La cercan qua, la cercan là,
ma “la buona scuola” dove mai sarà?
di Giovanni Fioravanti, Educazione & Scuola 24.11.2014
Della ‘buona scuola’ condivido alcune affermazioni con le quali viene introdotto il progetto del governo. Quando si sostiene che è necessario uscire dal «si è sempre fatto così», che è necessario pensare in grande, penso che significhi ‘con coraggio’, che dobbiamo rivedere le categorie di pensiero finora usate a proposito del ruolo della scuola, infine entrare nel merito di quello che si fa e avviene nelle nostre scuole. Dovrebbero essere i titoli di altrettanti capitoli, ma la promessa iniziale si riduce a una sola petizione di principi, che non trovano alcuno sviluppo nello scorrere le 130 pagine che vi fanno seguito.
Sperare in un programma ambizioso, quasi radicale, ma soprattutto lungimirante, pare uno specchietto per allodole, un invito a leggere il progetto del governo che di tutto si occupa, fuorché di quello che aveva promesso in apertura.
Allora vorrei provare a scrivere in breve, dal mio punto di vista, i quattro capitoli che mancano, che l’estensore si è scordato di trattare, perché preso a occuparsi d’altro.
Capitolo 1. Uscire dalla “confort zone”, dal si è fatto sempre così.
Intanto l’invito ad abbandonare la tranquillità della routine è un invito erga omnes o rivolto a qualcuno in particolare? In mancanza di indicazioni che ne consentano l’interpretazione corretta, voglio intenderlo rivolto a tutto il paese, a partire dai suoi governanti.
A proposito di sistema scolastico, per come noi lo conosciamo, si tratta di una invenzione piuttosto recente, diffusa per lo più nelle nazioni industrializzate, poco più di un secolo e mezzo fa, che considerato nell’arco della storia dell’umanità, supera di poco lo 0,3%.
Prima che apparissero le scuole, l’apprendistato era il mezzo più comune di apprendimento per trasmettere le conoscenze esperte in settori come le arti, la medicina e la giurisprudenza. Del resto quanta parte dei saperi necessari alla nostra esistenza sono appresi informalmente, con metodi non dissimili dall’apprendistato, attraverso osservazioni, tentativi per prove ed errori, ricorrendo all’assistenza dei più esperti.
Coniugare tecniche scolastiche e vantaggi dell’apprendistato, già sarebbe un modo nuovo di pensare e di procedere. Nel merito non ci mancherebbe il conforto di una vasta letteratura e di esperienze sull’argomento a cui poter attingere idee e pratiche. Il pensiero mi corre, per fare un esempio, all’ «apprendistato cognitivo» di Allan Collins, John Seely Brown e Susan Newman. Ma perché negare che pure il più recente ‘knowledge management’ potrebbe fornire utili spunti e indicazioni, soprattutto nella direzione di rendere tutti ugualmente esperti gli elementi di un sistema, in questo caso il sistema formativo.
Se si volesse percorre questa strada come dovrebbe cambiare la nostra scuola?
Innanzitutto credo che dovrebbe somigliare più a un insieme di botteghe che di classi. La sintesi tra bottega e classe fa subito pensare al laboratorio e, quindi, uscire dal ‘si è sempre fatto così’ della tradizionale lezione, per apprendere a manipolare e produrre ‘artefatti cognitivi’, praticare i saperi nel risolvere problemi, nel costruire situazioni sempre nuove, per mettere alla prova le abilità apprese. Luoghi di fermento cognitivo ma anche operativo, di intelligenza pratica ed esperta, luoghi dove le competenze, queste sconosciute, si praticano e si agiscono calandole nella realtà.
Ma due questioni si pongono: ripensare l’edilizia scolastica, ripensare la formazione dei docenti.
Insieme a queste, abbandonare ‘la confort zone’ significherebbe cancellare dall’immaginario collettivo i topos scolastici della cattedra e dei banchi, delle classi, dei voti e dei registri, le interrogazioni, i compiti in classe e le bocciature.
Il guadagno consisterebbe nel restituire alla scuola il compito di coltivare l’intelligenza e il pensiero delle persone, la dignità del saper fare, in definitiva di non tradire la vita reale di ogni ragazza e di ogni ragazzo.
