Intervista a Andrea Ichino
Il merito non può dipendere dalla fortuna
Un documento, quello sulla “Buona Scuola”, che
parla della possibilità che ogni scuola schieri la squadra migliore,
mentre si annuncia l’assunzione indiscriminata di 150.000 precari;
la difficoltà di misurare la qualità dell’insegnante e la proposta
di partire dalla “reputazione”; il merito non sta nella dote
iniziale, ma nel modo in cui la si mette a frutto; scuole autonome
che abbiano la possibilità di assumere gli insegnanti che
preferiscono alle condizioni di mercato. Intervista ad Andrea Ichino.
una
città n. 215/2014 settembre
Andrea Ichino è professore
ordinario di Economia Politica presso lo European University
Institute di Fiesole. Tra gli altri ha pubblicato, con Daniele
Terlizzese, Facoltà di Scelta. L’università salvata dagli studenti.
Una modesta proposta (Rizzoli, 2013) e, con Guido Tabellini,
Liberiamo la scuola, (ed. Corriere della Sera 2013), libro sul quale
lo abbiamo intervistato nel n. 205 di agosto-settembre 2013.
Si è tornati a parlare di merito.
Vorremmo capire meglio la questione e quali sono le novità positive,
ma anche i limiti delle proposte in discussione. Ad esempio, cosa
succederà in una classe e davanti ai genitori quando sarà
certificato che quell’insegnante non è competente?
A parole
potrebbe succedere molto: il documento governativo sulla "Buona
scuola” dice esplicitamente che "Ogni scuola deve poter schierare la
miglior squadra possibile” per giocare la partita dell’istruzione.
Sembrerebbe lecito inferire da affermazioni di questo tenore, che
nella "Buona Scuola” che verrà non ci sarà posto per insegnanti
incompetenti. Né per insegnanti assenteisti e poco impegnati nel
loro lavoro.
A fronte di questo apprezzabilissimo sogno, però, la realtà per ora
è l’assunzione indiscriminata dei 150.000 precari della scuola (un
numero circa tre volte maggiore dell’organico scoperto), tra i quali
temo non ci siano solo insegnanti di grande valore e competenza.
Non è poi solo una questione di competenza, ma anche di
corrispondenza tra le caratteristiche dei potenziali insegnanti e le
esigenze di studenti che hanno bisogno di un’offerta formativa al
passo con i tempi. Difficile pensare, ad esempio, che i 916
stenodattilografi che verranno assunti per chiudere definitivamente
le graduatorie a esaurimento possano insegnare qualcosa di davvero
utile ai giovani di oggi. Anche senza arrivare a questo caso
estremo, pensiamo agli insegnanti di francese, magari ben preparati
e competenti, ma purtroppo meno utili, nel terzo millennio, di
docenti che sappiano insegnare inglese, arabo o cinese.
Renzi e il suo staff pensano che con la formazione questi problemi
si possano risolvere come con una bacchetta magica. Faccio fatica a
crederlo, pensando ai due esempi che ho appena fatto.
Misurare la qualità
dell’insegnamento è molto difficile; se ne sta discutendo in tanti
paesi: cosa si misura, come e chi valuta?
È vero:
la valutazione di un insegnante o di una scuola è molto difficile e
nessuna soluzione è perfetta.
L’autovalutazione, ossia lo strumento preferito da molti insegnanti
e sigle sindacali nel nostro paese è quello che meno convince,
almeno me. Chi tra i docenti predilige questa forma di valutazione,
sarebbe disposto a utilizzarla anche per i propri allievi? Certo,
ogni processo di valutazione deve combinarsi con una riflessione
personale sulle informazioni che il processo ha fornito, ma le
conclusioni non possono essere autoreferenziali. In Italia tutti, o
almeno tutti i maschi, pensano di essere degli ottimi Ct per la
Nazionale di calcio. Lo stesso accade nella scuola: nei dati che ho
visto su esempi di autovalutazione, tutti gli insegnanti si
giudicano buoni o ottimi.
