Difficile recuperare il tempo perduto: secondo uno studio dell’Ocse non succede quasi mai. Almeno tra i banchi. Quello che non si sa a quindici anni, informa l’organizzazione che ha messo a confronto le graduatorie relative alle competenze alfabetiche e matematiche dei 15enni con quelle dei 26-28enni, non lo si impara, poi. I vantaggi registrati dai sistemi Paese relativamente ai 15enni, si modificano nel corso del tempo? I teenager con i punteggi più alti ai test Pisa, li mantengono tali anche dopo i 20? E gli studenti di nazioni in fondo alle classifiche, si mettono, poi, alla pari con i colleghi più bravi? O, invece, il gap aumenta? A queste domande ha dato risposta l’ultimo dei focus Ocse, incrociando i risultati di due importanti rapporti, il Pisa, appunto (anno di rilevazione 2000), e l’ultimo Piaac (2012) relativo alle competenze degli adulti (16-65 anni) di 16 Paesi di Europa, America e Asia che avevano preso parte alle rilevazioni. Per questo confronto, le fasce d’età di adulti prese in esame sono quelle dei 23-25 anni e dei 26-28.
I problemi partono da lontano
Gli italiani, va detto subito, escono decisamente male, in dati assoluti e nel confronto, a dimostrazione del fatto che i problemi della scuola italiana partono da lontano e conservano effetti negativi nel tempo.
Italia sotto
Confermata la relazione positiva tra i punteggi registrati da quindicenni e dodici anni più tardi. Con le posizioni migliori saldamente in mano a Finlandia, Giappone, Corea e Svezia e le peggiori occupate, sia prima che dopo, da Italia, Austria, Germania, Polonia e Spagna. Una relazione che però non sottostà a un determinismo rigido: proprio in Italia (ma anche in Spagna) i quindicenni, vicini alla media dei colleghi nel 2000, in lettura, sono franati ben sotto la media appena dodici anni dopo. Peggio di noi l’Irlanda, con un analogo movimento, partito sopra la media e arrivato nettamente sotto. In Canada, si è visto che i livelli di conoscenza tendono a convergere, ma lo svantaggio non viene colmato. E in Danimarca, gli individui testati hanno confermato esiti di medesimo segno, ma almeno un quarto dei migliori, al secondo round di test, è andato meglio e almeno un
quarto dei peggiori è andato decisamente peggio.
Prima si studia
La lezione che si impara è che i sistemi scolastici devono assicurare il massimo di conoscenze ai loro giovani prima che completino l’istruzione obbligatoria: matematica, scienze, lettura, comprensione sono materia di studio fino alle superiori; dopo, si punta a competenze più pratiche o specialistiche. Università e formazione professionale non sono adatti a compensare un bagaglio di conoscenze insufficiente.
Usare le competenze
E ai governi arriva un doppio messaggio: occorre moltiplicare gli sforzi per elevare le conoscenze di base dei cittadini, concentrandoli sui primi cicli di scuola e cercando di ridurre il numero di quelli che abbandonano gli studi, o li portano a termine con risultati modesti. E poi che dopo aver coltivato abilità bisogna usarle, perché quelle inutilizzate, si perdono. Anche i sistemi che riescono a formare i propri studenti al meglio, quindi, hanno enormi responsabilità: devono vigilare perché le capacità non vengano disperse. Oltre un certo livello di istruzione, nel gioco deve entrare anche un efficace sistema di educazione degli adulti, e politiche del lavoro o sforzi degli imprenditori perché la bravura maturata nel tempo venga impiegata regolarmente. Se no si squaglia, come un mucchietto di neve nascosto sotto una coperta.