Capitolo 2. Il rischio più grande è continuare a pensare in piccolo, a restare sui sentieri battuti degli ultimi decenni.
Tra il piccolo e il grande intercorre una vasta gamma di gradazioni, e uscire dai sentieri battuti negli ultimi decenni costa. Cosa di non poco conto per un paese indebitato come il nostro.
Sarebbe sufficiente avere un pensiero forte e di lungo respiro.
Sarebbe sufficiente avere un programma di investimenti che ci permettesse di recuperare il divario che i sentieri citati ci hanno fatto accumulare nei confronti delle altre nazioni. Intanto nei livelli di apprendimento e di competenza, non solo di chi è in età scolare, ma anche e soprattutto nei confronti della popolazione adulta.
La prima domanda da porsi è se ha ancora senso affrontare il tema dell’istruzione, a partire da quella scolastica, in una prospettiva che non sia quella dell’apprendimento per l’intera vita, dalla culla alla tomba.
La ‘buona scuola’ all’istruzione degli adulti neppure accenna, come se ancora ci fosse un’età dello studio, una del lavoro e infine della pensione. Già questo dovrebbe suggerire agli estensori del documento la scarsa dimensione dei loro pensieri. Per non parlare del silenzio, del buio profondo sull’istruzione prescolastica.
Chiedo se da pensare in grande è solo la scuola o il diritto all’istruzione di ogni persona?
E se questo è il tema, come ritengo, la prospettiva da assumere può ancora essere quella scuolacentrica?
Si può ancora insistere su un’idea di istruzione a una sola dimensione, quella della scuola?
E tutti gli altri contesti dove avviene l’apprendimento, sono per sempre condannati ad essere ‘informali’ o ‘non formali’?
Nell’epoca delle reti ancora abbiamo difficoltà a far rete con le opportunità formative offerte dai nostri territori, con la vita delle persone. Non è forse questo uno spreco di risorse che non ci possiamo più permettere?
Lo studio, l’impegno, l’istruzione appresa al difuori dei percorsi scolastici e accademici sono solo da relegare in una sorta di ‘scholè’ greca, di acquisizioni relegate al tempo libero delle persone e, quindi, non degne di assurgere a saperi certificati?
Forse cessare di pensare in piccolo significa avere delle idee su tutto questo. Pensare come dare riconoscimento e peso alle competenze che le persone, piccole o grandi che siano, oggi possono acquisire in un mondo che, contrariamente al passato, quando furono inventate le scuole, è ricco di opportunità di apprendimento e di formazione.
Non si può tutte le volte partire da zero, annullare la storia del sapere delle persone. Purtroppo lo facciamo con chi immigrato nel nostro paese non è in grado, perché troppo economicamente oneroso, di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nel paese di origine. È come se i nostri apprendimenti non scolastici e non accademici appartenessero ad un’altra terra da cui dobbiamo emigrare per varcare la soglia dell’istruzione ufficiale.
Se c’è un’espressione che denuncia i pensieri piccoli che hanno segnato i recenti decenni, è quella dei ‘livelli essenziali di apprendimento’. Una sorta di avarizia dell’istruzione.
Pensare grande significa garantire ad ogni singola cittadina, ad ogni singolo cittadino il raggiungimento dei massimi livelli di istruzione possibili. Perché non esiste una misura del sapere, l’ansia della sua conquista, della sua necessità ci accompagna per tutto l’arco della nostra esistenza.
Capitolo 3. Abbiamo bisogno di ridefinire il modo in cui pensiamo, formiamo e gestiamo la missione educativa della scuola.
Pensare, formare, gestire la missione educativa della scuola. Nessuna delle parole che compongono questa proposizione mi piace. Le trovo anacronistiche, fuori dal tempo perché potrebbero appartenere a un tempo qualunque.
Ne colgo però l’intento, buono, positivo: ciò che noi ci proponiamo di conseguire attraverso la scuola necessita di essere ripensato.
Allora partiamo da ‘missione educativa della scuola’. Perché già questo è un pensiero.
La missione è un compito, è un incarico, quindi al nostro sistema scolastico è affidata una funzione specifica che sintetizziamo in ‘educare’.
