Se questo è parlare di scuola…
Esame e considerazioni dell’ Associazione
Europea Scuola e Professionalità Insegnante circa il rapporto sulla
scuola elaborato e proposto dal Governo Renzi
Angelo
Ruggiero*,
AESPI ottobre 2014
Nel lungo testo redatto dagli esperti del Governo, denominato “La
buona scuola”, al di là del proposito, astrattamente condivisibile,
di dare all’Italia una buona scuola, proposito contraddetto da
dichiarazioni d’intenti vacue e generiche, emergono indicazioni di
rotta assai preoccupanti.
Nelle 136 pagine non abbiamo mai letto né la parola “cultura”, né la
parola “libertà”: come si fa, ci si chiede con sorpresa, a formulare
un qualsiasi piano di riforma o di semplice innovazione del sistema
scolastico italiano, tacendo che cultura e libertà stanno alla base
di ogni innovazione, di ogni proposta di spesa, di ogni
organizzazione ? Viene il dubbio che questo non sia effetto di
dimenticanza, bensì una voluta scelta politica tendente ad orientare
l’opinione pubblica verso soluzioni che ignorano tanto la cultura,
quanto la libertà.
Invece che seguire il ponderoso (nel senso del pondus) documento
lungo le sue molteplici elucubrazioni (operazione problematica,
perché gli stessi argomenti vengono ripresi più volte) preferiamo
mettere a fuoco alcuni fra quelli che ne costituiscono, o ci
sembrano costituire, i punti salienti della sua prima parte, e cioè:
stato giuridico della docenza, carriera, retribuzione. Ad altre
tematiche, pure importanti, dedicheremo successivamente ulteriori
interventi.
A pag. 50 (capitolo 2) viene affrontato un tema davvero cruciale: lo
stato giuridico. E’ una sorpresa in se stessa piacevole, perché la
locuzione sembrava da qualche tempo scomparsa dal pubblico dibattito
sulla scuola. Ebbene, le misure escogitate per rinnovarlo
costituiscono effettivamente delle novità, ma delle novità che non
promuovono la condizione dell’insegnante, anzi, ne polverizzano la
funzione in una miriade di attività eterogenee.
Seguiamo l’iter concettuale (ma Dio non voglia legislativo!) che
perviene a questo risultato. Il documento annuncia l’ambizioso
progetto di eliminare il precariato, assumendo stabilmente entro il
settembre 2015 ben 149.000 docenti. L’ipotesi è in sé allettante, ma
il prezzo da pagare altissimo. La parte preponderante di questi
insegnanti, infatti, non verrebbe stabilizzata su cattedra, ma su
quello che si definisce “organico dell’autonomia”. Eufemistica
potenza dei neologismi! A quanto si può comprendere, l’insegnante
viene così immesso in un alveo indistinto costituito da una rete di
scuole, nei confronti delle quali egli si impegna all’espletamento
di compiti assai variegati: docenza in classe, ma anche “attività di
laboratorio ed extracurriculari”, supplenze brevi (quelle annuali
dovrebbero estinguersi grazie alle nuove assunzioni), copertura di
lezioni in materie “collaterali” alle proprie, imprecisate attività
“funzionali all’offerta formativa”. La disponibilità non è solo
rispetto ai compiti, ma anche rispetto alla geografia, poiché
l’impegno del docente così assunto è anche quello di intervenire in
istituti scolastici ubicati in province diverse.
Nell’“autonomia” degenerata espressa dal progetto dell’attuale
governo, priva di una visione adeguata organizzativa della funzione
della scuola, si prospetta solo una figura di docente tuttologo e
itinerante che – a nostro avviso – smarrisce le due dimensioni
fondamentali della professione: la competenza in discipline
specifiche (ma vorremmo dire semplicemente: la cultura) e la stabile
relazione con l’allievo. Non è, la nostra, una preoccupazione
ingiustificata: basta leggere. Si presti infatti attenzione al
seguente passaggio in pretto didattese infarcito di anglicismi: “Ci
si aspetta inoltre che [gli insegnanti] non insegnino solo un sapere
codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di
pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving,
decision-making, capacità di apprendere), metodi di lavoro
(tecnologie per la comunicazione e collaborazione) e abilità per la
vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne”.
Ebbene si deve dire con chiarezza che il profilo professionale della
docenza così definito è il punto terminale di una progressiva
demolizione della figura dell’insegnante che storicamente inizia con
il ‘68, prosegue con i decreti delegati, si abbevera a dottrine
anglo-americane dimenticando la tradizione pedagogica nazionale, e
infine approda al risultato deleterio ma coerente che si è detto.
