Fannulloni di Nando Cianci, Scuola Slow 10.10.2014
Scrive Beppe
Severgnini sul Corriere della sera del 24 settembre: «la
lentezza, in Italia, è spesso un alibi per la pigrizia. Nel 2015
arriverà il Frecciarossa 1000, e andremo da Milano a Roma in 2 ore e
20 minuti. Qualcuno dirà che non è necessario, e si lancerà nel
consueto “elogio della lentezza”. Vada a ripeterlo ai passeggeri del
Regionale 29075 Udine-Trieste (via Cormons): 1 ora e 22 minuti per
percorrere 82 km, ma ieri avevamo venti minuti di ritardo. La banda larga mobile, l’alta velocità ferroviaria e alcuni strumenti diagnostici sono esempi quotidiani di rapidità: domandate a chi li utilizza se intende rinunciarvi. Se è contento d’aspettare cinque minuti per caricare un sito internet. Se vuol tornare a impiegare dieci ore per andare da Milano a Roma. Se l’Italia si trova dov’è, e non dove dovrebbe essere, è anche per la mancanza di velocità. I bradipi nazionali sono ubiqui e astuti. Nel lavoro, nei trasporti, nelle procedure e nelle autorizzazioni: troppe cose sono rallentate. È inutile riempirsi la bocca con le opportunità per i giovani, se un ragazzo che lavora viene pagato dopo mesi (senza spiegazioni: dipende dell’umore della contabilità aziendale). Ci sono attività che richiedono lentezza: sesso e cibo, per dirne due. Slow Food , perciò, va bene. Slow Trains , Slow Reforms , Slow Jobs ? Possiamo farne a meno». Per quanto vengano divise in modo troppo radicale le sfere di competenza della velocità e della lentezza, e sorvolando qui sulle cause per cui «l’Italia si trova dov’è», occorre convenire con Severgnini, sul fatto che, in certe circostanze, quella che viene chiamata comunemente lentezza è davvero qualcosa di socialmente ed eticamente insopportabile. Solo che non dovrebbe chiamarsi lentezza. Per esempio: la stravaccata e inconcludente inefficienza dei fannulloni che impiantano la propria pigrizia nei luoghi di lavoro può trovare una più calzante definizione nell’ambito del parassitismo e dello spregio dell’etica del servizio. Altre cose. Così come non può definirsi lento, a rigore, l’atteggiamento di chi –conquistata la testa di una qualsivoglia fila- decelera improvvisamente e fa tutto al rallentatore, godendo del fatto che egli è lì e altri due o cinque o dieci sono in coda e dovranno aspettare che egli finisca. Quel tale non è lento, ha solo scelto la maniera più sciocca di avere i suoi due minuti di potere sul resto del mondo. Analogamente i responsabili dell’inefficienza dei trasporti e degli altri servizi non sono mossi dalla lentezza, bensì, anch’essi, da spregio dell’etica del servizio. Chi elogia la lentezza, dunque, non intende sostituire quella che Franco Cassano chiama la «religione affannata e paonazza» della corsa con una paludosa, inconcludente e perpetua melina. Chi elogia la lentezza sa bene che la misura giusta è di «rallentare quando è possibile e accelerare quando occorre» e che lavorare con lentezza è «sinonimo di lavorare con amore e giusto ritmo, in armonia con le altre persone e con l’ambiente, con quella meravigliosa alternanza tutta orientale di velocità e rallentamenti, di accelerazioni e di pause», come ben ci ha spiegato Bruno Contigiani. Chi elogia la lentezza non mette sotto critica la velocità in quanto tale, bensì l’integralismo, la deriva incontrollata e l’assolutismo della velocità. E sa, perciò, cogliere i vantaggi e le opportunità di una velocità funzionale al benessere umano e non elevata a indiscutibile divinità cui tutti i valori dell’uomo debbano piegarsi. Perché lentezza e velocità, se vissuti senza fondamentalismi, possono dar luogo ad una feconda coesistenza. |