Si tratta di rivedere i nostri pensieri, le nostre concezioni intorno a questa funzione, che forma essa assume e come deve essere condotta.
Potremmo partire dalla domanda elementare che si pongono i bambini, ‘a cosa serve andare a scuola’? La risposta ovvia degli adulti è ‘a imparare’.
Quando ero bambino io, quel ‘imparare’ mi faceva venire alla mente il mettermi alla pari, essere come gli altri miei coetanei. Non ne conoscevo l’etimologia, del resto la scuola non mi ha mai offerto l’occasione di scoprirla, che è invece ’procurare’. La scuola è il luogo in cui ci si procura il sapere.
Noi oggi usiamo l’espressione ‘imparare ad imparare’, perché il sapere è dinamico, non sta mai fermo. Il diritto allo studio non è più condividere il sapere, ma sapere come sapere, conoscere come conoscere, apprendere ad apprendere. Non so se questa è ‘la missione educativa della scuola’, certo è la sua funzione. Attrezzare le nuove generazioni con tutti gli strumenti della conoscenza.
Per cui la scuola così pensata, va costruita e organizzata.
È il luogo in cui bambine e bambini, ragazze e ragazzi vengono condotti a conquistare la sommità della piramide della conoscenza che dalle nozioni, ai saperi disciplinari, giunge alla ‘saggezza’.
‘Saggezza’ potrà anche apparire un termine desueto per i nostri tempi, ma è il solo corretto per definire in sintesi l’esito a cui dovrebbe traguardare ogni sistema formativo. Prendendo in prestito la definizione che ne dà il dizionario di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, ‘saggezza’ è «L’equilibrio nel comportamento e nel consiglio, che è frutto di una matura consapevolezza ed esperienza delle cose del mondo». Mi sembra che, se proprio di ‘missione educativa’ vogliamo parlare, nulla di meglio la possa sopravanzare.
Una scuola che non sia in grado di condurre i suoi utenti a questo risultato, una scuola che si arresti al piano dei saperi, come è ancora, nella stragrande maggioranza dei casi, la nostra scuola, non solo fallisce la sua missione educativa, ma non assolve neppure alla sua funzione.
Di fronte all’economia della conoscenza, di fronte all’economia del capitale umano che ci sono imposti dalla Banca mondiale e dall’OCSE, c’è un’alternativa, c’è un’altra strada che il nostro paese può decidere di intraprendere, ed è qui che si misura se davvero sapremo ridefinire il modo in cui pensiamo, formiamo e gestiamo la missione educativa della scuola.
L’istruzione non può mai essere estranea nelle sue finalità all’interesse di chi ne intraprende il viaggio qualunque ne sia l’età. Non può essere pensata per un obiettivo che travalichi la persona, per una visione utilitaristica della società e dei suoi mercati.
Ecco perché la ‘saggezza’, perché il fine si fa intrinseco alla persona, alla sua crescita. Perché al servizio della dignità, della libertà, dell’autonomia e del progetto di vita dei nostri giovani.
Temo che questo capitolo necessiterà ancora di molti anni prima di poter essere scritto, soprattutto perché, per poter pensare nuovo, diverso da prima, è necessario sgombrare la mente dai condizionamenti, dai biases, direbbero gli esperti, in particolare quelli che ci sono imposti dalla congiuntura internazionale.
Capitolo 4. Cosa si impara a scuola o come le nostre scuole sono gestite.
Forse il titolo di questo capitolo, che tuttavia pone la questione fondamentale dell’insegnamento, è improprio. Con ogni probabilità se ne può sintetizzare il senso riformulandolo in “Come si impara a scuola”.
Per molti l’esperienza dell’apprendimento scolastico è in solitaria, come se si scalasse la parete di una montagna.
La dimensione individuale domina generalmente le prestazioni richieste dalla scuola, anche se punteggiate da occasionali attività di gruppo, cooperative learning, scaffolding, brain storming che fanno bella mostra di sé nelle programmazioni dei docenti, i quali, per la loro stessa formazione, che ripercorre le orme di quella scolastica, poco hanno dimestichezza con la loro pratica.
