La nuova scuola:
come sarà l’istruzione secondaria?*

Il documento del Governo su “la buona scuola” si fa apprezzare per molti motivi. Manca, però, una proposta di ordinamento complessivo del sistema, in particolare di quello secondario. Necessaria una scelta tra modello comprensivo e duale. E un effettivo rispetto dell’obbligo scolastico e formativo.

Antonio Schizzerotto e Ugo Trivellato, La Voce.info 14.11.2014

UN GRANDE ASSENTE: LA RIFORMA DELLA SCUOLA SECONDARIA

Il documento del Governo su “la buona scuola” si fa apprezzare per molti motivi. Manca, tuttavia, una proposta di ordinamento complessivo del sistema scolastico, segnatamente di quello secondario. Poco male, se ve ne fosse uno chiaramente delineato e plausibile nel merito. Sfortunatamente, la pur ampia produzione normativa di questi ultimi quindici anni è rimasta priva di un chiaro riferimento culturale.

Così l’assetto attuale della scuola italiana è un guazzabuglio, eccentrico rispetto ai due principali modelli di ordinamento presenti in Europa (e non solo).

Il primo − adottato da paesi come la Germania, l’Austria, la Svizzera, l’Olanda – è usualmente (ma anche impropriamente) detto duale ed è caratterizzato da una differenziazione precoce (in pratica, dalla fine delle elementari) e incisiva dei percorsi scolastici, intesa a garantire strette connessioni con il mercato del lavoro. Il secondo modello, spesso definito comprensivo e adottato nei paesi scandinavi e nel Regno Unito, è caratterizzato da una contenuta e posticipata differenziazione degli indirizzi scolastici individuali (a partire dai sedici anni), volta ad assicurare una consistente base formativa comune e l’eguaglianza delle chance di istruzione.

L’Italia è uno strano tertium genus. La canalizzazione è abbastanza precoce: alla conclusione della terza media, ovvero di massima a 14 anni. Nella secondaria superiore esistono quattro grandi comparti: (I) istruzione liceale; (II) istruzione tecnica; (III) istruzione professionale; e (IV) formazione professionale regionale. Tutti questi comparti sono articolati in indirizzi: sei nei licei, undici nell’istruzione tecnica, quattro nell’istruzione professionale, millanta nella formazione professionale regionale. Per di più, molti indirizzi, nella secondaria superiore strettamente intesa, sono ulteriormente suddivisi in percorsi. E la formazione professionale regionale, nell’interpretazione estensiva dell’obbligo formativo datane dalla riforma Moratti, comprende anche l’apprendistato. Quanto ai contenuti, prevale una sorta di “licealizzazione” negli indirizzi tecnici e professionali della secondaria superiore (con scarse interazioni fra scuola e lavoro) e, all’opposto, la sostanziale assenza di una componente scolastica nell’apprendistato.

Nessuna barriera esiste verso la prosecuzione degli studi all’università, se non per la formazione professionale regionale. Ciononostante, la scuola italiana è ben lungi dall’essere comprensiva. L’obbligo scolastico è enunciato fino ai 16 anni, ma di fatto è contratto a 15 per effetto della possibilità di iniziare a tale età l’apprendistato. L’obbligo formativo è fissato a 18 anni, ma appunto può essere assolto nella formazione professionale regionale o nell’apprendistato. E, quel che più conta, solo l’obbligo di frequentare le cinque classi delle elementari e le tre della media inferiore è fatto valere con decente fermezza fino ai 14 anni. Il resto è largamente law in the books, alla quale non corrisponde la law in action; insomma, poco più di una “grida”.

Sul tema dell’ordinamento scolastico il documento del Governo fa trasparire una vaga preferenza per il modello tedesco, con espressioni quali “via italiana al sistema duale”, “affiancare al sapere il saper fare, partendo dai laboratori”. L’unica indicazione circostanziata riguarda la “alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali per almeno 200 ore l’anno”.

Prima di guardare a evidenze empiriche in favore dell’uno o dell’altro modello europeo, è importante sottolineare come l’accostamento di un ipotetico sistema duale italiano a quello tedesco è piuttosto fuorviante.

Il sistema tedesco, con il secondo canale imperniato sull’apprendistato (ma che consente di accedere a livelli di istruzione terziaria, via Fachhochschulen) ben poco ha a che vedere con la tradizione nostrana dell’apprendistato. Là quest’ultimo si configura come un rigoroso canale formativo, con almeno un quarto delle ore dedicato all’istruzione scolastica, impegnativo per le stesse imprese. In Italia, si è imposto essenzialmente come un rapporto di lavoro a basso costo, senza un’apprezzabile componente di formazione strutturata , con un sotto-inquadramento ammesso (e praticato) di due livelli, con oneri contributivi comparativamente molto bassi, senza costi diretti di licenziamento (e solo con la “legge Fornero” con modesti costi indiretti).

EVIDENZE PER ORIENTARSI

Guardiamo ora a essenziali evidenze empiriche, per trarne elementi di giudizio sulla validità dei tre modelli di ordinamento scolastico qui considerati. Vertono su tre aspetti: (I) la completezza e regolarità del percorso scolastico; (II) la sua equità, detto altrimenti l’eguaglianza delle opportunità per i giovani di diversa origine sociale; (III) gli esiti del sistema scolastico sul mercato del lavoro.

Quanto alla completezza e regolarità dei percorsi scolastici, colpisce che in Italia il mancato rispetto dell’obbligo scolastico di dieci anni di corso, stabilito dal 2000 (sia pure con la parentesi del 2003-06), sia ancora decisamente alto, prossimo al 10 per cento (tabella 1), per irregolarità della carriera (bocciature e ripetenze) e tout court per il fenomeno di evasione.