All’estremo opposto ci sono sistemi di valutazione che si basano su
parametri rigorosamente oggettivi, come la misurazione degli
apprendimenti e delle competenze degli studenti ossia test, come
quelli dell’Invalsi. Per la precisione, nessuno pensa che si debbano
usare i livelli di apprendimento e competenza degli studenti, perché
sono ovviamente influenzati dalle condizioni di partenza e dal
contesto sociale e familiare. Esistono però tecniche statistiche che
consentono di calcolare le variazioni degli apprendimenti e delle
competenze attribuibili a un processo formativo, opportunamente
depurate dagli effetti di contesto: il cosiddetto "valore aggiunto”.
Penso che questi siano strumenti molto utili per la valutazione
delle scuole o degli insegnanti di una sezione all’interno di una
scuola, ma non devono essere gli unici strumenti utilizzati, perché
non possono cogliere tutta la complessità del lavoro dei docenti. E
soprattutto non possono essere usati per valutare i singoli docenti
per un motivo ovvio: l’insegnamento è un gioco di squadra. Se gli
alunni sbagliano il compito di matematica, è colpa del docente di
questa materia, oppure di quello di italiano a causa del quale non
sanno leggere e capire le domande?
In posizione intermedia tra l’oggettività degli apprendimenti e la
soggettività dell’autovalutazione, stanno le procedure basate su
ispezioni. Il difetto principale di questi metodi è il loro costo.
Il numero di ispettori in Italia è ridicolmente basso, poche
centinaia credo, e andrebbe sicuramente aumentato. Tuttavia, quanti
ne servirebbero per ispezionare con una frequenza utile le decine di
migliaia di scuole italiane? Anche in Francia e in Inghilterra, dove
gli ispettori si misurano nell’ordine delle migliaia, le ispezioni
sono comunque infrequenti. E poi, come assicurare che gli ispettori
abbiano le qualità necessarie per un compito di questa portata? Chi
e come deve ispezionare gli ispettori?
Proprio per via di tutte queste difficoltà, con Attilio Oliva (Treellle)
e Anna Maria Poggi (Fondazione per la scuola), abbiamo spinto il
Ministero a sperimentare, nel 2011, un modo diverso di valutare
scuole e insegnanti, basato sulla reputazione. Tutti ci ricordiamo
perfettamente quali, tra i nostri insegnanti, avevano un’ottima o
pessima reputazione da tutti condivisa nella scuola. Non è però
facile misurare la reputazione con precisione. La sperimentazione
ministeriale "Valorizza” (http://goo.gl/FpXZOJ), attirando
l’attenzione dell’Ocse, data la novità dell’esperimento, ha provato
a farlo in termini di "convergenza dei giudizi” di studenti,
famiglie e colleghi riguardo a un insegnante o a un gruppo di
insegnanti. Queste sono, infatti, le tre componenti con cui un
insegnante si trova a operare, e quindi quelle i cui giudizi meglio
possono dirci di quale reputazione esso o essa goda. Il giudizio di
una sola componente o la convergenza di due sole componenti non
bastano: tutte e tre sono necessarie per una valutazione che sia
davvero "olistica”. Il risultato, nelle 33 scuole che hanno aderito
alla sperimentazione, è stato che circa il 20% dei docenti godeva di
una buona reputazione universalmente condivisa.
Tuttavia, quale che sia il metodo preferito di valutazione, il
problema forse più difficile da risolvere è quello degli esiti che
la valutazione deve avere.
E per questo ulteriore problema che
opzioni ci sono?
In Italia
per essere "politically correct” bisogna sempre premettere che la
valutazione deve servire solo a "conoscere per aiutare il
miglioramento”; non deve diventare uno strumento d’incentivazione
finalizzato a "premiare e punire”. In questa visione, la valutazione
serve solo a capire dove sono le situazioni critiche per poi
intervenire con operazioni di salvataggio che possano risolvere i
problemi. Nulla di male in questo, purché si accetti la possibilità
che non tutte le situazioni critiche siano risolvibili con
operazioni di salvataggio e soprattutto con colpi di spugna. Se la
valutazione, comunque fatta, ci dice che una scuola ha effetti
disastrosi sui suoi studenti, forse l’unica soluzione è chiuderla.
