento. Addirittura, chi non fosse già professore associato in Italia doveva sostenere una prova didattica nel concorso ad ordinario (legge 210/1998, articolo 1, comma e, punto 3), fosse pure il più grande didatta e professore francese, spagnolo o tedesco (solo ed unicamente l’associato italiano ne era esentato!) cosa che innescò l’avvio, da parte della Commissione Europea, di una procedura preliminare a quella di infrazione contro l’Italia, bloccatasi poi con il superamento della normativa suddetta…

Eppure la legge europea ed italiana (direttiva 2005/36/CE, recepita dallo stato Italiano tramite il Dlgs 20/2007) parla chiaro: “per l’accesso o l’esercizio di una professione regolamentata sono ammessi al riconoscimento professionale le qualifiche professionali che sono prescritte da un altro Stato membro per accedere alla corrispondente professione ed esercitarla” (art. 21 Dlgs 20/2007).

Ora, un sistema che intenda veramente aprirsi all’Europa dovrebbe essere sommamente interessato, secondo me, a dare un significato il più possibile estensivo al termine “professione regolamentata” e a concedere quindi il riconoscimento (l’equipollenza) a qualifiche comunitarie simili oppure, (il che, come mostrerò in seguito, è pressoché equivalente) ad applicare comunque i criteri “europei” per orientarsi nelle decisioni sui riconoscimenti. Quello che accadde quando il sottoscritto, possessore dell’abilitazione tedesca (Habilitation + Lehrbefugnis, qualifica che consente, in Germania, di accedere al ruolo di professore ordinario) richiese al MIUR il riconoscimento del proprio titolo, fu in realtà un diniego secco. Ne seguì un contenzioso che sfociò in una sentenza della corte di giustizia delle comunità europee (C-586/08). Formalmente (e usando termini che sembravano non escludere un’interpretazione estensiva da parte italiana, vedi anche l’interrogazione parlamentare europea dell’allora Senatore Gianni Vattimo. prevalsero le tesi del ministero, ma il nostro Paese venne pure invitato a dare il giusto valore ai titoli comunitari: “La circostanza che l’accesso ad una professione sia riservato ai candidati selezionati mediante una procedura diretta ad ottenere un numero predeterminato di persone sulla base di una valutazione comparativa dei candidati piuttosto che mediante l’applicazione di criteri assoluti e che conferisce un titolo la cui validità temporale è strettamente limitata non implica che tale professione sia una professione regolamentata ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 settembre 2005, 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Tuttavia, gli artt. 39 CE e 43 CE impongono che le qualifiche acquisite in altri Stati membri siano riconosciute per il loro giusto valore e siano debitamente prese in considerazione nell’ambito di tale procedura“. “Non implica” non significa “esclude”! Alle prescrizioni della sentenza si sarebbe potuto reagire, a mio avviso, almeno prevedendo esplicitamente di assegnare un determinato punteggio per il possesso di un’abilitazione comunitaria. Ma ciò non avvenne e fu quindi lasciato alla discrezione delle singole commissioni giudicatrici la decisione riguardo al valore da attribuire al titolo e, prima ancora, la conoscenza stessa della sentenza europea: nessuno avvertì questa discrezionalità in contrasto con la sentenza stessa che, al suo punto 34, impone al nostro Paese il dovere di vigilare segnatamente affinché non avvengano discriminazioni: “In considerazione del riferimento, nella questione proposta, alle disposizioni del Trattato CE riguardanti le libertà fondamentali, occorre tuttavia rammentare che gli artt. 39 CE e 42 CE garantiscono ai cittadini degli Stati membri l’accesso, senza discriminazione fondata sulla nazionalità, alle attività dipendenti e autonome. Spetta quindi alle autorità nazionali vigilare segnatamente affinché, nell’ambito di una procedura di selezione come quella che conduce all’iscrizione nell’elenco dei possessori dell’ISN, le qualifiche acquisite in altri Stati membri siano riconosciute per il loro giusto valore e siano debitamente prese in considerazione…“.

