Intervista a Norberto Bottani
BRAVI O NO, COMPETENTI O NO, FORMATI O NO...
Un tema, quello della valutazione degli
insegnanti, affrontato con cautela in tutta Europa, perché a rischio
esplosione a differenza degli Stati Uniti dove addirittura il “New
York Times” e il “Los Angeles Times” pubblicano l’elenco degli
insegnanti pessimi, che alla fine si lasciano a casa; l’esempio di
Ginevra, dove non si insegna per tutta la vita e l’idea del
gemellaggio tra una scuola eccellente e una in crisi; le
retribuzioni, simili in quasi tutta l’Europa. Intervista a Norberto
Bottani.
di Barbara Bertoncin,
una città n. 215/2014 settembre
Norberto Bottani, esperto di
politiche scolastiche, è stato direttore del Servizio di ricerca
sull’educazione del Canton Ginevra (Sred). Per più di vent’anni ha
lavorato presso il Centro per la ricerca e l’innovazione
nell’insegnamento dell’Ocse (Ceri) a Parigi. È attualmente residente
a Parigi come analista indipendente delle politiche scolastiche che
studia in un’ottica comparativa e su basi empiriche. Per il Mulino
ha pubblicato, tra l’altro, Insegnanti al timone? (2002) e
recentemente Requiem per la scuola (2013).
Si è tornati a parlare di merito e
pare si vogliano prendere provvedimenti precisi, di incentivi
economici. Lei cosa ne pensa, anche alla luce delle esperienze fatte
all’estero?
Direi che
sono un po’ allibito di fronte al discorso che si fa in Italia sul
merito. Evidentemente sono molto influenzato dal dibattito in corso
in Francia, ma anche oltreoceano, dove nessuno parla di merito,
oppure se ne parla a proposito degli studenti, non certo degli
insegnanti, e comunque si critica molto il concetto. Pertanto non
riesco a capacitarmi della passione e dell’interesse suscitato in
Italia intorno a un concetto molto fumoso, su cui oltretutto si è
lavorato pochissimo, perché i professori italiani di scienze
dell’educazione non si occupano di queste cose, si occupano di
Aristotele, Platone, Cicerone, e i pochi economisti dell’educazione
si occupano d’altro e neanche loro parlano di merito.
La realtà è che ci sono docenti bravi e altri meno bravi. Si può poi
discutere della loro remunerazione, di come pagare chi è più
competente, ma il merito non c’entra niente. Infatti nel mondo
anglosassone e nel mondo francese, giustamente a mio parere, quando
si parla di merito si pensa agli studenti, mai agli insegnanti.
La situazione italiana è molto arruffata, per usare un eufemismo,
cioè si vuol valutare il merito degli insegnanti e al contempo più o
meno tutti possono fare gli insegnanti: bravi, non bravi,
competenti, non competenti, formati, non formati; una volta superati
i concorsi si ha il diritto ad avere un posto nell’insegnamento. Ma
la vera questione sta proprio nella formazione e nella selezione
degli insegnanti, in una politica seria del personale insegnante:
quanti ne occorrono, come si devono preparare, qual è il loro
statuto giuridico, quali carriere si possono intraprendere
nell’apparato scolastico e poi quale retribuzione prevedere.
Effettivamente molti dicono che in assenza di una selezione
iniziale, ogni discorso sulla valutazione perde di significato.
In Europa
il problema viene affrontato con estrema cautela, perché tutti sanno
che la questione della valutazione degli insegnanti è una bomba, un
ordigno difficile da maneggiare, che può esplodere in qualsiasi
momento, perché il mondo degli insegnanti è organizzato in un certo
modo, e anche le politiche scolastiche hanno le loro dinamiche
perché in politica ci sono molti insegnanti e poi ci sono le mogli o
i mariti dei politici che fanno gli insegnanti, insomma, ci sono
centinaia di migliaia di persone in ballo.