Oppure la soluzione richiede che sia ristrutturata e rifinanziata
completamente, ma questo non deve essere fatto con la stessa
dirigenza e con gli stessi insegnanti che l’hanno condotta al
disastro.
E nel caso della valutazione dei singoli insegnanti, non sempre la
formazione può risolvere il problema. Non è detto che chiunque
aspiri a essere un insegnante sia poi nei fatti davvero un buon
insegnante. In questi casi la valutazione, anche se solo conoscitiva
e finalizzata ad aiutare il miglioramento, deve condurre a un
allontanamento dalle classi degli insegnanti inadatti, incompetenti
e poco volonterosi. Difficile quindi pensare a una valutazione,
anche solo conoscitiva, che non debba occasionalmente produrre
effetti che possano apparire punitivi per dirigenti e docenti i cui
risultati non soddisfino il diritto degli studenti a ricevere una
buona istruzione.
All’estremo opposto c’è invece chi vede la valutazione solo come lo
strumento perfetto per incentivare gli insegnanti attraverso premi e
punizioni. Anche qui vedo dei rischi. Le motivazioni sono ovvie e
condivisibili. La performance di qualsiasi lavoratore dipende anche
dagli incentivi che riceve: non tutti sono santi e missionari. La
prospettiva di un premio retributivo per chi ottiene risultati
migliori può essere efficace anche in contesti in cui si presume che
i lavoratori siano altamente motivati dalla passione, come nel caso
della scuola. Anche gli insegnanti migliori e più motivati, quelli
che fino ad ora hanno retto le sorti dell’istruzione in Italia
impedendone lo sfacelo, sono destinati a scoraggiarsi se
continueranno a essere trattati esattamente come quelli che nella
scuola fanno solo il minimo sindacale. Se le risorse fossero
infinite potremmo pagare tutti tantissimo e non licenziare mai
nessuno, ma questo è ovviamente impossibile. Ecco perché una
valutazione che serva anche a incentivare i lavoratori,
discriminando tra loro a seconda della performance, può essere
utile.
Tuttavia, è bene aver chiaro che gli incentivi monetari ("pay for
performance”) non sono una bacchetta magica, e sono strumenti
delicati, difficili da applicare e che possono anche fare danni. In
primo luogo perché non ci può essere incentivazione se chi deve
essere incentivato non sa in anticipo che cosa da lui o lei ci si
aspetta, su cosa sarà valutato e quale sarà il premio in caso di
raggiungimento degli obiettivi. Questo è un punto centrale,
sistematicamente trascurato dalla demagogia imperante. La
retribuzione incentivante deve essere "forward looking”, non decisa
ex post su parametri recuperati dal passato.
In secondo luogo, è necessario che ai lavoratori incentivati siano
dati gli strumenti e gli spazi di manovra che consentano loro la
possibilità di raggiungere gli obiettivi. Come ho spesso ripetuto,
non farei mai il dirigente scolastico o il direttore di un
dipartimento universitario perché sarei come un comandante di nave
giudicato per come tiene la rotta, ma al quale è impedito di
governare il timone.
In terzo luogo, deve essere chiaro che se agli insegnanti viene dato
l’obiettivo A e un premio in caso di raggiungimento, ma quello che
davvero ci interessa è l’obiettivo non misurabile B, quello che
otterremo è A non B. Per questo motivo è pericoloso condizionare
meccanicamente i premi retributivi a obiettivi particolari, come ad
esempio la riduzione dell’abbandono scolastico: quello che
otterremmo sarebbero solo promozioni più facili.
