Quello che manca: l’ora di economia dalle elementari

Nella scuola italiana l’insegnamento dell’economia non ha oggi molto spazio. D’altra parte non sono solo i ragazzi a essere ignoranti in materia, anche gli adulti hanno molte lacune. L’educazione finanziaria dovrebbe partire fin dai primi anni di scuola. EconoMia e gli altri progetti pilota.

 Enrico Castrovilli e Roberto Fini, La Voce.info 9.9.2014

CHI SEGUE L’ORA DI ECONOMIA?

Le caratteristiche anagrafiche dei ragazzi che vengono sottoposti al test Pisa sono molto stringenti: si tratta di studenti quindicenni, che in Italia frequentano quindi il secondo anno delle scuole secondarie superiori. La rilevazione Oecd-Pisa non intende misurare le conoscenze nella materia della prova, ma le competenze raggiunte: nel caso della financial literacy, perciò, le domande sono congegnate in modo tale da consentire una risposta pure a coloro, la maggioranza, che non hanno nel loro curricolo insegnamenti di economia. (1)
Gran parte delle competenze dimostrate nelle risposte ai test Pisa sono dunque quelle apprese (o non apprese) nel ciclo di studi precedente. Se nelle prossime edizioni della prova si vogliono migliorare i risultati ottenuti dagli studenti italiani –
oggi classificati al penultimo posto –, è necessario mettere in campo strategie efficaci, che abbiano origine nei segmenti scolastici precedenti al corso di studi secondario-superiore.

Da che cosa dipendono le competenze in ambito economico-finanziario? È sensato immaginare una generalizzazione dell’insegnamento economico a tutte le scuole? Attualmente seguono percorsi curriculari nei quali l’insegnamento dell’economia è esplicito circa il 15 per cento degli studenti, per la gran parte iscritti agli Ite (istituti tecnici economici, ex ragioneria).

Benché il curriculum ministeriale di economia sia consistente, non sembra che alla prova dei fatti questi studenti acquisiscano competenze maggiori o più approfondite rispetto agli altri che non hanno nel loro corso di studi la disciplina economica.

Peraltro, l’economia negli Ite ha una funzione tradizionalmente “ancillare”: viene insegnata insieme a diritto e viene considerata come il completamento di economia aziendale, cui spetta un carico orario molto maggiore. Il fatto poi che tuttora i docenti di discipline economiche e giuridiche siano laureati in legge e privilegino di fatto il diritto, non aiuta nella progettazione di una didattica economica efficace.

Tuttavia, concentrare gli eventuali miglioramenti solo sugli Ite coinvolgerebbe troppo pochi studenti e, tra l’altro, troppo tardi nel percorso scolastico. In ogni caso, non è al momento prevedibile né una separazione del diritto dall’economia (che pure sarebbe auspicabile), né tantomeno un’estensione dell’insegnamento dell’economia ad altri indirizzi. Probabilmente, poi, neanche questa sarebbe una soluzione: nel nostro paese, permane l’idea che il denaro sia lo “sterco del demonio” e che in famiglia, per esempio, non si debbano discutere le questioni economiche di fronte ai figli.

Inoltre, il pregiudizio “crociano” secondo cui l’economia non è una scienza, ma una mera tecnica, la rende agli occhi di molti una disciplina di serie B. Tutto ciò si traduce nel fatto che nell’analisi di fatti storici, letterari, artistici o filosofici, molti docenti evitano accuratamente riferimenti significativi ai contesti economici entro i quali quei fatti si sono verificati. Anche in materie che si presterebbero a un approccio di tipo economico (storia o filosofia, per esempio) sono ben pochi i libri di testo che ne trattano diffusamente.

 

NON SOLO I GIOVANI SONO IGNORANTI

Del resto, che gli italiani, gli adulti e non solo i quindicenni, abbiano poca familiarità con le questioni economiche, è testimoniato anche da altri studi. L’indagine biennale sui bilanci delle famiglie italiane, condotta da Banca d’Italia, offre un’immagine delle conoscenze finanziarie non particolarmente positiva: nelle edizioni 2008 e 2010 sono state introdotte alcune domande per misurare la competenza e conoscenza finanziaria nell’effettuare le scelte di investimentoe la percentuale di risposte corrette non ha raggiunto, in media, il 60 per cento. (2)
I ricercatori della Banca d’Italia mettono in evidenza che il titolo di studio del rispondente è la caratteristica che risulta più strettamente connessa con le competenze finanziarie: coloro che al momento della rilevazione non ne avevano alcuno hanno risposto correttamente alle domande solo per un 25 per cento; la percentuale sale al 44 per cento per coloro che hanno un titolo ISCED1 (licenza elementare); nel caso di rispondenti con ISCED2 (licenza media di primo grado) si va al 62 per cento; con ISCED3 (diploma di scuola media di secondo grado) si sfiora il 70 per cento; mentre per i laureati (ISCED5) si arriva al 74 per cento. (3)


