Renzi e la buona scuola: di Giuseppe Aragno, Agora Vox 12.9.2014 Il manifesto del governo Renzi sulla “buona scuola”, che a conti fatti conta per ora su una sola certezza – la sensibile riduzione di stipendio per il personale che vi lavora – si apre con uno slogan scritto in corsivo, a lettere color bianco gessetto su campo rosso, con la calligrafia della maestrina dalla penna rossa. Un personaggio deamicisiano che, a esser pignoli, non fu eternamente giovane e sorridente tra frotte di bambini, come la volle Walter Molino e come ama pensarla una classe politica che ha incatenato alla cattedra i docenti ben oltre la terza età. Renzi “rottama” così, con un pugno negli occhi, il tradizionale nero ardesia e il più moderno tenue verde della scuola degli anni più recenti. “All’Italia serve una buona scuola” – c’è scritto – e i casi sono solo due: o Renzi pensa che Francia, Germania e compagnia cantante abbiano bisogno di una pessima scuola, o nelle sei parole, complete di apostrofe e virgola, c’è l’idea maligna di una scuola – quella che Renzi ha frequentato – che non è buona a nulla. E subito, come in un western dei tempi d’oro, dietro lo slogan, senti squillar la tromba – perè, perè, perepereppepè – e nel polverone di cavalli al galoppo vedi giungere tutto il governo con la giacca blu del glorioso 77° cavalleggeri. In testa, sciabola in pugno e occhio intrepido, Renzi Jhon Wayne, che sbaraglia il campo, mette in fuga gli sporchi pellerossa, pianta la bandiera sul territorio liberato dagli Apaches e giù il cappello: ecco la civiltà dov’era la barbarie. Per chi non l’avesse capito, balzato giù da cavallo a gambe larghe, con l’incedere tipico di chi sta in sella anche quando ha i piedi per terra, Renzi, sudato e impolverato, svela subito al corpo docente il segreto della sua scuola. Lui la vuole così, come non è mai stata negli ultimi decenni: capace di sviluppare nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico. Occorre riconoscere che al governo Renzi non manca il coraggio. Se si eccettuano infatti rare e grigie figure come Padoan, la gran parte dei suoi componenti, Renzi, Boschi, Madia e compagni, riconosce così ciò che tutti già sanno: per questioni anagrafiche, nella formazione di Renzi e di molti dei suoi ministri manca il pensiero critico. Non è colpa loro: la scuola che hanno frequentato non se n’è mai curata. Ben venga, quindi, la buona scuola strappata a docenti Sioux e Piedi Neri, ma una postilla alla premessa del documento, per onestà intellettuale, il governo dovrebbe aggiungerla: quando la ferrovia sarà giunta nei selvaggi territori del West e avremo risolto con l’istruzione il problema strutturale della disoccupazione, come promette Renzi, i componenti del 77° eroico cavalleggeri giurano di ripetere il percorso di studi e acquisire quel pensare critico di cui li ha derubati la scuola degli Apaches. In quanto al progetto di “buona scuola”, va detto che si fonda soprattutto su un principio base: pensa di migliorare la scuola di tutt’Italia dal momento che favorirebbe una mobilità orizzontale positiva e prevede che la mobilità avvenga ovviamente nel rispetto della continuità didattica, e anche che le scuole potranno contare sui loro docenti per almeno 3 anni consecutivi. Si prevede poi che incoraggiando la mobilità il meccanismo nel suo complesso consentirà di ridurre le disparità tra scuole, e aumentare la coesione sociale. Sarebbe dunque un sistema basato sul merito dei docenti che ridurrebbe le disparità tra le scuole e le aiuterebbe tutte a migliorare. Solo chi non conosce la scuola può credere davvero che incoraggiando la mobilità si possano ridurre le disparità e aumentare la coesione sociale. E’ vero il contrario. Per trattenere i docenti nelle scuole, soprattutto quelle a rischio – ce ne sono di vario tipo e sono molto più numerose di quanto credano Renzi e i suoi sedicenti esperti – occorrerebbe incoraggiare la stabilità. Ogni buon docente perso è una risorsa decisiva, sia per quello che fa, che per quanto può dare ai colleghi, e non è mai facile sostituirlo. Chi sa di scuola è consapevole che occorrerebbe pagare il docente bravo per trattenerlo, ma non c’è bisogno di farlo. Un buon docente non lascia il mondo nel quale ha imparato a lavorare e a sentirsi utile solo per guadagnare qualche euro in più. Nelle scuole “difficili”, del resto, i docenti più scadenti scappano per primi, timorosi di ciò che li attende. Quelli bravi restano in trincea e si ammazzano di fatica non per lo stipendio, che è sempre da fame, ma per passione civile e amore del proprio lavoro. Renzi non lo sa – siamo all’analfabetismo di ritorno - ma le disparità tra scuole nascono dalla platea scolastica, dalla realtà territoriale, dal contesto sociale ed economico nel quale esse operano, dalla maggiore o minore presenza di quelle Istituzioni pubbliche che sono ormai sempre più latitanti. |