In quarto luogo, ed è un punto collegato al precedente, la
retribuzione incentivante funziona male nelle situazioni di
cosiddetto "multi-tasking”. Ad esempio, un insegnante deve occuparsi
degli studenti meno bravi in una classe per non lasciare nessuno
indietro, ma deve al tempo stesso investire nei migliori che hanno
diritto, anche nell’interesse della collettività, a un’istruzione
adatta al loro livello e che non li annoi. Chiunque abbia insegnato
sa quanto sia difficile combinare questi due "task”. Ed è ovviamente
molto difficile calibrare un sistema retributivo incentivante capace
di evitare che un insegnante privilegi uno solo di questi obiettivi
difficilmente conciliabili.
Alla luce di tali considerazioni
sulla valutazione e sulle sue funzioni come giudica la proposta
governativa?
Nella
"Buona Scuola” di Renzi, la sostituzione degli scatti di anzianità
con aumenti retributivi legati al merito è sicuramente una novità
positiva. Alla luce delle considerazioni che ho fatto, diventa però
cruciale capire come saranno strutturati concretamente questi
aumenti retributivi e a quali parametri saranno collegati. Premiare
la partecipazione a corsi di formazione, senza un controllo sulla
qualità reale della formazione stessa, mi preoccupa: temo
un’esplosione di corsi fasulli. Premiare ore di lavoro in più e
funzioni aggiuntive non vuol dire affatto valorizzare il merito e
l’impegno. Quello di cui la scuola italiana ha bisogno è premiare i
bravi insegnanti proprio per il loro lavoro in classe, non se fanno
altre cose. Sulla didattica in sé e per sé, invece, che è il terzo
criterio previsto dalla riforma, il documento è molto vago. A questo
fine, il governo farebbe bene a riprendere in mano la
sperimentazione "Valorizza”, la cui valutazione olistica e
reputazionale risolve molti dei problemi sopra esposti.
Ma non lo farà per via dell’opposizione sindacale.
Ma se premiare il merito è così
difficile e rischioso, non sarebbe meglio puntare soprattutto su
un’efficace selezione in ingresso?
Certamente! La teoria economica dice proprio che una buona selezione
in ingresso rende meno necessario un sistema di incentivi
retributivi e più facile disegnarlo e implementarlo riducendone i
rischi e le controindicazioni. Secondo molti il successo della
scuola finlandese è proprio dovuto alla selezione severa in ingresso
che rende possibile l’assenza di una retribuzione incentivante.
Il discorso della valutazione
richiama quello dell’autonomia. Bottani, che abbiamo sentito in
questi giorni, diceva che più che i professori andrebbero valutati i
dirigenti. I nostri presidi però non hanno autonomia decisionale...
Concordo
con Bottani. Proprio per questo nel libro Liberiamo la scuola;
delineiamo un sistema di scuole autonome nel disegno dell’offerta
formativa e nella gestione delle risorse umane e fisiche, proprio
per dare alla loro dirigenza gli strumenti per conseguire buoni
risultati.
Tra questi strumenti, in particolare, la possibilità di assumere gli
insegnanti che preferiscono alle condizioni di mercato. Questa
autonomia però deve essere valutata dagli utenti che con le loro
scelte convogliano le risorse alle scuole, oltre a votare per la
scelta del sistema di governance di cui le scuole si devono dotare.
In questo modello lo Stato si limita a misurare, materia per
materia, le competenze raggiunte dagli studenti, senza ordinare alle
scuole quali pacchetti di materie offrire (fatto salvo per un nucleo
ristretto di materie obbligatorie da concordare, come italiano,
matematica, lingue straniere...).
Lo Stato determina poi le risorse (il cosiddetto costo standard) che
ogni studente porta alla scuola prescelta.E soprattutto misura la
performance di scuole e insegnanti in tutti i modi possibili,
fornendo alle famiglie le informazioni elementari di questa
valutazione in modo che possano scegliere a ragione veduta il
progetto formativo preferito per i loro figli, dando il peso che
ritengono opportuno alle diverse informazioni elementari ricevute.
