La sfida delle competenze linguistiche, e la (lunga) strada ancora
da fare
di Flavia Foradini,
Il Sole 24 Ore
27.10.2014
Se nel
contesto internazionale , rispetto alla conoscenza delle lingue
straniere gli italiani adulti non sono messi bene, per gli
adolescenti non va meglio. Sulla carta, alla fine della scuola
media, un alunno dovrebbe avere un congruo livello A2 nella lingua
straniera, studiata magari già dalla scuola materna. Ma la prassi
dice che una cospicua parte di essi comincia il biennio obbligatorio
alle superiori con un livello A2 disomogeneo o addirittura ancora un
livello A1.
I ritardi linguistici degli studenti
Però la riforma della scuola chiede giustamente un livello B1 al
termine dell’istruzione dell’obbligo, cioè alla fine della seconda
superiore o comunque a 16 anni. Anche qui, la prassi dice che il
primo biennio è spesso tutto dedicato a cercare di colmare lacune di
tutto il livello A, e il B1 diventa spesso coerente solo in quarta o
solo in quinta, quando invece si dovrebbe lavorare per consolidare
il B2 richiesto per l’esame di stato. Una consistente percentuale di
maturandi si presenta a giugno senza un equilibrato livello B2.
La strategia ministeriale
Però da
quest’anno le classi quinte devono svolgere una disciplina non
linguistica in una lingua straniera: con l’ultimo sconto
ministeriale, “di norma il 50%” di quel monte ore. La normativa non
prevede alcun esame preliminare delle competenze linguistiche degli
studenti, onde appurare se siano davvero in grado di affrontare il
Clil e dunque trarne vantaggio. L’effetto sciagurato è duplice: da
un lato, si rischia il potenziamento del divario interno alle
classi, fra chi ha i prerequisiti e chi è ancora alle prese con acca
aspirata, aggettivo o avverbio, consecutio temporum, lessico per
descrivere casa e scuola. Dall’altro, paradossalmente lo studente
rischia alla fine della quinta di saper parlare delle colonne del
Partenone in italiano e dei suoi capitelli in francese ma non in
italiano.
Realtà scolastiche variegate
La soluzione di lasciare che il Clil fosse un volontario percorso di
eccellenza, da affiancare al normale piano di studi, per studenti
almeno tra B1 e B2, raccogliendoli da varie scuole per lavorare (e
virtuosamente competere) sotto la guida di specialisti formati
appieno, non è stata purtroppo adottata. La realtà scolastica
italiana è molto diversa da quella di Paesi dove il plurilinguismo è
assodato, e a livello scolastico c’è ancora molto da fare per
fornire innanzitutto ai giovani una congrua, solida base
linguistica. Non solo in L2 o L3.
Con la qual cosa si ritorna al traguardo principe dell’Unione
Europea: il trilinguismo. Che non vuol dire la sostituzione di una
lingua con un’altra, bensì madrelingua più due lingue comunitarie.
Non la capacità di parlare di Olocausto in italiano, Pirandello in
inglese, Tiepolo in tedesco, sistemi fluviali in spagnolo e banche
in francese, bensì una competenza a tutto tondo e tale in tre
lingue, da poter affrontare la stessa vasta gamma di temi in modo
accettabile in tutti e tre gli idiomi: tre binari paralleli e
contigui, non un binario a scartamento ridotto, affollato di vagoni
celibi. Così come è concepito, ed essendo curricolare, il CLIL
sostituisce, non affianca.