La “buona scuola” dei Chicago boys di Marco Magni, MicroMega 12.9.2014 La proposta della carriera dei docenti fondata sul “merito”, presentata da Renzi, rappresenta l’aspetto più dirompente ed eversivo delle pagine delle linee programmatiche “La buona scuola”. E’ ampiamente noto che prevede l’abolizione di ogni automatismo di carriera, la divisione degli insegnanti di ogni scuola in un 66% che prenderebbe, ogni tre anni, l’aumento, ed in un 33% che verrebbe escluso. Molte attenzioni sono state dedicate al calcolo di quanti soldi percepirebbe questo 66% di “migliori”. Gli stessi soldi che prima sarebbero stati garantiti dal sistema della contrattazione collettiva, o pochi di più. Alcune elaborazioni di calcolo fatte in questi giorni dicono addirittura di meno, anche per i cosiddetti meritevoli. Ma non è questo, a mio avviso, l’aspetto più rilevante della questione. Il fatto è che il concetto stesso di “carriera” viene abolito, e sostituito da una competizione che procede di tre anni in tre anni. Chi, dopo tre anni, riceve l’aumento di stipendio, nei successivi tre potrebbe vederselo negato, perché scavalcato da qualcun altro e relegato nel 33% peggiore dell’istituto.
Le fonti di tale concezione della carriera stanno nel management
d’impresa dell’epoca neoliberista e, senza dubbio, nel modello
thatcheriano della competizione tra scuole fondata sulla
performance. Personalmente, feci molti anni fa uno stage di
selezione di venditori delle aspirapolveri di nuova generazione
Kirby, e il sistema di incentivi immaginato dal governo mi ricorda
molto il sistema vigente tra i venditori porta a porta. La
competizione per garantire più impegno e produttività al proprio
istituto dovrebbe costituire l’unica condizione di progressione
economica, in alternativa non soltanto all’anzianità di servizio, ma
anche alla differenziazione per livelli diversi della carriera degli
insegnanti (com’è ad es. in Francia e in altri paesi). Si tratta, senza dubbio, della celebrazione dell’”homo oeconomicus”. Si presuppone che gli insegnanti siano degli “agenti razionali” mossi esclusivamente dal movente dell’incentivo al guadagno. Gli estensori del documento sulla “buona scuola” lo affermano chiaramente quando dicono che uno degli obiettivi del piano è di determinare una maggiore mobilità degli insegnanti tra i diversi istituti. Infatti, si dice che molti tenderebbero a trasferirsi in quegli istituti in cui la media è più bassa e nella quale c’è quindi maggiore probabilità di finire nel 66% di “premiati”. In questo modo, si migliorerebbe il livello qualitativo delle scuole (secondo un sistema di vasi comunicanti per cui poi, come accade per il meccanismo dei prezzi, il livello delle scuole dovrebbe tendere verso un livello omogeneo di qualità). In questo senso, il modello di “carriera” immaginato dalla “buona scuola”, così come il suo precedente, il piano Brunetta per dividere in una scala retributiva secondo il merito i membri della pubblica amministrazione, si presenta come un’applicazione del modello della “scelta razionale”, ideato dalla microeconomia liberista della scuola Chicago e poi applicato ad ambiti molto lontani dall’economia, come ad es. il diritto penale: i teorici della “zero tolerance” hanno, in un recente passato, affermato che il criminale va considerato come un “agente razionale”, che calcola i rischi e le probabilità di guadagno dell’azione criminosa, per argomentare la necessità di provvedimenti di legge di aumento delle pene carcerarie.
C’è da attendersi che il reale effetto del sistema sarebbe molto
diverso dalle premesse microeconomiche della sua formulazione.
Innanzitutto, una mobilità forzosa condurrebbe a mettere in
discussione la continuità didattica nelle classi, ed è tutt’altro
che garantito che tale mobilità verrebbe effettivamente a
realizzarsi. Infatti, le ragioni per cui un insegnante sceglie una
certa scuola, oggi, sono molto lontane da considerazioni di
carattere meramente economico: la prossimità al luogo di abitazione
innanzitutto, la sicurezza percepita nel clima interno
dell’istituzione, lo stato delle relazioni con il capo d’istituto,
rapporti affettivi e di amicizia, l’attaccamento ai propri studenti
e la continuità didattica. Inoltre, la natura del meccanismo immaginato porta con sé un fattore di tipo simbolico che sormonta immensamente l’aspetto di incentivazione puramente economica su cui insiste il governo Renzi. Usando il termine “simbolico”, ovviamente non intendo ciò che il materialismo volgare ci fa credere, una sfera dell’immaginario estetico del tutto accessoria rispetto al mondo della realtà; intendo l’aspetto simbolico delle relazioni di potere sociale, in quanto inestricabilmente connesso ai rapporti di tipo materiale (così come è trattato da molti antropologi, psicanalisti, teorici della politica e sociologi, primo fra tutti Bourdieu). Il punto è che questa suddivisione tra il 66% e il 33% è innanzitutto una divisione in “buoni” e “cattivi”, che presuppone l’idea che per gli uni l’essere premiati costituisca una gratificazione e una motivazione all’impegno e, per gli altri, la punizione debba essere una molla per ricollocarsi attraverso la mobilità tra istituti o migliorarsi professionalmente. Ma siamo effettivamente sicuri che accada veramente questo?