CARRIERA E RETRIBUZIONI DEGLI INSEGNANTI
Posto in rilievo tutto cio, consideriamo ora il nesso
carriera-retribuzione come si configura nel documento del 3
settembre. In esso si insiste molto sul fatto che si deve introdurre
nella scuola un dinamismo della carriera sganciato dall’anzianità.
Questo dinamismo è legato a cosiddetti “scatti di competenza” la cui
entità è di 60 euro l’uno e che possono essere attribuiti ognuno
ogni triennio. Ad essi si aggiunge una seconda componente economica,
attribuibile annualmente in relazione a “svolgimento di ore e
attività aggiuntive ovvero progetti legati alle funzioni obiettivo o
per competenze specifiche (BES, Valutazione, POF, Orientamento,
Innovazione Tecnologica)”. Ma lasciamo quest’ultima, per adesso, e
torniamo alla prima componente, che costituisce la parte prevalente
degli aumenti stipendiali resi virtuosi dal “merito”. Tali aumenti
vengono legati all’acquisizione di “crediti” i quali possono essere
di natura didattica (qualità dell’insegnamento), formativa (cioè
relativi all’aggiornamento) o professionale (ruoli organizzativi
svolti nella scuola). I crediti vengono raccolti in un “portfolio”
(questo termine s’inabissa e poi riemerge da una riforma all’altra,
attribuito ora agli studenti ora ai docenti, come un fiume carsico)
elettronico di pubblica consultazione. Chi li attribuisce, e a
quanti insegnanti? Par di capire: il “nucleo di valutazione” interno
ad ogni istituto. Rinviando a un successivo documento ogni giudizio
su questo organismo per ora nebuloso e che sarà sicuramente
occasione di problemi e contenziosi, quello che si deve rimarcare è
che esso può riconoscere lo scatto a un massimo del 66 % dei docenti
della scuola (o della rete di scuole). Si tratta, a nostro avviso,
di una procedura macchinosa, arbitraria (perché il 66% e non il 30 o
l’80?) e che, confermando una tendenza ormai annosa, privilegia il
“fare altro” rispetto all’insegnamento, a conferma di una
ridefinizione della figura del docente dai tratti deboli e incerti,
orientata verso incombenze organizzative, funzionali,
para-didattiche, insomma che – al di là di assicurazioni in
contrario che qua e là compaiono nel lungo testo – è ben lontana
dalla figura del docente come lo concepisce questa associazione: un
soggetto volto all’approfondimento delle discipline nelle quali è
competente, dotato di umano interesse per la persona in formazione
che ha di fronte a sé in classe, provvisto di un profilo
professionale sostenuto da idonee garanzie di legge e da un diffuso
riconoscimento sociale.
Diversamente da ciò, il meccanismo sopra descritto innesca circuiti
addirittura grotteschi: il documento si spinge ad esempio a
ipotizzare che i docenti i quali desiderano procedere nella carriera
(leggi: meritarsi gli “scatti di competenza”) chiedano il
trasferimento presso le scuole culturalmente depresse in cui la
soglia del 66% degli insegnanti “bravi” non sia stata ancora
raggiunta, e così ci sia posto anche per loro nell’empireo dei
meritevoli. L’idea di questi girovaghi alla caccia dei 60 euro
triennali è davvero una novità nel vasto mare delle stranezze
partorite negli ultimi decenni dai “pedagoghi italiani”, e merita di
essere caldamente segnalata all’attenzione dei cultori di bizzarrie.
Oddities, direbbero gli estensori del documento.
Veniamo ora agli aspetti economici. Uno dei parametri che vengono
solitamente utilizzati per valutare la qualità di una riforma, come
si sa, è proprio quello dei suoi “costi”. Ebbene a nostro avviso il
progetto renziano (quali che siano gli ispiratori-estensori del
documento) non solo non produce un aggravio di spesa ma, viceversa,
alleggerisce il bilancio dello Stato. Proporremo nelle conclusioni
alcune considerazioni su questa “virtuosità” della riforma; vediamo
ora, invece, come si realizza l’economia di spesa.
Teniamo pure per buona la tabella pubblicata sul documento a pag.
55. Secondo quest’ultima, mentre con l’attuale regime un docente a
fine carriera guadagna 577 € oltre l’importo iniziale, col nuovo
regime può (sottolineiamo può) arrivare a 720, dunque con un
vantaggio di circa 140 €.
