La scommessa della metodologia Clil. E i ritardi italiani di Flavia Foradini, Il Sole 24 Ore 21.10.2014
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Fin dalla «Strategia di Lisbona» dell’anno 2000, l’Unione Europea ha
dato grande rilievo al ruolo dell’istruzione e dello studio delle
lingue comunitarie. Un’impostazione che ha visto importanti tappe
negli anni successivi, con il multilinguismo in posizione chiave
negli sforzi chiesti ai Paesi membri (formula one+two, cioè lingua
madre L1 più due lingue straniere L2 e L3). Nel 2008, uno studio di
Eurostat appurava in questo senso, che «la maggior parte dei Paesi
in cui l’insegnamento dell’inglese era imposto nella scuola
dell’obbligo nell’a.s. 2006/7, aveva già adottato questa misura dal
1982/3». Per l’Italia, si certificava «un’enfasi relativamente
esigua sull’insegnamento delle lingue straniere, rispetto ad altri
stati».
Poiché l’implementazione auspicata entro il 2010 tardava a
realizzarsi in diversi Paesi, la Risoluzione del Consiglio del 21
novembre 2008 ribadiva nuovamente la necessità che i cittadini
europei imparassero «almeno due lingue straniere sin dall’infanzia»
ed esortava a «rivolgere un’attenzione particolare alla formazione
degli insegnanti di lingua e al rafforzamento delle competenze
linguistiche degli insegnanti in generale, alfine di incoraggiare lo
sviluppo dell'insegnamento di discipline non linguistiche in una
lingua straniera», è a dire: «praticare il CLIL».
Ma cosa intendevano i legislatori europei con l’acronimo CLIL?
Nient’altro che l’apprendimento integrato di contenuti non
linguistici, veicolati in una lingua straniera, così da acquisire
lessico specifico e flessibilità su un buon numero di temi anche in
una lingua straniera. L’intento Ue era basato su una conoscenza
sufficiente da parte degli studenti, della lingua veicolare, e in
molti casi si voleva incoraggiare in primis eguale sviluppo nella
lingua madre e in una lingua delle minoranze del Paese: gaelico per
il Regno Unito, fiammingo per i belgi francofoni, variante locale
del tedesco per il Lussemburgo etc., con insegnanti e studenti,
esposti fin dall’infanzia ad entrambi gli idiomi e dunque
perfettamente in grado di praticare il CLIL. Il rapporto della Commissione Europea del giugno 2012 sull’implementazione delle linee strategiche messe a punto dall’inizio del nuovo millennio, fotografava una situazione a macchia di leopoardo sulle competenze generale dei cittadini: mentre i Paesi del centro e Nord Europa usano normalmente una o più lingue straniere per informarsi alla radio, vedere film, leggere giornali o lavorare (con percentuali fin oltre l’80% della popolazione), Paesi come l’Italia dichiarano al 62% di non padroneggiare alcuna lingua straniera, e il 32% dei nostri connazionali sostiene di non avere mai provato a studiare davvero una lingua. Il tutto sullo sfondo di un curioso 82%, convinto che parlare almeno una lingua straniera dovrebbe essere ovvio per tutti gli europei. |