Intanto era entrata in vigore la “Legge Moratti” (legge 4 novembre 2005, numero 230), la quale rappresentò un’importante svolta per quel che riguarda il valore da riconoscere ai titoli per l’accesso alla docenza conseguiti in Paesi stranieri. La legge introdusse un’idoneità scientifica nazionale (ISN, vedi sopra) a numero chiuso e sancì la spendibilità (non il riconoscimento…) delle idoneità straniere. Di conseguenza, gli studiosi in possesso di idoneità di “pari livello” potevano essere chiamati direttamente al ruolo di professore, proprio come accadeva per gli idonei italiani, anche se in una percentuale molto piccola rispetto alle chiamate di un dato Ateneo: “Nell’ambito delle relative disponibilità di bilancio, le università… possono procedere alla copertura di una percentuale non superiore al 10 per cento dei posti di professore ordinario e associato mediante chiamata diretta di studiosi stranieri, o italiani impegnati all’estero, che abbiano conseguito all’estero una idoneità accademica di pari livello” (legge 230/2005, comma 9).

L’applicazione di questa norma, purtroppo, ebbe vita breve, perché, poco tempo dopo essere stata emanata, essa fu abrogata da un “milleproroghe”. L’apertura internazionale, evidentemente, aveva dato fastidio. Alcuni hanno sostenuto che la causa dell’abrogazione sia stata l’abuso che pare venne fatto dello strumento delle “chiamate dirette”. Questa interpretazione però non sembra credibile: ogni richiesta di chiamata diretta veniva esaminata direttamente dal CUN attraverso un’attenta analisi del curriculum e dei titoli del candidato. I sostenitori dell’esistenza di abusi dovrebbero quindi anche spiegare come questi potessero poi realizzarsi…

Si tornò dunque ad un’asimmetria simile alla precedente: l’idoneo italiano poteva essere chiamato direttamente da qualsiasi Ateneo, quello straniero no. La chiamata diretta rimaneva (e rimane) possibile per coloro i quali siano già professori in pianta stabile all’estero, secondo una tabella di equivalenza stilata dal CUN. Quindi per essere trattato come un idoneo italiano, lo studioso straniero doveva essere già professore di ruolo …

La “Legge Gelmini” (legge 240/2010), con l’introduzione dell’abilitazione scientifica nazionale a “numero aperto” poneva di nuovo sul tappeto il problema della riconoscibilità delle abilitazioni comunitarie. Se non vi è più valutazione comparativa -questa la mia riflessione di allora – l’abilitazione italiana è a tutti gli effetti una “qualifica professionale” nel senso comunitario e quindi la professione di professore universitario è regolamentata in Italia ai sensi della direttiva 2005/36/CE e del decreto legislativo 206/2007 citati sopra. Più avanti mostrerò come la validità della mia riflessione sembri confermata (o, in termini minimalistici, quantomeno non esclusa) dal Consiglio di Stato…

Si noti che, curiosamente e, chissà, forse proprio nel tentativo di rimanere meno vincolata alla normativa europea, la “Legge Gelmini”, all’articolo 16, comma 4, stabilisce che “Il conseguimento dell’abilitazione scientifica non costituisce titolo di idoneità”. In altri termini, se capisco bene, una persona può essere abilitata a fare qualcosa, ma non per questo idonea a fare quella medesima cosa … Provate a vedere se vi viene in mente, nella vita di tutti i giorni, un caso simile (certo: per esempio il titolare di una patente di guida infortunato è, fino a che non guarisca, abilitato a portare la macchina (cioè patentato) ma inidoneo a farlo…).