Questo aumento sembra costituire un aggravio di spesa. Però gli
aumenti – si ricorderà – possono essere attribuiti come massimo al
66% dei docenti. Inoltre, la cifra aggiuntiva di 720 € è
ipotizzabile solo per il docente onusto di crediti il quale abbia
conseguito il suo scatto di competenza lungo tutti i trienni di cui
la sua carriera è scandita. Insomma si intravedono, quanto al
reddito, le seguenti fasce: a) docenti che non godono di alcuno
scatto di competenza perché insegnano in scuole in cui il famoso 66%
è già raggiunto e consolidato, né sono disponibili ad emigrare
altrove nonostante l’estrema esiguità dello stipendio che
percepiscono, sempre fermo al trattamento-base; b) docenti bravini
che riescano a scattare solo in alcuni trienni, in altri no; c)
docenti superbravi che scattano sempre. Come si capisce, il previsto
vantaggio economico è parziale incerto e periodico, e nel conto
consuntivo l’Amministrazione non ne soffre di certo, anzi.
Si consideri ora un ulteriore risparmio, invero cospicuo, che a
prima vista sfugge, ma si evince infine frugando nelle pieghe del
testo (si sa che il diavolo si nasconde nei dettagli). Sempre a pag.
55 si afferma infatti che il primo scatto di competenza verrà
attribuito al termine del primo triennio a decorrere dall’immissione
in ruolo dei 149.000, quindi nel 2018. Niente da dire, naturalmente,
su questo. Ma alla pagina seguente si precisa, a proposito dei
“docenti che si trovano nelle diverse classi stipendiali fino al 33°
anno” che “ad essi si applica fino al 1° settembre 2015 il sistema
previgente basato sugli automatismi stipendiali e dal 1° settembre
2015 il nuovo meccanismo degli scatti, conservando lo stipendio sino
a quel punto maturato”. Ora, siccome per il triennio ’15-’18 è
previsto solo uno scatto finale, è chiaro che tutti i docenti i
quali avrebbero maturato il passaggio stipendiale col regime
precedente, nel detto triennio non matureranno un bel niente, e se
andrà loro bene riceveranno i 60 euro finali! E si tenga presente
che gli aumenti attuali, essendo attribuiti al termine di periodi
ben più lunghi di un triennio, sono assai più cospicui di questi
striminziti 60 euro che la riforma agita come la classica carota di
fronte all’asinello. Insomma si prospetta un vulnus economico per
decine e decine di migliaia di docenti il quale si traduce in un
risparmio davvero notevole, che si somma alla precedente.
Altri risparmi si intravedono nell’uso “tappabuchistico” che si
potrà fare dei centocinquantamila insegnanti immessi nell’"organico
dell’autonomia”, ma non ci soffermiamo, per brevità, sulla
questione.
CONCLUSIONI:
AUTENTICA ED UNICA RATIO DEL PROGETTO GOVERNATIVO
Non siamo per partito preso contrari alle riforme a costo zero.
Pensiamo anzi che il legislatore intelligente ed oculato possa, in
alcuni casi, ottenere risultati apprezzabili senza gravare sul
bilancio dello Stato. In questo caso , però, ci sono alcuni passaggi
che – per così dire – si richiamano e si rischiarano a vicenda,
conducendo il lettore a formulare una valutazione d’insieme, che
identifichi, al di là del dichiarato, l’autentica ratio della
riforma.
In questi passaggi si colgono i seguenti punti fermi:
1) l’assenza di qualsiasi miglioramento dello stato giuridico degli
insegnanti negli elementi che potrebbero effettivamente
determinarlo, i quali sono: sganciamento dal pubblico impiego –
contrattazione separata – autonomia della categoria attraverso
Ordine, Albo, organismi di autodisciplina – eliminazione delle RSU;
2) la polverizzazione della funzione docente in una molteplicità di
ruoli che consentono di utilizzare il personale per soddisfare
esigenze di natura formativa e culturale ma anche – e sempre di più
– di organizzazione, di valutazione, di custodia, di
intrattenimento, di chissà cos’altro;
3) la mancanza di riferimenti alla libertà d’insegnamento protetta
dall’art. 33 Cost., coerentemente con l’illustrata rimodulazione del
ruolo docente ad un livello polifunzionale impiegatizio;
4) la scarsissima enfasi posta sui concetti di preparazione e di
cultura, che nel testo in esame appaiono posposti a tutta una serie
di competenze di altro genere;
5) l’assenza di un reale miglioramento delle retribuzioni
commisurato alla responsabilità e delicatezza della docenza e alla
particolare usura che il suo esercizio produce, con il conseguente
perpetuarsi ad infinitum dell’ormai lunga storia di stagnazione
stipendiale di cui gli insegnanti soffrono.