Quindi in Europa si adotta molta precauzione e perlopiù si evita di
parlarne. In Italia, la questione è stata sollevata in particolare
da Attilio Oliva, dell’associazione Treellle, all’inizio subendo
molto l’influenza del dibattito americano. Già qui andrebbe
sottolineato che parliamo di situazioni molto diverse: negli Stati
Uniti esiste una forte segregazione sociale ed etnica, che in Europa
non c’è ancora, per fortuna. Per esempio, a distanza di cinquanta
metri negli Usa si può avere una scuola frequentata solamente da
studenti bianchi e un’altra frequentata da studenti di colore: una è
bellissima e l’altra è uno sfacelo. Negli stati del Sud degli Stati
Uniti la situazione è addirittura drammatica. Anche da noi c’è la
discriminazione sociale, eccome, ma è meno visibile, meno lampante,
quindi l’urgenza di trattare la questione della valutazione degli
insegnanti assume significati diversi. Negli Usa la maggioranza
degli insegnanti sono di colore; la professione è squalificata; le
ingiustizie sono enormi.
La valutazione degli insegnanti risulta da questo contesto e in
particolare dalla pressione dei ceti medi, in maggioranza bianchi,
per avere insegnanti competenti nelle scuole frequentate dai figli.
Ci sono anche altre ragioni che adesso non evochiamo.
Uno dei punti su cui tutti sono d’accordo, soprattutto in Europa, è
che non ci si può più accontentare di uno stipendio basato
unicamente sull’anzianità, occorre cambiare modello. I primi ad
aprire questo dibattito sulla necessità di cambiare la strategia di
retribuzione degli insegnanti sono stati gli inglesi. Già una
ventina d’anni fa circa, Margaret Thatcher, invece di aumentare gli
stipendi degli insegnanti per scatti successivi e automatici, decise
di aumentare le retribuzioni rapidamente agli inizi di carriera e
poi di rallentare la periodicità degli scatti retributivi. Questo è
un po’ il discorso che si è fatto in Europa riguardo la strategia
retributiva, che è un discorso in gran parte sindacale, industriale,
basato sull’anzianità degli anni di servizio che può essere
ritoccata con scatti più o meno frequenti e regolari e più o meno
identici.
Negli Stati Uniti, invece, il problema non era tanto quello delle
retribuzioni.
Apro una parentesi: le retribuzioni sono grossomodo le stesse
dappertutto. È uscito a metà settembre l’insieme di indicatori
sull’istruzione prodotto dall’Ocse dove si vede molto bene che ci
sono delle differenze, ma non così significative. L’indicatore tiene
conto del costo della vita, ma tutti sanno che esistono molti
vantaggi in natura non inclusi nei calcoli. Gli insegnanti americani
sono mediamente un po’ meglio pagati di quelli europei, ma parliamo
di una differenza di circa duemila dollari l’anno, se ricordo bene.
È dagli anni Venti che si raccolgono statistiche sulle professioni,
c’è un ramo speciale della sociologia specializzato in questa
questione. Da ottant’anni, novant’anni a questa parte, lo stipendio
di base degli insegnanti, soprattutto degli insegnanti nelle scuole
primarie non è cambiato molto; non è a un livello eccelso, tant’è
che altre professioni "sociali” sono pagate meglio. Nella classifica
degli stipendi il rango degli insegnanti è stabile e, se ben
ricordo, si trova grosso modo tra il ventesimo e il trentesimo
posto.
Tornando alla domanda, dicevo che negli Stati Uniti il problema non
è tanto lo stipendio, la remunerazione, ma è piuttosto la qualità
degli insegnanti. La maggioranza degli insegnanti americani sono di
colore; i bravi vanno a insegnare nelle scuole per i bianchi, nelle
scuole di élite o della classe medio-alta che abita nelle periferie
delle metropoli, mentre i meno bravi vanno nelle scuole dei centri
urbani o in quelle dei quartieri abitati in maggioranza da
popolazioni di colore. La discriminazione razziale è fortissima,
quindi il problema che i sindacati americani si pongono è quello
della qualità dell’insegnamento e poi certo della remunerazione, che
evidentemente non può avvenire in funzione dell’anzianità perché
così si contraddice ogni discorso sulla qualità.
Andrebbe fatto anche un discorso sull’età degli insegnanti. Quando
ancora non c’era né la scuola dell’obbligo né la scuola statale, i
gesuiti nei loro collegi e nelle loro scuole impedivano
l’insegnamento oltre una certa età. Si poteva insegnare solo finché
si era giovani. In Inghilterra, dove si fanno queste statistiche, si
sa benissimo che dopo un certo numero di anni l’entusiasmo, il
piacere, la soddisfazione dell’insegnamento calano. Ecco, la
remunerazione deve tener conto di queste considerazioni. Alla
domanda se sia giusto fare l’insegnante per tutta la vita, alcuni
paesi hanno risposto di no e si sono mossi conseguentemente.