Quindi, non una classifica preconfezionata, ma gli elementi
necessari affinché ognuno possa farsi una classifica "fai da te”. In
questo modello lo Stato "misura” le scuole, ma sono le famiglie a
trarre le conseguenze della misurazione pubblica.
La questione della trasparenza: il
"New York Times” e il "Los Angeles Times” lo scorso anno hanno
pubblicato la lista degli insegnanti peggiori; il "Guardian”
pubblica i risultati dell’Ofsted; la Germania ha fatto una mappa
delle scuole. Noi?
Questo è
un altro punto su cui la "Buona Scuola” di Renzi promette bene: si
parla infatti di trasparenza totale su tutti i dati relativi a
scuole e insegnanti, affinché le famiglie siano adeguatamente
informate. Se così sarà, gli effetti positivi si vedranno molto
presto.
Una questione più di fondo: è
corretto parlare di "merito”? Anche su questo Bottani era molto
perplesso.
Ha
ragione a essere perplesso: merito e meritocrazia sono parole
abusate. Personalmente non amo molto usarle. Non è una questione di
potere al merito, se mai di valorizzare il merito e l’impegno.
Che cos’è, però, il merito? Che merito c’è nell’essere nati
intelligenti, volonterosi, forti, incapaci di sentire la fatica,
bravi a insegnare nel caso della scuola, e cosí via? Molti in
Italia, sia a destra sia a sinistra, contestano l’idea di premiare
il merito perché sembra equivalente a premiare la fortuna. Mi
permetta di riprendere, a questo proposito, alcune riflessioni,
oggetto di un mio vecchio articolo sul "Sole24ore”, che prendevano
spunto dalla Parabola evangelica dei Talenti (Matteo, 25,14-30).
È un testo che tutti conosciamo: il padrone affida i suoi talenti a
tre servi dando a ciascuno secondo le sue capacità e premia solo i
due che si impegnano oltre il minimo indispensabile, rischiando e
facendo fruttare i talenti ricevuti, non il servo pigro che si
accontenta del minimo nascondendo il tesoro sotto terra. E così,
conclude la parabola, "a chiunque ha sarà dato e sarà
nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.
A molti questa conclusione sembra paradossale e perfino ingiusta,
proprio perché non vedono alcun merito nell’aver ricevuto più
talenti. Chi è "più bravo” non lo è in virtù di un maggiore impegno
ma perché è stato più fortunato, ad esempio per le condizioni
genetiche e ambientali in cui è nato e cresciuto.
Quindi, contrariamente alla conclusione della parabola, la società
non deve premiare il merito e deve anzi re-distribuire risorse da
chi ne ha a chi ne è privo.
Questa visione del mondo, per quanto nobile e rispettabile, si
scontra però con il fatto che i risultati del nostro operare non
dipendono solo da fortunate circostanze riguardo alle quali non
abbiamo alcun merito. I risultati sono anche il frutto di
investimenti rischiosi e di impegno individuale che vanno
compensati, altrimenti pochi avrebbero interesse a far di tutto per
migliorare i talenti ricevuti.
Il merito non sta nella dote iniziale, che dipende appunto solo
dalla "fortuna”, ma nel farla fruttare, cosa che tutti possono fare
indipendentemente da quanto hanno ricevuto, purché siano disposti a
impegnarsi oltre il minimo.
Il nostro paese invece si fonda su regole formali ispirate solo dal
desiderio di tutelare chi non ha ricevuto talenti, ma che finiscono
per uccidere l’impegno individuale e per giustificare chi fa il
minimo sindacale. Se non modifichiamo rapidamente questo "contratto
sociale”, finiremo come il servitore pigro della parabola. Il nostro
talento, grande o piccolo che sia, non darà frutti, sepolto sotto
una comoda coltre di protezioni assistenziali.
È necessario invece un cambio di mentalità e se il governo desse
l’esempio, a cominciare dalla scuola, sarebbe una buona cosa.