Di fronte a questo quadro composito, ma in fondo coerentissimo, la
domanda: a che scopo? trova a nostro avviso risposta all’inizio del
paragrafo 1.6, intitolato in modo roboante: “Un segnale forte per
l’Europa” (sic!): “La Commissione europea ha (…) avviato una
procedura d’infrazione per la non corretta applicazione della
direttiva 1990/70/CE, relativa al lavoro a tempo determinato, che è
finita davanti al giudice comunitario. Recentemente, l’Avvocato
generale incaricato di seguire e presentare il caso ai giudici della
Corte di Giustizia dell’Unione europea che presto dovranno
pronunciarsi, ha concluso che i giudici italiani dovranno verificare
se il sistema attuale delle supplenze annuali sia fondato su
giustificate esigenze (p. 36)”.
All’origine di tutto vi è, dunque, il rischio di dover incorrere
nelle onerosissime sanzioni che inevitabilmente scatterebbero al
termine della fase giurisdizionale della già iniziata procedura di
infrazione della Commissione Europea. E si tratterebbe, come si sa,
di milioni e milioni di euro. L’immissione in ruolo della legione
dei 149.000 docenti, dunque, non è un mezzo per rendere più
funzionale il sistema-scuola, meno che mai un gesto di gratitudine
nei confronti di lavoratori finora sfruttati, ma semplicemente un
“atto dovuto” che il timore degli strali della Commissione induce ad
espletare al più presto. Da ciò la necessità inderogabile di
stabilizzare quanti più precari è possibile e di identificare per
loro una funzionalità non rigida ma plasmabile, in modo da potersi
adattare a multiformi esigenze nonché alla fluttuazione della
popolazione scolastica.
Dunque il documento, con il suo didattese di marca anglosassone, con
l’esibizione a pag. 7 dei santini di una pedagogia fortemente
orientata - Montessori, Don Milani, Don Bosco, Malaguzzi, dove Don
Bosco è probabilmente un refuso dell’estensore distratto tanto poco
c’entra con gli altri, e da dove Giovanni Gentile è naturalmente
espunto - con il suo mettere assieme elementi disparati (eccellenze,
laboratorio, merito, apertura al territorio, assunzioni di massa,
concorsi ecc. ecc.) si qualifica come nient’altro che una vasta e
variopinta pezza a colori utile demagogicamente a coprire
un’esigenza meramente finanziaria, cioè ad impedire il danno che
deriverebbe dalle sanzioni “europee”. E la frammentazione della
funzione docente in cento attività eterogenee e imprecisate non
costituisce – come la si vorrebbe gabellare – il raggiungimento di
un nuovo e più funzionale e più moderno profilo professionale, ma
esclusivamente lo strumento che permetterà di far svolgere ai
docenti le più disparate attività a costo zero o quasi.
Concludendo: nessuna illusione. Non si intravede per i docenti
italiani, nella riforma che si prepara, alcuna promozione
professionale, sociale, economica. Non vi sono, rispetto al passato,
né inversioni di rotta, né più modeste correzioni di marcia. Il
docente, perso il collegamento stabile con la sua cattedra e assunte
sempre di più funzioni di intrattenitore e facilitatore culturale,
smarrirà il residuo credito sociale che gli rimane. Il livello
generale degli studi subirà un ulteriore abbassamento. Il polpettone
indigesto viene però servito con colorate guarnizioni utili a
dissimularne la natura, e il suo anfitrione approfitterà della
gratitudine degli immessi in ruolo, molti dei quali prenderanno per
generosità governativa quello che è un provvedimento assunto obtorto
collo, e che l’ingegnosa improntitudine dei legislatori farà passare
per una vera riforma.
Conseguenza di tutto ciò è l’ufficializzazione della scuola quale
ammortizzatore sociale dal quale usciranno le future generazioni
come meri “consumatori” (ma di che cosa, vista la crisi in atto? E’
il mondo di Berlinguer, misero quale prospettiva per i giovani).
* Angelo Ruggiero (Presidente Nazionale AESPI)