Dopo tale novità normativa, richiesi nuovamente al MIUR il riconoscimento della mia abilitazione tedesca. Il MIUR, per risolvere la faccenda, chiese dunque il parere del Consiglio di Stato (affare 05107/2012), Il quale istituì all’uopo una commissione speciale. Intanto il tempo passava…

Dopo un corposo preambolo dedicato alla ricevibilità della richiesta del MIUR (in effetti si toccano tasti sensibilissimi quando, a seguito della richiesta di un semplice cittadino, l’autorità competente si rivolge alla giustizia amministrativa al massimo livello la quale, nel caso il cittadino non si ritenga soddisfatto, sarà poi quella chiamata a dire l’ultima parola sul caso stesso…) il Consiglio di Stato, al termine dei lavori della commissione speciale, sanciva il “potere dovere” del MIUR di “valutare ed eventualmente accogliere istanze di equipollenza”. In altri termini, il Consiglio di Stato riconosceva che un titolo tedesco per l’accesso alla docenza universitaria può essere dichiarato equipollente a quello richiesto in Italia: “La Corte ha tuttavia invitato ogni Stato membro, ai sensi delle disposizioni del Trattato riguardanti le libertà fondamentali, a considerare che le qualifiche acquisite in altri Stati membri siano riconosciute per il loro giusto valore e siano debitamente prese in considerazione. Orbene ciò, in particolare, dopo l’eliminazione del contingentamento del numero degli abilitandi, operata dall’art. 16 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, comporta senz’altro il potere dovere dell’Amministrazione ministeriale dell’istruzione, dell’università e della ricerca di valutare ed eventualmente accogliere istanze di equipollenza, di titoli ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei soggetti che hanno conseguito l’abilitazione scientifica nazionale e della successiva chiamata ai sensi dell’art. 18 della stessa legge“.

Però attenzione: le abilitazioni comunitarie vecchie di più di 4 anni (ora di 6…) debbono essere considerate “scadute” e quindi la mia abilitazione tedesca, conseguita nel 2005, era già “morta” all’atto dell’istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale italiana! Che peccato: non è stata riconoscibile neanche un giorno! In Germania l’abilitazione è a vita, ma lo studioso che si reca in Italia perde il diritto al riconoscimento sol perché il suo titolo, valido nel proprio Paese, da noi è troppo vecchio. Pensate a cosa succederebbe se lo stesso criterio si applicasse ai medici o agli ingegneri. Sei un ingegnere francese (o spagnolo, o olandese), ma la tua qualifica l’hai conseguita 5 anni fa? Allora in Italia non puoi fare l’ingegnere! Naturalmente ogni Paese è libero di definire l’intervallo temporale di validità di una data qualifica: uno stato potrebbe, per esempio, stabilire che la patente di guida valga solo 3 anni, in modo da poter verificare più volte l’abilità del pilota… Bisogna però rendersi conto che, nell’ottica europea, porre un tale vincolo può comportare l’esclusione di quasi tutti gli altri cittadini comunitari e viene di fatto a poter porre dei forti limiti alle libertà fondamentali di movimento e stabilimento dei singoli (artt. 39 CE e 42 CE). Cosa fattibile in casi eccezionali, ma difficilmente proponibile per un sistema quale quello universitario italiano, che di mobilità avrebbe invece un estremo bisogno… In altri termini, quando si pongono dei limiti temporali alla validità di una qualifica, bisognerebbe vagliare bene cosa questo comporta a livello europeo, se sussistono esigenze eccezionali che rendono indispensabile una tale limitazione, se davvero conviene e chiedersi soprattutto cosa succederebbe se altri Paesi comunitari imboccassero la stessa via… Bisognerebbe interrogarsi pure sul messaggio che si manda all’Europa quando poi i limiti temporali di validità, sui quali si gioca la possibilità del riconoscimento di un titolo comunitario, vengono mutati (4 anni, 6 anni…) dall’oggi al domani…

La speranza comunque non era ancora morta: un altro studioso possedeva un’abilitazione tedesca che rientrava nei vincoli temporali richiesti dal Consiglio di Stato. Fece domanda di riconoscimento al MIUR…

La sua domanda venne quindi, come prescritto, presa in considerazione. Si intraprese, addirittura, una sorta di attività ispettiva per comprendere più a fondo e in maniera diretta (anche se certificati consolari ufficiali attestanti natura e valore del titolo erano in possesso del MIUR da anni …) la natura e il valore del titolo tedesco.