Ci sono paesi dove non si può fare l’insegnante per quarant’anni,
dove l’insegnamento non è un posto per tutta la vita, un posto
statale come quello del postino o del capotreno.
Questo per dire che ci sono tante variabili da prendere in
considerazione per fare una politica seria del personale scolastico.
È anche di questo che bisogna parlare, anzi, soprattutto,
conducendo degli studi, raccogliendo dati sulle competenze e le
qualità del corpo insegnante.
Io ho lavorato alcuni anni della mia vita a Ginevra, e lì gli
insegnanti dopo i cinquant’anni anni potevano chiedere di andare in
pensione anticipata; ce n’era una quantità enorme che ne
approfittava, uomini e donne; alcuni non ne potevano proprio più di
insegnare e aspettavano questo momento. Una volta ritiratisi
prendevano uno stipendio ridotto fino all’età ufficiale della
pensione e da quel momento in poi ricevevano la pensione come se
avessero insegnato fino alla fine; un meccanismo molto complicato
che funziona tutt’ora; molto costoso anche.
Questa politica ha permesso di ringiovanire moltissimo il corpo
insegnante, perché i vecchi, quelli che non avevano più voglia
d’insegnare, se ne andavano ed erano sostituiti da leve di giovani
insegnanti motivati, formati con nuove idee. È tutta un’altra
concezione del servizio scolastico. Anche qui parlare di merito mi
sembra poco sensato.
Diceva delle scuole disagiate negli
Stati Uniti, ma in Europa succede che gli insegnanti che accettano
di andare in contesti difficili siano pagati di più?
Succede
anche se la differenza di stipendio non è molto importante. La si
percepisce al momento del pensionamento.
Anche qui andrebbe indagato se l’incentivo economico sia la formula
giusta. Comunque in Francia succede: i giovani vengono mandati nelle
regioni meno ambite, per esempio al Nord, un luogo dove si va
malvolentieri, perché fa sempre brutto tempo; è un’area povera,
dissestata, dove una volta c’erano le miniere di carbone; ecco, dopo
i concorsi, i neo insegnanti sono costretti ad andare lì, dove
guadagnano punti per poter poi chiedere un trasferimento nelle zone
favorite, che sono Parigi o il Sud della Francia.
Tornando alla questione della
valutazione, cosa si misura?
Il
dibattito sulla misura della qualità o della competenza degli
insegnanti è molto sviluppato negli Stati Uniti. Altrove ci si è
rassegnati, si sa che purtroppo ci sono insegnanti non buoni e li si
sopporta. Amen! Negli Usa invece il dibattito è molto vivace, sia
dal punto di vista scientifico, che dal punto di vista politico e
sindacale. L’Inghilterra copia più o meno quello che succede negli
Stati Uniti però il mondo scientifico è più a sinistra, quindi è più
critico rispetto a quello che fa il Governo. Quello sulla
valutazione è un dibattito molto interessante. Direi che ci sono due
punti di convergenza: primo, la valutazione degli insegnanti è molto
difficile, e in secondo luogo nella valutazione non ci può basare
unicamente sui risultati, sui punteggi che conseguono gli studenti
nei test.
Su questo punto io sono d’accordo: non si può valutare l’insegnante
solo sui punteggi medi che una classe consegue per esempio in
matematica, fisica, o lettura (i tre grandi tipi di test che vengono
fatti). Intanto perché ci sono altre materie, e poi le classi
dipendono moltissimo da come sono composte, oltre al fatto che c’è
una storia antecedente della classe o dell’alunno. Se poi c’è un
insegnante che parte con una pessima classe all’inizio dell’anno e
ottiene buoni risultati alla fine dell’anno, questo va riconosciuto.
Voglio dire che la variabile "punteggi degli studenti” non deve
essere esclusa, ma va tenuta in considerazione assieme ad altri
fattori.
Diceva che negli Stati Uniti si
valutano moltissimo gli insegnanti.
