La scuola di Renzi /3.
Autonomia, valutazione e programmi

[La prima e la seconda parte di questo intervento si possono leggere qui e qui]

di Mauro Piras, Le parole e le cose 1.11.2014

La buona scuola è un documento sconcertante. I primi due capitoli propongono con determinazione due interventi radicali, cioè l’assunzione di tutti i precari e il passaggio al merito nella progressione stipendiale: ne dettagliano con cura l’attuazione e ne calcolano anche l’impatto economico, per quanto senza dire da dove verranno prese le risorse. Dopo, invece, le cose sono molto più approssimative. Ricordo i temi dei quattro capitoli successivi: valutazione, autonomia e governo della scuola, trasparenza e sburocratizzazione (cap. 3); programmi e nuove materie di insegnamento (cap. 4); scuola e lavoro (cap. 5); nuove risorse per la scuola (cap. 6). In questi capitoli, la precisione dei primi due si perde: si oscilla tra la ripetizione di cose già esistenti nella scuola e la proposta di progetti innovativi ma vaghi, fino a idee del tutto improvvisate come, vedremo, quelle sui programmi. Vediamo i dettagli dei capitoli 3 e 4.

Valutazione, autonomia e governo della scuola, trasparenza e sburocratizzazione. Qui, verrebbe da dire, molte buone intenzioni ma quasi nulla di nuovo e di preciso. Sulla valutazione, di fatto vengono richiamati i principi e i meccanismi previsti dal Sistema di Valutazione Nazionale, già approvato dal governo precedente l’anno scorso (sistema che sta partendo adesso): le scuole verranno valutate regolarmente, a partire da una prima autovalutazione interna, poi riveduta con la collaborazione dell’Invalsi e di ispettori esterni, per portare poi a un Piano di miglioramento. I risultati ottenuti con il Piano di miglioramento possono portare a una diversa allocazione delle risorse finanziarie. Ma tutto questo è già legge.

Sull’autonomia scolastica e gli assetti di governo della scuola ci sono alcune novità, ma per il resto solo buone intenzioni. Viene detto molto sulla necessità di una vera autonomia scolastica, e correttamente viene ricordato che la valutazione è il complemento necessario dell’autonomia: un buon sistema scolastico dovrebbe lasciare molta autonomia alle scuole, e poi valutarne con cura l’operato, per responsabilizzarle. Il problema è che tutto dipende da una vera autonomia finanziaria e gestionale, che le scuole italiane non hanno, perché incatenate dall’attribuzione del tutto verticistica degli organici e da vincoli di ogni sorta imposti dal Ministero dell’Istruzione. Il documento propone di allentare leggermente il primo aspetto, tramite il cosiddetto “organico funzionale”, introdotto grazie all’assunzione dei precari: in ogni provincia, ci sarà un certo numero di docenti in sovrannumero, tra i quali le scuole potranno scegliere dei docenti per rispondere alle proprie esigenze. Come ho già detto nel primo intervento di questa serie, questa è una idea sbagliata di organico funzionale, perché divide l’organico in due: una parte (maggioritaria) che viene assegnata alla solita maniera, dall’alto e con i consueti meccanismi rigidi di formazione delle cattedre; e una parte (minoritaria), in cui i docenti sono come dei jolly, da utilizzare un po’ dove e come capita. Un vero organico funzionale dovrebbe prevedere per ogni scuola una corrispondenza non rigida tra le classi e i docenti, in modo che poi ogni scuola, sulla base di una vera autonomia, possa scegliere come distribuire il lavoro tra i docenti. Finché sarà il Ministero a decidere dall’alto come si distribuisce la quantità di lavoro tra i docenti, l’autonomia organizzativa non esisterà. Inoltre, non si fa parola dell’autonomia finanziaria, che ora esiste solo per mettere delle pezze alle inadempienze del Ministero (ritardi nei pagamenti, insufficienza dei finanziamenti ecc.). Né c’è una minima analisi dell’autonomia didattica, cresciuta in una confusione di attribuzioni inverosimile. Faccio un solo esempio, per capirci: si lasciano alle scuole decisioni che dovrebbero essere unitarie su tutto il territorio nazionale, come la natura scritta o orale dei voti conclusivi di una disciplina, e poi le indicazioni nazionali (i “programmi”) sono piene di “contenuti imprescindibili” che, se presi alla lettera, paralizzano le scelte didattiche del docente.