L’esito di tale attività fu una lista di “differenze” tra l’abilitazione tedesca e quella italiana (vedi il parere generale numero 13 del CUN, adunanza del 18/12/2012) anche sulla base della quale il riconoscimento venne negato.

E qui finisce il racconto, cari amici: prima la natura particolare dell’idoneità italiana (idoneità/concorso) non implicava che la professione di professore universitario fosse una professione regolamentata e quindi che si potesse applicare la legge europea sul riconoscimento delle qualifiche professionali. Poi, una volta che il Consiglio di Stato ha sancito la riconoscibilità delle idoneità comunitarie (e quindi, a mio parere, ha stabilito che l’abilitazione scientifica nazionale si configura ora a tutti gli effetti quale qualifica professionale di una professione regolamentata*) il MIUR ha ritenuto che il titolo tedesco sia “troppo diverso” da quello italiano, anche sulla base delle indicazioni fornite dal CUN. E’ da notare che lo stesso CUN, oggi, auspica che si pongano le basi per un “riconoscimento automatico” di abilitazioni comunitarie…

Però la normativa europea ed italiana può, a mio parere, essere interpretata diversamente. E’ chiaro infatti che le qualifiche professionali in due Paesi comunitari saranno sempre più o meno differenti. Il punto fondamentale per il riconoscimento non è questo, ma, piuttosto, è l’accertamento che esse siano, nei rispettivi Paesi, le modalità (o fra le modalità) ufficiali per esercitare una certa professione e che detta professione sia nei due Paesi paragonabile. In tal caso il riconoscimento sembra dovuto: “Il riconoscimento delle qualifiche professionali operato ai sensi del presente decreto legislativo permette di accedere, se in possesso dei requisiti specificamente previsti, alla professione corrispondente per la quale i soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, sono qualificati nello Stato membro d’origine e di esercitarla alle stesse condizioni previste dall’ordinamento italiano” (art. 3, comma 1 Dlgs 206/07).

“La professione che l’interessato eserciterà sul territorio italiano sarà quella per la quale e’ qualificato nel proprio Stato membro d’origine, se le attività sono comparabili” (art. 3, comma 2 Dlgs 206/07). La legge fissa delle regole molto chiare per stabilire quando due professioni, in due Paesi membri, possano considerarsi “comparabili” e quando invece non lo siano. Queste regole si basano sull’intensità della qualifica, non sui dettagli relativi al loro conseguimento e/o alla diversa organizzazione dello Stato nel Paese straniero:

“Gli attestati di competenza o i titoli di formazione ammessi al riconoscimento soddisfano le seguenti condizioni:
a) essere stati rilasciati da un’autorità competente in un altro Stato membro, designata ai sensi delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di tale Stato;
b) attestare un livello di qualifica professionale almeno equivalente al livello immediatamente precedente a quella prevista dalle normative nazionali.

2. L’accesso e l’esercizio della professione regolamentata di cui al comma 1 sono consentiti anche ai richiedenti che abbiano esercitato a tempo pieno tale professione per due anni, nel corso dei precedenti dieci, in un altro Stato membro che non la regolamenti e abbiano uno o più attestati di competenza o uno o più titoli di formazione che soddisfino le seguenti condizioni:
a) essere stati rilasciati da un’autorità competente in un altro Stato membro, designata ai sensi delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di tale Stato membro;
b) attestare un livello di qualifica professionale almeno equivalente al livello immediatamente precedente a quello previsto dalle normative nazionali;
c) attestare la preparazione del titolare all’esercizio della professione interessata” (art. 21, comma 1 e 2, Dlgs 206/07).