I dati confermano il prevalere della lezione frontale. Il lavoro degli alunni è individuale: interrogazioni, esercizi in classe, compiti a casa, in definitiva gli studenti sono giudicati per quello che sanno fare da soli. Una comunità di apprendimento formata da tante monadi.
La vita però delle persone non funziona così, né a casa, né nel lavoro. L’apprendimento fuori della scuola è ricco di interazioni, di strumenti a cui si può ricorrere all’occorrenza, gli ingredienti che si miscelano sono tra i più vari. Tanto che il senso comune ritiene l’apprendimento scolastico lontano dalla vita reale.
È questa discontinuità, questa separatezza, questo isolamento dal mondo di fuori il nucleo che deve essere aggredito, se vogliamo per davvero riformare l’insegnamento. Così come la cronica incapacità di portare a sintesi le due culture, quella umanistica e quella scientifica, che continuano a convivere in un complessivo sbilanciamento della nostra formazione scolastica.
A partire dalle regole del “gioco della scuola” che poggiano sul pensiero puro e astratto, sulla semantica del solo lessico simbolico, spesso mettendo al bando, salvo nei casi certificati, ogni supporto strumentale.
Imparare a pensare e a operare, la confidenza con il problem solving nella scuola non si incontrano mai. Il pensiero è quello che promana dalla voce dell’insegnante e dai libri di testo, il fare è ripetere regole e principi teorici, per poi esercitarsi su di essi.
L’abbiamo già detto, il passaggio dalla classe al laboratorio cambierebbe i ruoli degli attori, in tanto da passivi a attivi, modificherebbe le interazioni e i processi, il sapere non sarebbe fine a se stesso, ma verrebbe praticato nel saper fare. Quell’operare e ricercare che ci accompagnano nel mondo reale, negli apprendimenti della vita, farebbero il loro ingresso a pieno titolo nella scuola, con il vantaggio di rendere famigliari quelle conoscenze che, per come vengono proposte dalla scuola, sembrano abitare un pianeta che non ci appartiene.
È la concezione dell’ambiente di apprendimento come luogo in cui si esercitano non la ripetitività dei saperi, ma l’applicazione, la ricerca, il pensiero critico, la creatività e la produzione. Nulla di nuovo, forse, l’abbiamo sempre detto, però continuando a perseverare nelle nostre tradizionali pratiche d’aula, che hanno finito per dare sepoltura a tutto ciò.
E già, perché se non si prende a mano seriamente il superamento della classe come luogo anonimo e indifferente di apprendimento, per dar vita ad ‘ambienti dedicati’, funzionali a ciò che si vuole apprendere – l’aula di lettere non può essere la stessa di matematica – nessun pensiero critico, creativo, produttivo, nessun apprendistato cognitivo potrà mai essere realizzato. Mai l’extrascuola entrerà nella scuola. Spazi, ambienti, tempi, flessibilità sono la chiave di ‘cosa si impara e di come le nostre scuole sono gestite’. Il tradizionale gruppo classe verrebbe superato e sostituito da gruppi mobili, eterogenei al proprio interno per interesse, motivazione, livelli di competenza. L’insegnante finalmente assumerebbe quelle funzioni prevalentemente di regia, di guida, di tutoring intelligente e di supervisione, di cui tanto inutilmente si continua a dissertare.
Su cosa si impara a scuola ci sarebbe ancora molto da dire. E se ci fosse davvero la volontà e il coraggio di affrontare questo terreno, sarebbe opportuno interrogarsi se tutte le attività che la scuola è chiamata a svolgere, sia proprio necessario perseguirle sempre ed esclusivamente al suo interno. Se solo la scuola è chiamata a fornire legittimità agli apprendimenti. Se forse non sarebbe più vantaggioso, innanzitutto per gli alunni, delegare discipline come, solo per avanzare un esempio, l’educazione motoria e la musica, ma ce ne sarebbero anche altre, a strutture più competenti che operano in modo qualificato sul territorio, creando un sistema formativo, che, superando l’ormai noiosa questione del pubblico e del privato, permettesse di costruire un sistema in rete, mantenendo il fulcro nella scuola. Una scuola che vive e cresce non perché opposta
all’extrascuola, ma perché finalmente una ‘scuola-extra’, capace cioè di procedere oltre se stessa.