Ci sono poi diversi aspetti che riguardano gli assetti di governo della scuola. In primo luogo, si auspica una revisione degli Organi Collegiali, per renderli più funzionali. Tutto giusto: è dal 1999, cioè da quando è entrato in vigore il Regolamento dell’autonomia scolastica e i presidi sono diventati dirigenti scolastici, che la scuola ha bisogno di una riforma degli Organi Collegiali, per chiarire meglio la divisione delle competenze tra Dirigente, Consiglio di Istituto e Collegio Docenti, per non parlare degli organi di rappresentanza territoriale. Ma il documento si limita a un vago appello a un sistema più funzionale, delineando un rapido quadro delle competenze che di fatto è quello in vigore. L’unica novità che si capisce è che il potere del dirigente scolastico andrebbe rafforzato, ma non si dice come; e il problema, in queste materie, è il come.

Qualcosa di più preciso è detto sul reclutamento dei dirigenti scolastici. Verranno reclutati con un corso-concorso, che si terrà regolarmente. Ma anche questa è una legge già esistente, votata dal governo Letta, che prevede che la formazione dei presidi avvenga alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, a Roma, con un corso annuale cui si accede con un test selettivo. Come sopra, se c’è qualcosa di preciso è solo perché è già legge. Inoltre, il sistema è piuttosto discutibile. Un corso di formazione serio per i presidi ci vuole, siamo d’accordo. Ma che si tenga a Roma, obbligando i docenti più lontani a fare lunghi viaggi, senza prevedere un esonero dall’insegnamento, rende la cosa molto scomoda e iniqua. Bisognerebbe ragionare poi sui contenuti del concorso stesso, sia nel test di accesso che nelle prove conclusive. Nei concorsi già svolti, l’erudizione normativa e burocratica continua a prevalere sulle reali capacità di gestione di relazioni didattiche e lavorative spesso molto delicate. Inoltre, trattandosi di dirigenti di istituzioni scolastiche, la Scuola Nazionale dell’Amministrazione rischia di limitare la prospettiva ai soli aspetti amministrativi, appunto, trascurando quelli didattici. Infine, più in generale, è tutta la figura del dirigente scolastico che andrebbe rivisitata: troppe responsabilità, che richiedono troppe competenze differenziate. Perché non pensare a due figure diverse, una per gli aspetti più gestionali, e un’altra per quelli più didattici?

Altra figura importante per il funzionamento del sistema scolastico, ricordata nel testo: gli ispettori. È positivo che se ne parli, perché la loro presenza e il loro ruolo sono stati nel tempo eccessivamente ridimensionati. Tuttavia, se gli ispettori dovranno avere un ruolo crescente nella valutazione delle scuole anche dal punto di vista didattico, come prevede il Sistema di Valutazione Nazionale, allora il loro profilo andrebbe studiato con più cura. Nel documento si dice solo che dovranno essere di più, e che per diventare ispettore bisogna prima essere stato dirigente scolastico. Ora, questo secondo punto è contestabile. Se gli ispettori devono valutare la didattica, sarebbe meglio reclutarli tra chi ha una lunga esperienza didattica; non è il caso dei presidi, che spesso hanno una carriera più lunga come dirigenti che come docenti. Sarebbe meglio pensare a dei profili diversi di ispettori: chi deve valutare la didattica deve provenire dal corpo docenti, e deve essere formato in maniera specifica; potrebbero essere anche dei docenti in attività, con degli esoneri (anzi, sarebbe meglio). Chi invece deve valutare altri aspetti (per esempio la gestione finanziaria) deve avere una formazione amministrativa, e in effetti dovrebbe avere alle spalle una esperienza da preside.

Ci sono poi nel capitolo una serie di idee generali per la semplificazione burocratica e la trasparenza, tutte buone e auspicabili. Su questo terreno, però, quello che conta non sono le idee quanto le iniziative concrete. Soprattutto, ci vorrebbe una riduzione drastica della proliferazione normativa sulla scuola. Viene proposta al riguardo un’ottima iniziativa: riscrivere il Testo Unico della scuola, che risala ormai al 1994, ed è quindi inadeguato, sia per gli importanti cambiamenti che sono intervenuti nel frattempo (l’autonomia ecc.), sia per le continue innovazioni normative su tutti i terreni che hanno riguardato la scuola in questi vent’anni. La riscrittura del Testo Unico dovrebbe però essere l’occasione per sfoltire enormemente la giungla di leggi disordinate e contraddittorie che riguardano la scuola. È una impresa enorme, ma indispensabile.