Sì, e
succedono cose dell’altro mondo. Lì la valutazione è tesa anche a
disfarsi, tra virgolette, degli insegnanti incompetenti. Perché ce
ne sono e fanno disastri. Allora, piuttosto che tenerli nella
scuola a rovinare ragazzi generazione dopo generazione (bisogna
anche aggiungere che gli alunni e gli studenti sanno difendersi
benissimo), si mandano a casa. Lo scorso anno, per esempio, il "Los
Angeles Times” ha pubblicato la lista dei pessimi insegnanti. Un
giornalista è riuscito ad avere i risultati delle valutazioni degli
insegnanti condotti dalla città e ha pubblicato la classifica. Si
immagini cos’è successo!
Anche a New York, che è il più grande distretto scolastico
americano, si valutano gli insegnanti e si sa benissimo che c’è una
porzione di persone che non dovrebbe fare l’insegnante. Siccome però
queste persone sono protette, quando le valutazioni non sono
positive, gli insegnanti non vengono licenziati ma si lasciano a
casa. Cioè prendono lo stipendio, ma li si manda via da scuola. È
come se andassero in congedo. Questo è un po’ l’accordo che si è
trovato per non fare la guerra con i sindacati degli insegnanti.
Beninteso, il meccanismo entra in azione dopo che ci si è accordati
sulla pertinenza e la validità delle valutazioni. Parliamo di una
città che ha soldi e che quindi può permetterselo. Non è una grande
soluzione. Una buona soluzione sarebbe quella di mettere in piedi
una vera politica degli insegnanti, quello che hanno provato a fare
a Ginevra e che in Italia invece manca. Perché un’altra questione
riguarda il come aiutare quelli che si accorgono che l’insegnamento
non è il loro mestiere.
Le confesso che di tanto in tanto ricevo messaggi dall’Italia di
persone che mi dicono: "Faccio l’insegnante perché mio papà lo
faceva, è una tradizione di famiglia, ma non ne posso più, voglio
cambiare, cosa posso fare?”. Io rispondo sempre che la prima cosa da
fare è cambiare al più presto e farsi aiutare se necessario. Spesso
si è di fronte a un problema personale.
Anch’io appartengo a una famiglia di insegnanti: mio nonno era
insegnante, mio papà era insegnante, ma non sono fatto per
insegnare. Anch’io facevo l’insegnante, ma ho smesso. Il fatto è che
è molto difficile capire se si è fatti per questo mestiere. A volte
poi le persone nascondono i problemi, oppure non ammettono neanche a
se stesse di non essere portate per l’insegnamento. Sono situazioni
delicate.
In Francia esiste una clinica per
insegnanti burnout.
È un
luogo pensato per chi sta veramente male. È una clinica del
ministero. A Milano c’è un medico molto bravo, Vittorio Lodolo D’Oria,
che da tempo monitora il disagio mentale degli insegnanti e ha
condotto indagini sulla frequenza dei casi di burnout, sulle cause e
su come intervenire, ma questo è un altro discorso.
Sempre rispetto alla valutazione,
bisogna valutare l’insegnante o lo staff, la scuola, cioè ha più
senso tentare una valutazione collettiva o individuale?
Sono due
cose diverse, vanno fatte entrambe. La valutazione del singolo ci
vuole. C’è sempre stata, tra l’altro. Fin da quando c’era il
precettore, le famiglie li valutavano: se erano adeguati li tenevano
sennò li licenziavano. Era una forma di valutazione. Poi con lo
Stato è nato un altro tipo di valutazione. Io ritengo che si debba
valutare il sistema scolastico nella sua globalità, faccenda non
semplice, ma anche i singoli insegnanti che d’altra parte valutano e
stravalutano gli studenti. Ciò richiede metodologie valutative
diverse ogni volta. Ritengo anche che si dovrebbe valutare
l’amministrazione scolastica, i dirigenti scolastici. Anni fa in
Italia era stato introdotto il principio della valutazione dei
dirigenti scolastici, ma poi non se n’è fatto niente. Se è giusto
valutare il manager di una ditta, perché non un dirigente
scolastico? Non c’è ragione per non farlo.
D’altra parte i presidi obiettano
di essere dei dirigenti a metà, perché dotati di pochissima
autonomia.
È un po’
come in Francia, dove la gestione del personale è in mano al
ministero e ai sindacati. Altrove c’è una situazione più libera. In
ogni modo si può iniziare a valutare quella metà di competenze
attribuita loro, costruendo strumenti valutativi appositi.
Ma in Francia come funziona, c’è una valutazione trasparente?
No, non
esiste nulla del genere. I francesi sono grossomodo come gli
italiani.