I PROGETTI PILOTA

Cosa fare allora? Innanzitutto, chiunque sia interessato a un miglioramento della scuola non può non riflettere sui dati Oecd-Pisa. La financial literacy è ritenuta a livello internazionale competenza costitutiva della cittadinanza, le sue basi concettuali debbono essere poste con la dovuta gradualità fin dai primi anni di scuola.
La scoperta dell’acqua calda? Forse, ma le conseguenze della condivisione di questa presa d’atto potrebbero essere immediate. Il rafforzamento dell’ancor gracile liceo economico sociale e la diffusione tramite l’autonomia scolastica e i progetti di cittadinanza e Costituzione, dell’educazione economica e finanziaria in tutte le scuole apparirebbero a questo punto questione di capacità organizzativa più che di effettiva impossibilità.
Si possono elencare molte iniziative presenti o passate di educazione finanziaria ben strutturate al loro interno e, almeno apparentemente, efficaci: speriamo che continuino e che si rafforzino. Qui, vogliamo citare l’esperienza del concorso “EconoMia”, arrivato alla seconda edizione. (4) Il concorso si svolge nell’ambito del Festival di Economia di Trento e quest’anno ha visto la partecipazione di un centinaio di scuole e di circa cinquecento studenti. Dopo una selezione piuttosto impegnativa, i vincitori, venti, vengono premiati con la copertura delle spese di viaggio e di sistemazione durante i giorni del Festival, oltre a un piccolo premio in denaro. (5)
L’aspetto forse più interessante del concorso non è tanto il fatto che i vincitori provengono da tutta Italia e da ogni tipologia di scuola superiore, quanto l’interesse con cui questi ragazzi e ragazze seguono i dibattiti del Festival. Il che la dice lunga su un paio di pregiudizi diffusi: in primo luogo, forse, l’economia non è una “scienza triste”; in secondo luogo non è poi così difficile. Può essere persino che qualcuno scelga di intraprendere un percorso accademico orientato al tema.

(1) Per il framework sulla financial literacy e per esempi di item economici-finanziari contenuti nelle prove Oecd-Pisa vedi: http://www.invalsi.it/invalsi/ri/pisa2012/documenti/Financial_Literacy.pdf

(2) Si tratta di domande elaborate da Annamaria Lusardi. Al soggetto individuato come capofamiglia sono stati posti tre quesiti con lo scopo di rilevare la capacità di calcolare variazioni nel potere d’acquisto, comprendere l’opportunità di diversificare il portafoglio e distinguere fra diverse tipologie di mutuo. Inspiegabilmente, nell’edizione 2012 queste domande sono state omesse. Sui temi dell’alfabetizzazione economica e sulla sua importanza in particolare per alcune scelte di vita, si legga O.S. Mitchell e A. Lusardi, Financial Literacy: Implications for Retirement Security and the Financial Marketplace, Oxford University Press, 2011. I supplementi al Bollettino statistico sulla ricchezza delle famiglie italiane si possono scaricare a partire da https://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait/boll_stat.

(3) Nel sistema scolastico italiano non esiste ISCED4: istruzione post-secondaria non universitaria.

(4) Il concorso EconoMia è la proiezione nazionale di un’idea nata nell’anno scolastico 2011-12, all’Istituto tecnico economico “Bodoni” di Parma. Ai migliori studenti di quarta e quinta fu chiesto di produrre un saggio breve su un tema di economia. In palio la partecipazione al Festival dell’Economia di Trento. La favorevole accoglienza dell’iniziativa da parte degli organizzatori del Festival ha suggerito ad Aeee-Italia (Associazione europea per l’educazione economica) di proporne l’estensione, dall’anno scolastico 2012-13, a tutto il territorio nazionale. EconoMia, diventato un format del Festival di Trento, è dunque il risultato della fattiva collaborazione tra un’associazione professionale di insegnanti, il comitato promotore del Festival e un istituto secondario di secondo grado.