In conclusione, questo capitolo è un po’ troppo eterogeneo (comprende anche la connessione wi-fi per tutte le scuole, e la riduzione delle spese delle famiglie per i libri di testo), e molto deludente: è infatti vago nei punti in cui propone effettivamente qualcosa di nuovo, e specifico invece dove ripropone, a volte acriticamente, soluzioni già adottate. I temi trattati invece, autonomia e valutazione, sono così importanti che richiederebbero una discussione molto più attenta.

Programmi e nuove materie di insegnamento. Ma ancora più deludente è il quarto capitolo, avventurosamente intitolato “Cosa si impara a scuola”. Chi legge questo titolo pensa subito a quanto ci sarebbe da ridiscutere nei contenuti dei programmi scolastici, quanto da riflettere sul loro rapporto con la società di oggi, e quanto da rivedere nei metodi didattici. Invece niente. Questo capitolo fa ridere, non trovo altra espressione. Propone solo alcune innovazioni molto marginali e, come dire, “retoriche”. In sintesi, il discorso è questo: l’Italia è un paese di arte, musica e cultura, quindi rafforziamo l’insegnamento della Storia dell’Arte nei bienni delle superiori, e introduciamo Musica nella primaria, oltre a rafforzarla alle medie (sento già i terribili flautini moltiplicarsi in tutto il regno…); i bambini italiani sono obesi, quindi facciamo più educazione fisica nella primaria; le lingue straniere sono indispensabili nel mondo moderno, quindi introduciamo il CLIL, cioè l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica, anche nella primaria e nelle medie (come alle superiori, senza formare dei docenti veramente competenti); l’informatica è importantissima, quindi programmazione informatica (addirittura!) fin dalla primaria; senza l’economia non si capisce niente, quindi economia in tutte le scuole superiori.

Ecco, tutto qui. Certo, alcune di queste cose sono importanti (mi opporrei però fermamente alla programmazione informatica per tutti nella primaria), ma mi sembrano irrilevanti. La vera ragione di questo capitolo si trova nel primo: se assumi tutti i precari iscritti nelle graduatorie a esaurimento ti ritrovi con una quantità di docenti di musica, arte, educazione fisica, informatica e diritto che da qualche parte dovrai mettere. Ed ecco quindi la soluzione.

Francamente, considero tutto ciò una presa in giro. La didattica, soprattutto della scuola secondaria, è il problema della scuola italiana. E questo problema riguarda in primo luogo i contenuti, che noi tutti (docenti, intellettuali, professori universitari, politici) continuiamo a difendere per tradizione, per abitudine, per affetto ecc., ma che sono spesso del tutto inadeguati. Mi limito alle discipline umanistiche. Tutti sappiamo che la quantità di conoscenze contenute nelle indicazioni nazionali (gli attuali programmi) sono eccessive rispetto a quello che si può fare veramente e alla formazione di base da cui partono gli studenti; tutti sappiamo che sarebbe meglio fare di meno e bene, iniziare a selezionare. Inoltre, la linearità dei programmi, impostata in chiave prevalentemente storica, in ogni disciplina, non è più una ovvietà accettata, e pone una enormità di problemi didattici. E poi c’è il grande problema del rapporto delle competenze con i contenuti disciplinari, che non è stato affatto risolto; le competenze sono state aggiunte solo in termini formali. E così via. Ma non c’è niente di tutto questo, nel documento. E poiché manca una riflessione seria su queste cose in Italia, non abbiamo niente da proporre, e possiamo trovarci di fronte così a interventi marginali e improvvisati, dettati da esigenze del tutto contingenti, senza che la classe dirigente intellettuale del paese abbia un disegno chiaro da contrapporre. L’unica cosa positiva è che questi interventi sono abbastanza marginali da non creare troppi danni (tranne l’informatica, lo ripeto).