Il rozzo utilitarismo del piano governativo non tiene conto (oppure,
se si vuole, è proprio guidato sotterraneamente da questa
intenzione) del fatto che la molla principale della “gara” tra gli
insegnanti degli istituti diventerebbe la paura di essere relegati
nel 33% peggiore, e che i connotati di tale paura sarebbero
principalmente di natura simbolica prima ancora che economica. E ciò
finisce anche per contraddire i presupposti di coloro che affermano
una necessità di standardizzare l’insegnamento argomentando che ciò
che conta, nel campo dell’istruzione, è lo standard medio, non il
“picco” di rendimento. Demotivando ogni tre anni un terzo degli
insegnanti, e con il prevedibile effetto di fenomeni cumulativi,
quali risultati si pensa di ottenere dal punto di vista della
produttività? Quale può essere l’interesse della scuola a generare
ogni tre anni un’ampia quota di “falliti”, tra l’altro all’interno
di una categoria professionale che l’Istituto superiore di Sanità
giudica come quella con la più alta probabilità di produrre il
cosiddetto fenomeno del “burn out”?
Guardando il sistema di “carriera” della “buona scuola” nell’ottica
più ampia della sociologia del lavoro è possibile approfondire il
senso dell’abolizione delle tradizionali “carriere lavorative”. Il Novecento, con la formazione di sindacati di massa, ha condotto ad una democratizzazione e ad una generalizzazione di questo modello. Diversi sono gli aspetti critici della questione, di cui si può qui fornire un altamente sommario catalogo: 1) la tendenza a “farsi stato” delle organizzazioni dei lavoratori, che si sono modellate in questo modo sulla “gabbia d’acciaio” burocratica di origine statuale; 2) l’effetto di “frazionamento” delle classi lavoratrici, che si è venuto determinando tra coloro che erano integrati e coloro che erano esclusi dal sistema della carriera e delle garanzie; 3) la tendenza della lotta salariale – in particolare nel pubblico impiego – ad assumere un carattere corporativo. Tuttavia la “carriera” va intesa, allo stesso tempo, come una serie di passaggi che scandiscono progressivamente la biografia del lavoratore e consentono di rendere prevedibile l’avvenire. La “carriera” basata sull’anzianità è un istituto storicamente determinato, quindi altamente problematico, su cui si è tuttavia fondata la possibilità da parte dei lavoratori di costruire una “narrazione” della propria condizione lavorativa. Di conseguenza, la condizione di possibilità della costruzione di una identità, di un sistema di valori, professionali ma anche in riferimento alla sfera familiare e alla partecipazione alla sfera pubblica, in ultima istanza un “senso” di quel che fanno. Tali considerazioni le ricavo dalla lettura di un vero e proprio classico della sociologia del lavoro, L’uomo flessibile di Richard Sennett. E’ particolarmente illuminante la rappresentazione che Sennett ci fornisce di due generazioni di lavoratori, un padre e un figlio intervistati nell’arco di vent’anni: il primo, portinaio, ha sempre occupato la parte bassa della scala salariale ma, grazie alle garanzie fornite dalla sindacalizzazione del lavoro e dalla “carriera”, ha potuto costruire il tempo della propria vita in modo cumulativo, e mantenere un’identità ed una condizione emotiva stabili; il secondo, invece, consulente per imprese informatiche, pur appartenendo ai livelli più alti della gerarchia delle retribuzioni, vive appieno la trasformazione determinata dalla flessibilizzazione del lavoro, con i suoi continui “downsizing” e conseguente mobilità territoriale, di mansioni, e variabilità delle retribuzioni, ed è costretto di continuo a mettere in discussione i propri valori, la “fiducia” in sé e negli altri, in sostanza non è in grado di costruire una narrazione coerente di sé. Il modello contrattuale degli insegnanti della “buona scuola” appare come l’istituzionalizzazione, all’interno del pubblico impiego, degli effetti disgregatori della nuova economia della flessibilità del lavoro. Fermo restando ciò che si è detto sopra, ossia che il sistema, oltre ad essere deprimente, sarebbe anche portatore di una maggiore inefficienza della scuola, non ci si può che domandare: “Cui prodest”? Al miglior esercizio del potere e del dominio, evidentemente. |