In Gran Bretagna, in Germania vengono pubblicate delle vere e
proprie mappe dei risultati scolastici, che poi i genitori guardano
prima di scegliere la scuola.
Sì, è
vero, e le tabelle o le classifiche vengono pubblicate dai grandi
quotidiani, ma in genere non sono nominative. Si pubblicano i
risultati delle scuole nelle prove standardizzate e molte
informazioni sulla composizione sia del corpo insegnante sia degli
studenti che frequentano le scuole. In Inghilterra c’è l’Ofsted, che
è un ente privato -prima era pubblico- che svolge le ispezioni. È un
apparato che tra l’altro costa molto: già una trentina di anni fa
erano quaranta milioni di sterline all’anno. Paga lo Stato. La
valutazione non è gratuita, anche questo va ricordato: gli ispettori
dell’Ofsted vanno nelle scuole in due, in tre. Non vanno a sorpresa.
Si negozia dapprima la data, poi si stabiliscono i documenti da
raccogliere, ossia la documentazione preliminare che il dirigente
deve approntare.
La squadra di ispettori resta una settimana, ha un piano di
interviste che coinvolge anche gli studenti e i genitori; prima di
andarsene, alla fine della settimana, gli ispettori partecipano a un
incontro pubblico in cui annunciano le loro prime impressioni e
ascoltano le reazioni. Dopodiché redigono una relazione e i
risultati vengono inviati alla scuola e possono essere pubblicati a
livello nazionale. Gli studenti non solo possono leggere la
valutazione della loro scuola, ma anche interagire online per dire
"siamo d’accordo”, "non siamo d’accordo”, "il team di ispettori non
ha visto questo aspetto della scuola, che noi apprezziamo (o
disprezziamo) molto”. Alcuni amici ricercatori anglosassoni,
laburisti, vedono queste cose come il diavolo, altri le trovano
utili. Certo, si possono anche commettere degli errori. E poi
bisogna valutare se è opportuno pubblicare tali risultati.
Se tutto questo serva o meno non lo so. Pare che i risultati
scolastici in ogni modo siano migliorati. Quando le scuole non
venivano valutate, si sapeva che in certi istituti alcune discipline
venivano trascurate o non si facevano affatto. Oggi non si può più
perché arrivano gli ispettori e la scuola deve dimostrare che fa
quello che è previsto nei programmi.
Cosa succede alla scuola che riceve una valutazione bassa?
Una
scuola che riceve una cattiva valutazione perde studenti,
evidentemente, perché una parte delle famiglie non ci manderà più i
figli. Questo discorso riguarda soprattutto le famiglie benestanti;
non tutti possono infatti permettersi di mandare i figli in una
scuola lontana o addirittura trasferirsi, cambiare domicilio.
Quando vivevo a Ginevra, dove non esiste la libertà di scelta della
scuola, la legge prevedeva una scuola primaria ogni 400 metri, ed
erano belle scuole, curate, ma Ginevra spende il 30% del Pil per
l’istruzione. L’Italia spende il 4,5%.
Dunque, come dicevo, le scuole con cattive valutazioni perdono gli
allievi. Non solo: restano gli allievi più "deboli”. A quel punto se
la scuola recupera, bene, se invece comincia un declino scattano
tutta una serie di provvedimenti. Nel mondo anglosassone hanno una
bella soluzione: si è adottato una sorta di gemellaggio tra scuole:
si associa la scuola disagiata, in difficoltà, che funziona male, a
una buona scuola; si mandano gli insegnanti della scuola
d’eccellenza ad aiutare gli insegnanti della scuola debole. Esiste
anche un centro di indagine scientifica nazionale che fornisce a
richiesta della scuola indicazioni per migliorare i programmi di
insegnamento. Una scuola può "liberamente” rivolgersi a questo ente
e chiedere una mano. L’aiuto viene offerto ed è pagato dallo Stato.
Grazie a questi aiuti in genere le scuole si riprendono.
Quello che conta è che si mira molto al supporto, più che alla
punizione. Si offre un aiuto attraverso specialisti esterni, oppure
con colleghi di altre scuole ritenute valide. In Germania, in
Svizzera, nei paesi scandinavi queste pratiche sono invece poco
presenti, ma perché lì tutto viene giocato sulla selezione in
ingresso degli insegnanti, che è molto rigorosa.