(5) Ulteriori informazioni si trovano sul sito del concorso: www.concorsoeconomia.it

 

 

Per il governo Renzi la riforma della scuola sembra essere in primo luogo un problema di politica del lavoro: ossia stabilizzare 150mila precari, tra i quali, sia chiaro, non ci sono solo persone che hanno vinto concorsi e selezioni competitive, ma anche altre il cui unico merito è di aver atteso per anni nelle graduatorie a esaurimento senza alcuna valutazione della loro reale capacità di insegnare bene. Gli interessi degli studenti vengono dopo, solo nei capitoli successivi della proposta.
Stando a quanto scrive l’Ocse (ed è un peccato che il documento governativo, per altro molto ben scritto e documentato, non dica nulla su queste stime), la scuola italiana non aveva bisogno di nuovi docenti, soprattutto se assunti senza guardare alla loro qualità. La tabella 1 mostra che nell’anno 1999-2000 il numero di studenti per insegnante in Italia era inferiore rispetto ad altri paesi comparabili e, anche dopo i tagli dei governi recenti, nel 2009-2010 continua a essere in linea con la media Ocse per la scuola materna e inferiore per la primaria e la secondaria. Rispetto alle medie Ocse, sono anche di più le ore di insegnamento obbligatorio per studente (vedi pannello inferiore della tabella 1).
Più in generale, la spesa in istruzione per studente è stata in Italia più alta che in altri paesi comparabili (vedi il pannello superiore di sinistra della tabella 2 e la figura 1a). Solo negli ultimi anni, a causa dei malaugurati tagli lineari del Governo Berlusconi, questa spesa è diminuita fino a essere in linea con gli standard internazionali (vedi il pannello superiore di destra della tabella 2 e la figura 1b). Ma anche se la spesa è in linea con quanto accade all’estero, la performance della scuola italiana misurata dagli indicatori di apprendimento degli studenti non è soddisfacente.
È vero, come molti lamentano, che la spesa in istruzione è bassa rispetto al prodotto interno lordo (vedi i pannelli inferiori della tabella 2). Il motivo della differenza rispetto alla spesa per studente, tuttavia, è essenzialmente demografico, come illustrato dalla comparazione tra i trend di fertilità nella tabella 3: nei paesi in cui nascono pochi bambini, anche se una frazione inferiore delle risorse è devoluta alla scuola, la spesa per studente può rimanere alta. D’altro canto, è proprio la spesa per studente (non la spesa in proporzione al Pil) l’indicatore rilevante per giudicare se stiamo spendendo abbastanza per la scuola. E i dati ci dicono che non spendiamo meno degli altri: il vero problema è che spendiamo male; e che gli insegnanti sono tanti, ma male assortiti, generando quindi l’impressione che siano pochi perché mancano dove servono e nessuno parla di quelli in eccesso dove non servono. (1)
La politica è l’arte del possibile, però, e forse le 150mila assunzioni (quasi il 15 per cento dello stock di insegnanti in Italia, che rischia di bloccare nuovi ingressi per molti anni a venire) sono il prezzo che Renzi ha dovuto pagare alle forze conservatrici nella scuola (tra l’altro un bagaglio significativo di voti: circa un milione) per introdurre alcune importanti novità che speriamo non rimangano solo annunci sulla carta.
 

GLI SCATTI PER MERITO

La prima novità è l’abolizione degli scatti di anzianità sostituiti da aumenti retributivi legati al merito individuale dei docenti. È una misura ancor più necessaria per neutralizzare le conseguenze della stabilizzazione ope legis dei precari non assunti per merito. Come la teoria economica insegna, quanto più efficace è la selezione in ingresso degli insegnanti, tanto meno necessaria è l’adozione di politiche retributive e carriere incentivanti, sempre complicate da disegnare soprattutto per lavoratori il cui prodotto e i cui compiti sono complessi e difficili da misurare. Il successo della riforma Renzi dipenderà in modo cruciale da come saranno concretamente definiti e misurati i crediti didattici, formativi e professionali su cui si baseranno gli scatti retributivi destinati ai due terzi migliori dei docenti in ogni scuola.
Stupisce a questo proposito che il documento governativo non faccia alcuna menzione della valutazione reputazionale dei docenti, definita come convergenza dei giudizi dati da colleghi, studenti e famiglie, così come ad esempio studiata nella sperimentazione ministeriale “Valorizza”. (2)
Quanto alla scelta di riservare i premi solo ai due terzi migliori dei docenti di una scuola, è una soluzione con vantaggi e svantaggi (come tutte le altre in questo campo), ma i primi probabilmente superano i secondi. Il rischio maggiore è di punire bravi insegnanti che però non rientrino nei migliori due terzi nelle scuole in cui la qualità media dei docenti sia molto alta, mentre sarebbero premiati insegnanti peggiori in scuole con qualità media inferiore. È interessante l’argomento secondo cui questo meccanismo potrebbe favorire una mobilità positiva tra scuole, inducendo insegnanti bravi ma non ottimi in una scuola, a spostarsi dove invece, data la peggiore qualità dei colleghi, potrebbero essere premiati. È comunque auspicabile che il meccanismo sia combinato con maggiori risorse alle scuole migliori, in modo che tutti i loro insegnanti, anche quelli non premiati internamente, possano goderne ed esserne incentivati.
 