Si noti che una “professione regolamentata” è “l’attività, o l’insieme delle attività, il cui esercizio e’ consentito solo a seguito di iscrizione in Ordini o Collegi o in albi, registri ed elenchi tenuti da amministrazioni o enti pubblici, se la iscrizione e’ subordinata al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento delle specifiche professionalità”(art. 4, comma 1 Dlgs 206/07) e che “qualifiche professionali” sono “le qualifiche attestate da un titolo di formazione, un attestato di competenza di cui all’articolo 19, comma 1, lettera a), numero 1), o un’esperienza professionale” (art. 4, comma 1 Dlgs 206/07).

Per essere riconoscibile in Italia, una qualifica professionale di un Paese membro dell’Unione Europea non deve essere identica a quella italiana, ma riferirsi alla medesima professione che sia, nei due Paesi, percepita ad un livello abbastanza simile.

Quindi, pur considerando il recente documento del CUN citato all’inizio un importante passo in avanti, il succitato parere del Consiglio di Stato rende possibile già oggi il riconoscimento di abilitazioni comunitarie, sempre che lo si voglia fare… Una volontà di interpretare le norme in un’ottica di apertura potrebbe rendere un mutuo riconoscimento automatico del tutto superfluo: la normativa europea è stata emanata proprio per superare gli accordi fra due parti: essa regola la materia unitariamente per tutti gli Stati membri… Le “direttive che determinino le condizioni di equivalenza” auspicate dal CUN esistono già: sono appunto, la direttiva 2005/36/CE e il Dlgs 206/07 che tale direttiva recepisce. Considerato che il parere del Consiglio di Stato succitato sancisce la riconoscibilità delle abilitazioni comunitarie, sembrerebbe logico applicare sempre e comunque i criteri “europei” (direttiva 2005/36/CEe il Dlgs 206/07) per decidere nei casi specifici riguardo al riconoscimento. Questi criteri sono il frutto di un lungo lavoro, al quale il nostro Paese ha contribuito. Tale lavoro rappresenta uno dei risultati di maggior rilievo del processo di integrazione europea, perché contribuisce a concretizzare i principi fondamentali dell’Unione. Il MIUR, invece decise a suo tempo di respingere una richiesta di equipollenza perché le “differenze” fra i due titoli vennero considerate “troppo grandi” sulla base di una metrica tutta interna, derivata proprio di un parere del CUN (parere generale numero 13, adunanza del 18 dicembre 2012). Se a questa metrica si fosse sostituita invece quella europea l’equipollenza sarebbe stata forse possibile. Auspicare “politiche che consentano… il mutuo riconoscimento automatico”, se non vuol dire riferirsi alla direttiva 2005/36/CEal Dlgs 206/07, che regolano la materia ormai da anni, può solo voler dire che debbano essere gli altri stati europei a mutare il proprio percorso formativo (in alcuni casi di tradizione più che secolare…) per adeguarsi al percorso recentissimo e mutabilissimo nostrano… Non credo che funzionerà…

Insomma in Italia, almeno per quel che riguarda il mondo universitario, mi sembra che ci sia ancora molto da fare. Vige ancora, tanto per fare un altro esempio, all’obbligo di residenza in sede per i professori universitari (articolo 7 della legge 18 marzo 1958, numero 311). Alcuni nostri colleghi -diversi tra quelli che hanno vissuto anni all’estero -hanno famiglia in uno dei Paesi Comunitari e vi ritornano regolarmente per svolgervi parte della propria esistenza. Se fosse possibile, per questi cittadini, essere ufficialmente residenti all’estero, essi, per esempio, potrebbero godere dei benefici che si riconoscono ai lavoratori transfrontalieri (è sufficiente a tale scopo trascorrere un giorno a settimana nel luogo primario di residenza, definibile quale luogo dove si trova il centro affettivo dell’individuo…). Potrebbero, per esempio, godere della medesima assistenza sanitaria riservata ai residenti locali. Ma la legge italiana, vecchia di quasi 60 anni (e forse comprensibile nel mondo prima di internet e dei voli low-cost…) lo vieta. Se si ammalano, queste persone non possono essere assistite semplicemente nel luogo dove si trova la loro famiglia. Però dal 1958 di tempo ne è passato parecchio e pure il concetto di residenza, con l’avvento dell’Unione Europea, è mutato profondamente. Non è improbabile che diverse vecchie norme ancora presenti nel nostro ordinamento, quale quella suddetta, non supererebbero un esame di compatibilità con la più recente normativa europea.

