Niente di nuovo sul fronte digitale

di Marco Guastavigna, Pavone Risorse 8.9.2014

Come tutti sanno, è di qualche giorno fa la pubblicazione del fascicolo "La Buona Scuola".

La discussione ferve su diverse tra le intenzioni annunciate, anche se - davvero curiosamente - poche sono le voci che, anziché entrare nell'astrazione del merito, puntano sulla concretezza delle risorse davvero o almeno prevedibilmente disponibili. Quante e quali saranno? A cosa saranno sottratte, vista la situazione della spesa pubblica?

L'interesse ovviamente è soprattutto sulle assunzioni, sui criteri per la progressione di carriera, sul futuro ruolo dei dirigenti in rapporto alla valutazione dell'operato degli insegnanti e così via, ma un certo spazio, anche se minore, lo hanno anche indicazioni in merito alle Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione: il coding a partire dalla primaria, la produzione digitale nella secondaria e - fulmine a ciel sereno per molti! - la sconfessione delle LIM sono i punti che hanno maggiormente colpito gli addetti ai lavori.

Cominciamo dall'idea di insegnare a programmare, a scrivere codice, a ragionare secondo il "paradigma informatico". Risale al 1988 un volume di Roberto Didoni e Marcello Sala, esponenti di spicco del Movimento di Cooperazione Educativa di allora, dal titolo "Meccanico o intelligente". Sottotitolo: risorse informatiche e problemi dell'educare; collana di appartenenza: Didattica viva. Il volume è per molti aspetti un bilancio in ottica freinettiana degli anni Ottanta, quelli del grande entusiasmo per l'introduzione dell'informatica - e quindi soprattutto della "programmazione" - in quanto tale nella scuola.

Non solo e non tanto per l'introduzione del "Piano nazionale" nella scuola superiore, quanto piuttosto per i fermenti che riguardano la scuola di base, soprattutto elementare. Da una parte ci sono i sostenitori del Basic (non ancora Visual), dall'altra i fautori di Logo, linguaggio di programmazione esplicitamente concepito e scritto da Seymour Papert con matrice costruttivista e finalità educative e formative: comandi impartiti uno per uno, oppure assemblati in insiemi anche complessi, detti "procedure" fanno muovere sullo schermo una sorta di robot virtuale (nelle rarissime e ambitissime versioni accessoriate anche materiale e sul pavimento) o manipolano "liste" di parole. Il robot è chiamato tartaruga e per un po' - fino a quando cioè sosterrà le spese - uscirà anche un'omonima rivista, che raccoglie teorizzazioni e esperienze. Molto importante ricordare che si tratta in genere di attività spontanee, spesso autofinanziate: siamo in un momento in cui la professione dell'insegnante gode di buona considerazione e un certo numero ha voglia di cimentarsi con l'innovazione e la crescita professionale.

 

Una piccola minoranza sostiene poi l'informatica "povera", nata nel decennio precedente da mettere in atto carta-e-matita senza calcolatore. I computer infatti sono davvero cari; quelli diffusi nelle case degli insegnanti e in alcune scuole sono soprattutto i Commodore 64 e -in misura molto minore- gli Spectrum Sinclair. Internet non esiste- e nemmeno è concepita nell'immaginario collettivo; i videogiochi però sì e nelle pratiche dei fortunati possessori di uno di questi apparecchi - che si collegano ai televisori se non si dispone di appositi monitor - spopolano.

Procurarsi software è estremamente complicato, perché i circuiti di distribuzione sono quasi inesistenti. La pirateria, pertanto, è per certi aspetti più diffusa di adesso. E così i rari centri di vendita spesso hanno una visione originale del copyright, mentre i frequentissimi incontri tra adepti vedonoi loro momenti culminanti nello "scambio delle figurine digitali", residenti su cassetta magnetica oppure su floppy disk. Particolarmente riprodotto - in barba al diritto d'autore - il già citato linguaggio LOGO, la cui versione in lingua italiana richiederebbe esborsi non facilmente sostenibili dai più, scuole comprese.

Pian piano, però il fascino della programmazione e dell'agire in prima persona per governare il computer si affloscia.

Da una parte subentrano strumenti diversi, nuovi entusiasmi, nuove previsioni totalizzanti. Ai Commodore e agli Spectrum si sostituiscono i primi PC veri e propri, i cosiddetti "IBM compatibili". Logo in quanto tale a dire la verità sopravvive e - anzi - in Italia esce SuperLogo, che trova addirittura un proprio spazio nei primi progetti istituzionalizzati: l'intervento di enti locali e fondazioni permette infatti di andare oltre l'iniziale spontaneismo. Addirittura è possibile pagare coloro che fanno formazione agli altri!

I "veri" PC - che usano in genere MS-DOS e che avranno via via prima due lettori di floppy disk e poi addirittura il disco rigido - permettono però di fare anche un sacco di altre cose, oltre a programmare, tra cui scrivere con il word processing. E così prospettive totalizzanti come quelle individuate da "Le radici dell'informatica" e "Logo: Ali per la mente" perdono la propria spinta iniziale. Soprattutto, ci si rende conto che scrivere codice - quale che esso sia - è difficile e complesso, soprattutto volendo ridurre al minimo l'intervento adulto; i risultati sono spesso deludenti rispetto alla fatica sostenuta; mancano problemi e situazioni per i quali valga davvero la pena di impegnarsi nella misura necessaria; i ragazzi non acquiscono affatto le abilità generali che le previsioni sostenevano si sarebbero messe in moto. Insomma: attualmente Logo è ancora in circolazione in diverse versioni, quasi tutte scaricabili gratuitamente.