Questo risultato trova conferma nell’incidenza degli early school leavers fra i 18-24enni. Sia prima dell’innesco della crisi economica, nel 2007, sia nel 2013 l’Italia presenta sistematicamente tassi di individui nella fascia d’età 18-24 anni che non sono riusciti ad andare al di là delle medie inferiori più elevati di quelli fatti registrare da Germania, Svezia, Regno Unito e dall’UE nel suo complesso(tabella 2).

Il permanere, anzi il leggero acuirsi del fenomeno della dispersione scolastica durante il ciclo secondario superiore per due generazioni di studenti che lo hanno iniziato entrambe prima della recessione (tabella 3) è un’ulteriore riprova dell’irrilevanza delle riforme della scuola secondaria superiore che si sono succedute, nonché della debolezza delle prescrizioni legislative sull’estensione dell’obbligo scolastico.

Venendo all’equità della nostra scuola, basterà dire che, secondo un recente studio comparativo, l’Italia svetta per intensità dei condizionamenti esercitati dalle origini sociali sulle chance di completare l’istruzione secondaria superiore, seguita da Germania, Regno Unito e Svezia (risultato al quale concorrono, ovviamente, anche le diverse politiche di diritto allo studio). Analoghe osservazioni valgono per la scelta degli indirizzi di studio della secondaria superiore, con i figli delle classi superiori concentrati nei licei (classico e scientifico) e con quelli delle classi inferiori sovra-rappresentati nell’istruzione tecnica e professionale.

Ben maggiori cautele si impongono, naturalmente, in tema di transizione fra scuola e lavoro. Struttura e congiuntura economica contano in maniera decisiva, così come la regolazione del mercato del lavoro. I dati della tabella 4 sono, tuttavia, eloquenti. L’Italia ha un tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) particolarmente alto: nel 2013 tocca il 40 per cento, quasi 10 punti percentuali in più della Svezia, il Paese che la segue.

E il quadro si fa poi ancora più preoccupante se si pone attenzione anche alle persone che non lavorano e sono disponibili a lavorare, ma non cercano attivamente un lavoro perché non hanno ragionevoli aspettative di poterlo trovare. L’incremento del tasso di mancata partecipazione al lavoro (l’indicatore che tiene conto anche di queste ulteriori persone disponibili) rispetto al tasso di disoccupazione varia nei diversi paesi: è esiguo in quelli in cui la domanda di lavoro e, specificamente, il sistema di protezione sociale inducono quasi tutti i disponibili a compiere azioni di ricerca attiva e quindi a rivelarsi come disoccupati; è alto in sistemi sociali privi di un welfare adeguato e che sono in una fase ciclica negativa. Ebbene, la tabella 4 documenta una polarizzazione fra l’Italia, dove nel 2013 il divario fra il tasso di mancata partecipazione al lavoro e quello di disoccupazione sfiora i 15 punti percentuali, e gli altri tre Paesi, nei quali tale divario non raggiunge i 4 punti. E sulla peculiarità italiana incide anche una scuola che, per il suo sostanziale immobilismo, ha visto progressivamente ridotta la sua capacità di seguire le trasformazioni del lavoro.

 

RIPENSARE ALL’ORDINAMENTO DELLA SCUOLA SECONDARIA

La “buona scuola” non può dunque sottrarsi all’impegno di un profondo ripensamento della secondaria. A nostro parere, dovrebbe avvenire secondo tre direttrici di massima.

  • Preferenza per un sistema comprensivo, perché assicura maggiore trasmissione di competenze trasversali e maggiore equità (ed è meno costoso di un serio sistema duale, quale quello tedesco). Del resto, proprio in Germania il sistema duale è stato aspramente criticato e sono in atto interventi per attenuare la canalizzazione precoce degli studenti.

  • Piena omogeneità formativa garantita da un obbligo scolastico di durata decennale, dove quest’ultima è definita in termini di anni di scolarità completati (al netto, cioè, di eventuali ripetenze) e non di età anagrafica. Non si tratta, evidentemente, di aggiungere alla scuola media inferiore uno o due anni, dovunque spesi (com’è nelle prescrizioni di oggi), ma di ripensare i cinque anni successivi alla scuola elementare disegnando un percorso coerente e un traguardo formativo compiuto. In questo quadro, va previsto che lo studente possa personalizzare, entro limiti, il curriculum dell’ultimo anno. Il ciclo si conclude con una “licenza dell’obbligo scolastico” che rimpiazza l’attuale licenza media.

  • Per il triennio secondario conclusivo, distinzione fra un ramo accademico e uno tecnico, che al loro interno vedano una drastica riduzione degli indirizzi e dei percorsi in favore di una sensata possibilità di scelte da parte dello studente nella definizione del curriculum. In quest’ottica, è ragionevole mirare alla graduale abolizione degli istituti professionali. Per un altro verso, è opportuno che la formazione professionale regionale confluisca nell’insieme degli interventi di politica attiva del lavoro, con funzioni di (re)-training.

Il tutto va, naturalmente, contornato dalle scelte in favore della “autonomia, valutazione, trasparenza, apertura” prospettate nel documento del Governo e da efficaci politiche di orientamento scolastico e di diritto allo studio.

 

 

* Gli autori fanno parte di un gruppo di ricerca di Irvapp-Fbk, istituto di ricerca che si occupa di valutazione delle politiche pubbliche (https://irvapp.fbk.eu/). Fanno parte del gruppo di ricerca Antonio Schizzerotto, Erich Battistin, Daniele Checchi, Carlo Fiorio, Enrico Rettore ed Ugo Trivellato.