L’AUTONOMIA DELLE SCUOLE

La seconda importante novità è contenuta nell’affermazione del principio rivoluzionario per cui “ogni scuola deve poter schierare la miglior squadra possibile”. È un bene che di questo si inizi a parlare apertamente, perché i dati dicono che le buone scuole le fanno i buoni insegnanti, molto più che le architetture istituzionali. Il documento governativo riconosce che i dirigenti scolastici sono come comandanti di una nave che non abbiano la possibilità di governare il timone, di regolare le vele e soprattutto di scegliersi l’equipaggio. E questa scelta assume un’importanza ancora maggiore data la necessità di neutralizzare gli effetti negativi della stabilizzazione indiscriminata dei precari.
Pone, però, dei problemi di coerenza interna alla proposta governativa. Supponiamo ad esempio che tra gli 80mila precari destinati alla scuola materna ed elementare non ce ne siano a sufficienza (ed è molto probabile) per potenziare l’insegnamento delle scienze, della matematica e delle lingue straniere come i dirigenti scolastici migliori vorranno fare. Come faranno a scegliersi la loro squadra preferita? E cosa accadrà degli stabilizzati che nessuna scuola vuole? Il male minore è che continuino a percepire il loro stipendio base, quasi come un sussidio di disoccupazione, ma sarebbe grave se venissero imposti ai dirigenti facendo danno agli studenti (anche solo come membri del corpo di pronto intervento che dovrà risolvere il problema delle supplenze). Il diritto dei precari che, secondo il Governo, “aspirano legittimamente a insegnare”, non deve dominare il diritto degli studenti (soprattutto quelli provenienti da famiglie svantaggiate) a ricevere una ottima istruzione impartita dai migliori docenti.
Qui sta la debolezza maggiore della proposta governativa: dice troppo poco su quanto profonda e completa sarà l’autonomia di cui le scuole potranno godere e di cui avranno assoluta necessità per operare bene. Come illustrato nell’ultimo quaderno di Treellle, in molti paesi comparabili al nostro, le scuole (pubbliche) godono di una autonomia profonda che si estende (con successo) non solo alla gestione del personale (selezione e meccanismi retributivi e di carriera) ma anche ai programmi educativi e alla gestione delle strutture. (3) Se davvero Renzi vuole non solo che tutto il paese “parli di quel che si impara a scuola”, ma anche che da questo parlare conseguano nuovi progetti educativi al passo con i tempi e capaci davvero di generare un efficace collegamento tra scuola e mercato del lavoro, deve consentire alle scuole un’autonomia molto più profonda di quella che il documento governativo lascia trasparire in termini di proposte concrete.
Ad esempio, come intende rispondere ai genitori e agli studenti che, nell’annunciata consultazione autunnale, chiederanno un maggiore investimento in materie scientifiche più che in musica e storia dell’arte? La realtà è che sarebbe sbagliato se Renzi o chicchessia scegliesse l’una o l’altra soluzione per l’intero paese, mentre le singole scuole devono poter avere l’autonomia per disegnare l’offerta formativa richiesta dal loro bacino di utenza, assumendo gli insegnanti necessari con la flessibilità e la rapidità che i concorsi nazionali non hanno mai consentito né mai potranno consentire.
I nostri studenti non devono essere costretti a scegliere tra pacchetti di materie (classico, scientifico e così via) come in un ristorante a menù fisso. Devono poter costruire gradualmente, á la carte, itinerari formativi diversificati a seconda delle loro doti e delle prospettive lavorative a cui aspirano, necessità queste che il pachiderma ministeriale non può cogliere e regolare con la flessibilità e la rapidità che il processo richiede.
Quel che il ministero invece deve fare è valutare in modo standardizzato e comparabile gli apprendimenti cosicché questa valutazione, separatamente materia per materia, sia la porta di ingresso al sistema universitario per coloro che vogliono proseguire gli studi, senza bisogno di ulteriori test di ingresso alle facoltà.
 