Il decennio successivo è così soprattutto quello degli ipertesti. L'immaginario innovativo sostituisce infatti ai linguaggi di programmazione i "pacchetti" - professionali, ma anche progettati e realizzati in forma semplificata per scopi scolastici - per la loro produzione. Scolari, studenti e insegnanti possono realizzare in proprio manufatti culturali caratterizzati sul piano cognitivo dal fatto di collegare tra loro unità informative secondo una struttura non necessariamente sequenziale e via via - la potenza di calcolo dei PC sta aumentando esponenzialmente e così la loro capacità di processare immagini, audio e filmati - sempre più multimediali.

Questa forma primordiale di digital making riscuote anch'essa enorme successo e suscita grandiose speranze: sarà addirittura uno dei nodi sperimentali fondamentali del progetto ministeriale Multilab, che dovrebbe accertare la fattibilità e l'efficacia di percorsi didattici comportanti in misura massiccia e decisiva la presenza e l'impiego di strumentazioni informatiche. L'idea di fondo è molto semplice: produrre in modo critico informazioni è meglio che subire passivamente quelle realizzate da altri.

Nei fatti, però, le cose non vanno davvero così: realizzare ipertesti davvero originali e significativi - senza cioè privilegiare l'aspetto meramente tecnologico e assemblare frettolosamente materiali già pronti - è difficile e complesso, soprattutto volendo ridurre al minimo l'intervento adulto; di nuovo, i risultati effettivii sono spesso deludenti rispetto alla fatica sostenuta; si pone il problema del rispetto del diritto d'autore; i ragazzi non acquiscono affatto le abilità generali che le previsioni sostenevano si sarebbero messe in moto e - crudele paradosso - i loro materiali spesso dimostrano e denunciano invece competenze culturali estremamente carenti rispetto al tema affrontato o al problema esplorato Il poco noto, ma estremamente significativo, "Ipertesti e apprendimento" di Cesareni, poi, espone i risultati di una sperimentazione che dimostra che comprendere e utilizzare una struttura ipertestuale è complicato, che ci si perde, che si rende necessario costruirsi una mappa e un diario di bordo e così via.

A questo totem didattico seguirà quello della madre di tutti gli ipertesti: la rete, tuttora oggetto di barocca maraviglia e di idolatria massiva.

Poi arriveranno i blog, i CMS, l'e-learning, le LIM, i learning object, gli eBook, le flipped classroom e così via - mi perdonino gli strumenti e le situazioni oggetto di marketing concettuale che posso aver dimenticato, considerata la frequenza con cui si sono alternati.

E contro le malcapitate lavagne interattive multimediali il documento sulla buona scuola emette ora a sorpresa una sorta di condanna definitiva: ingombranti, invasive, induttrici di timori professionali e così via. Il piano per la loro diffusione? Un fallimento.

Non posso non essere d'accordo con quest'ultimo catastrofico giudizio. Ma per ragioni diverse da quelle del documento governativo - in Italia non vi è esecutivo che si rispetti che non "gufi" i provvedimenti di quelli precedenti, se ciò viene considerato foriero di consenso.

Non ho dimenticato, infatti, che l'ingresso delle LIM nella scuola è stato concepito e pubblicamente descritto a livello istituzionale come un "grimaldello" metodologico. Come uno dei modi per "remediare" la scuola, forzando e costringendo gli insegnanti verso scelte metodologiche preconfezionate da parte dell'ente erogatore dei percorsi di formazione istituzionale, che avevano spesso il controproducente effetto di diffondere senso di inadeguatezza, a fronte della richiesta di abbandonare le proprie pratiche didattiche in nome di confuse e asfittiche formule costruttiviste.

Se nel passato era frequente che le persone interessate fossero in numero superiore ai posti disponibili, nel caso delle LIM non è andata sempre così. Nel nuovo millennio sono intervenute infatti cattiva considerazione della scuola, frustrazione professionale, blocchi salariali, mancanza di riconoscimento e di incentivazione: per i tre insegnanti designati dall'istituto in alcuni casi già la frequenza era un obbligo. La loro assenza avrebbe impedito alla scuola di appartenenza di ricevere il prezioso gadget, da alcuni auspicato soprattutto per poterlo mostrare - trofeo di conquistata modernità - alle famiglie in occasione delle giornate di orientamento.

Il merito della formazione stesso era poi profondamente compromesso da due riduttivi vizi culturali e operativi di fondo: l'idea che il funzionamento della LIM coincidesse con quello del software commerciale di editoria multimediale installato con la medesima dai tecnici del fornitore, diverso da azienda ad azienda, e la conseguente mancata comprensione - da parte di molti formati, ma anche di molti formatori - che con la lavagna interattiva multimediale sono invece utilizzabili tutti i programmi presenti sul computer ad essa collegato, compresi quelli già noti e già utilizzati in precedenza.

Questa pecca fondamentale dell'impostazione dei corsi ha da una parte impedito di cogliere fino in fondo le effettive potenzialità di questo strumento di mediazione didattica e dall'altra di valorizzare davvero i percorsi e le competenze già in possesso dei colleghi e delle scuole. Molte delle quali - spaventate dalla responsabilità della presenza di un oggetto considerato "eccezionale" e "prezioso" in aula - hanno contribuito a rendere frustrante il percorso, definendo e applicando regole d'uso quanto mai rigide e castranti.