Ma questi problemi dovrebbe risolverli la politica. Ci vorrebbe davvero poco: basterebbe riferirsi direttamente alle norme europee (che poi sono anche leggi italiane…). Oltre a rispondere ad un altissimo ideale di giustizia, un tale modo di agire potrebbe rappresentare il simbolo del ritorno del nostro Paese al centro dell’Europa.

Se si lascia invece a dei semplici cittadini, come è successo nel mio caso e in quello di alcuni altri colleghi, l’onere di dimostrare l’applicabilità delle leggi europee, si può produrre un enorme rallentamento del processo di integrazione europea. Alla fine, al di là dei casi personali, il rischio è un impoverimento del sistema.

* “il potere dovere dell’Amministrazione ministeriale dell’istruzione, dell’università e della ricerca di valutare ed eventualmente accogliere istanze di equipollenza, di titoli ai fini dell’iscrizione nell’elenco dei soggetti che hanno conseguito l’abilitazione scientifica nazionale e della successiva chiamata ai sensi dell’art. 18 della stessa legge” imposto dal parere del Consiglio di Stato (affare 05107/2012) implica, a mio modo di vedere, che la professione di professore universitario in Italia è una professione regolamentata nel senso delle norme europee. Se così non fosse, non servirebbe e non avrebbe senso alcuna equipollenza: una professione non regolamentata è, per definizione, una professione alla quale ogni cittadino può accedere, senza alcun “filtro” ufficiale. E’ chiaro che, in tal caso, non c’è qualifica che tenga! Il caso del reclutamento dei professori universitari ex legge 3 luglio 1998 numero 210 (e poi ex legge 4 novembre 2005, numero 230) fu considerato, dai giudici europei, una sorta di “caso limite”. Infatti la procedura per il reclutamento possedeva entrambi gli elementi: quello dell’idoneità, immediatamente sfruttabile in ciascun ateneo nazionale e anche, addirittura senza alcuna limitazione temporale, per altri uffici (legge 230/2005, comma 15), cosa che è tipica delle professioni regolamentate (solo chi possiede la “qualifica professionale” può esercitare), e quello del concorso su base comparativa, che è invece tipico delle professioni non regolamentate (per quanti candidati “bravi” possano esservi, solo alcuni di loro potranno essere fatti idonei). I giudici europei ritennero che l’aspetto della selezione comparativa (o del numero chiuso) dovesse prevalere rispetto a quello dell’idoneità. Fra i pareri che i Paesi dell’Unione espressero circa la risoluzione del contenzioso (in una “questione pregiudiziale” come quella in parola, ogni Paese membro ha diritto di inoltrare al tribunale europeo le proprie osservazioni), ve ne furono anche alcuni che, al contrario, mettevano esattamente sullo stesso piano i due elementi e suggerivano dunque di considerare regolamentata la professione di professore universitario ex legge 4 novembre 2005, numero 230. Il fatto che la prevalenza di un elemento (idoneità) sull’altro (valutazione comparativa) non fosse considerato così netto trova conferma nella lettera della sentenza: all’autorità competente venne imposto non solo di fare in modo che alle abilitazioni comunitarie venga dato il loro giusto valore, ma addirittura di “vigilare segnatamente” affinché non avvengano discriminazioni durante le procedure di selezione, cioè di controllare, nel concreto, l’avvenuta applicazione della sentenza da parte delle commissioni.