NEW YORK – Qui a New York l’esperimento, il primo in America, l’ha
iniziato due anni fa la Goldman Sachs finanziando con 10 milioni di
dollari un progetto per il reinserimento nella società degli
adolescenti finiti nel carcere di Riker’s Island. Poi è arrivato il
Massachusetts con un programma - sempre finanziato da soggetti
privati, solo in parte filantropici - per cercare di ridurre il
numero di «homeless». Il tentativo più recente, finanziato dalla
stessa banca d’investimento di Wall Street, è in corso nello Utah.
Qui l’obiettivo è quello di intervenire sul periodo prescolastico,
migliorando la capacità di apprendimento dei ragazzini di tre e
quattro anni. Programmi finanziati, anziché direttamente dallo
Stato, con un meccanismo escogitato in Gran Bretagna: lì questi
programmi, introdotti sperimentalmente nel 2010, sono chiamati
«Social impact bond». Gli americani, invece, preferiscono un nome
più enfatico: «Pay for success bond». Ora questi innovativi
strumenti finanziari, dietro i quali c’è anche un tentativo di
rendere più responsabili e misurabili alcuni interventi di
assistenza sociale, potrebbero arrivare anche in Italia. Il progetto
di riforma scolastica del governo Renzi cita, infatti, proprio i
«Social impact bond» come possibile fonte di finanziamento degli
interventi sociali per limitare il fenomeno della dispersione
scolastica: i ragazzi che abbandonano gli studi per la difficoltà
della situazione sociale nella quale son o immersi o, semplicemente,
perché hanno scelto un indirizzo accademico non adatto a loro. Ma
come funzionano questi strumenti? Che risultati hanno dato? E sono
proponibili in Italia?
Rimborsati solo in caso di successo
In sostanza lo Stato, anziché intervenire direttamente e pagare con
soldi pubblici le attività sociali che vengono svolte, si affida a
un finanziatore privato che imposta il progetto, ne valuta la
praticabilità economica e ne affida l’esecuzione a una struttura
specializzata nella produzione di servizi sociali: nel caso di
Riker’s Island si tratta della MDRC, una società non-profit creata
dalla Fondazione Ford e da un gruppo di agenzie federali. Alla base
di tutto c’è un contratto che indica gli obiettivi da raggiungere
(nel nostro caso una riduzione del 10 per cento del numero dei
ragazzi che ritornano in galera), i tempi entro cui raggiungerli e
l’autorità indipendente che dovrà giudicare come sono andate le
cose. Se i risultati saranno stati ottenuti, i finanziatori verranno
rimborsati e otterranno anche un certo margine di profitto.
Altrimenti si accolleranno la perdita. E i risultati? Difficili da
giudicare per ora, visto che siamo ancora in una fase iniziale. Solo
in un paio di casi in Gran Bretagna le cose sono già abbastanza
avanti e si può tentare un bilancio. Siamo sempre nel campo del
recupero di chi ha commesso crimini. Nel carcere di Peterborough il
tasso dei recidivi è calato dell’11 per cento, appena sopra la
soglia minima che obbliga il governo a rimborsare. Il dato,
comunque, è contestato dagli analisti dall’Università di Leicester
secondo i quali i risultati reali sono meno positivi (un
miglioramento dell’8,4%). Comunque ci sarà una «prova d’appello» per
gli investitori, quando verranno nuovamente verificati i risultati
alla scadenza del 2016.
Strumento di controllo del non-profit
I giudizi critici non mancano: c’è chi sostiene che il sistema è troppo macchinoso e costoso, visto che bisogna mettere in piedi una struttura di finanziamento capace di preparare anche un piano di fattibilità, ci vuole un’entità operativa che esegua e poi serve anche una struttura di controllo autorevole e indipendente. Forse un po’ troppo per programmi sociali locali, spesso di impatto limitato. Altri notano che il risparmio per lo Stato è solo teorico: se i programmi funzionano, alla fine deve rimborsare tutto. Ma il vero valore dell’iniziativa, sottolineano i sostenitori, sta nella responsabilizzazione degli attori. I finanziatori si daranno davvero da fare perché se i risultati non arrivano, loro perderanno i loro soldi. E lo Stato non rischia soldi dei contribuenti se l’iniziativa fallisce. Negli Stati Uniti questa filosofia piace e infatti il Congresso è orientato ad approvare un allargamento dell’uso dei «Social impact bond» con un finanziamento di 300 milioni di dollari, attraverso un’iniziativa legislativa sostenuta sia da parlamentari democratici che repubblicani: una rarità nel clima mefitico di Capitol Hill. Ma funzionerebbe in Italia? Da noi l’ipotesi di dare un ruolo alla finanza in campo sociale ha già provocato qualche levata di scudi. Certo in Italia non abbiamo la cultura filantropica degli Usa né una legislazione fiscale che incoraggia, detassandole, le iniziative di beneficenza. Ma il «non profit» è in crescita e comunque abbiamo certamente bisogno di un sistema di valutazione economica dei risultati ottenuti, ad esempio, da un arcipelago di cooperative sociali la cui attività, oggi, è sottoposta a controlli molto blandi.