LA TRASPARENZA

Ben vengano la trasparenza totale dei dati sulle scuole (che includa però anche informazioni sul successo dei loro studenti nei percorsi successivi, un dato non menzionato dal documento governativo, ma essenziale perché le scuole si impegnino nell’orientamento dei loro studenti in uscita) e il registro pubblico degli insegnanti (se Renzi ci riesce sarebbe un successo davvero enorme). E ben venga l’affermazione che non servono classifiche preconfezionate tra le scuole. Quello che serve è che le famiglie ricevano, in modo trasparente appunto, le informazioni elementari che servono per fare la loro classifica personalizzata delle scuole preferite in cui mandare i propri figli e per questa via convogliare i finanziamenti pubblici alle scuole. La trasparenza, però, deve combinarsi con un ampio spazio di manovra che consenta alle scuole e ai loro dirigenti di offrire l’istruzione e i buoni insegnanti che meglio servono alle famiglie e al paese. (4)

 

(1) Per ulteriori dettagli su questi dati vedi: A. Ichino e G. Tabellini, “Freeing the Italian school system” Labour Economics 2014; una precedente versione in italiano è stata pubblicata nell’e-book del Corriere della Sera “Liberiamo la scuola”

(2) Vedi:
http://www.andreaichino.it/other_articles/rdr_valorizza_fxs_3l_dic_2011_testo.pdf

(3) Vedi: http://www.treellle.org/convegno-di-presentazione-del-quaderno-10

(4) Per una proposta dettagliata che va in questa direzione, vedi ancora A. Ichino e G. Tabellini, “Freeing the Italian school system” Labour Economics 2014, pubblicato anche in italiano nell’e-book del Corriere della Sera “Liberiamo la scuola”.

 

Tabella 1 – Numero degli insegnanti e ore di lezione

Fonte: Oecd Education at a Glance (2012).
Nota: The number of teachers reported by our source (OECD, Education at a Glance) excludes special teachers for disabled students while it includes the ones teaching Catholic Religion (see footnote 19). Teaching ours in 2000 refer to public institutions only. “m” stands for missing value.

 

Tabella 2 – Spesa in istruzione per studente e in percentuale sul Pil

Fonte: Oecd, Education at a Glance 2003 and 2012.
Note: PPP means Purchase Power Parity, i.e. data are converted in order to take into account the difference in living costs across countries. “Countries comparable to Italy” are the 26 OCED members presenting a 2009’s GDP per capita figure within the range of Italy’s 2009 GDP per capita plus and minus one standard deviation (calculated with respect to all OECD countries). Data for GDP per head, PPP converted, are from the OCED Database. Unfortunately we do not have access to government expenditure per student in order to make the top and bottom panels of this table consistent. But in Italy private expenditure in primary and secondary education is only 2.2% in year 2000 and 3.4% in year 2010 of total expenditure for the same instruction levels and the number of students enrolled in public schools is approximately 90% of the total (see Table 3). Therefore, government expenditure per student cannot be too different than total expenditure per student.

 

Tabella 3 – Trend demografici della popolazione giovane

Fonte: OECD Factbook 2013: Economic, Environmental and Social Statistics; OECD Database and authors’ calculations.

Nota: The total fertility rate is the total number of children that would be born to each woman if she were to live to the end of her child-bearing years and give birth to children in agreement with the prevailing age-specific fertility rates. Share of young students in population is the ratio between the number of students enrolled in primary and secondary institutions (in full-time equivalents) over total population. Share of Young Students in Population for 2000 refers to 2002 data. Countries comparable to Italy are the 26 OCED members presenting a 2009’s GDP per capita figure within the range of Italy’s 2009 GDP per capita plus and minus one standard deviation (calculated with respect to all OECD countries). “m” stands for missing value.

 

Figura 1a - Spesa per istruzione per studente e apprendimenti.
Confronto fra paesi per il 2003

Fonte : OECD 2004

 

Figura 1b – Spesa per istruzione per studente e apprendimenti.
Confronto fra paesi per il 2012

Math performance in PISA 2012