Punto primo: l’Europa è, storicamente, un’entità multilingue sia pure con importanti spinte di convergenza. Punto secondo: la questione della lingua in Europa non riguarda solo gli aspetti istituzionali e burocratici, ma è una questione di democrazia, perché è difficile costruire una grande comunità politica democratica se i suoi cittadini non dispongono di una lingua comune. Punto terzo: come tale, la questione linguistica è un problema che riguarda la cultura e che investe la scuola. Punto quarto: gli Stati e l’Ue nel suo insieme se ne disinteressano totalmente. Sono queste, a grandi linee, le tesi che Tullio De Mauro espone nel suo libro, In Europa son già 103 , in uscita per Laterza. Sottotitolo: Troppe lingue per una democrazia? . Con i suoi 82 anni portati appassionatamente, in poco più di 80 pagine, coniugando leggerezza e profondità, De Mauro affronta cronologie, mutamenti, contaminazioni, aspetti geopolitici. Senza dimenticare il caso italiano, per molti aspetti esemplare.
Professore, perché la questione della lingua in Europa è diventata
cruciale?
«Se la prospettiva verso cui vogliamo andare è quella di una
federazione di Stati, bisogna che ci sia, come già Aristotele
insegnava, un terreno linguistico comune. Non è possibile che uno
svedese e un napoletano discutano di politiche finanziarie in lingue
diverse. E non è possibile delegare la discussione a un’élite
ristretta».
Il guaio è che il multilinguismo, come lei mostra nel libro, è un
tratto distintivo europeo. Come si può conciliare questa storia con
l’aspirazione unitaria?
«Le due cose non si escludono. Ricordo che l’aspirazione all’unità
nazionale, statale, intorno all’italiano è stata un filo conduttore
della nostra storia. Tanti, compreso qualche linguista, pensavano
che l’unità linguistica, raggiunta negli anni Sessanta, avrebbe
spazzato via i dialetti, ma non è successo: oggi, dopo
cinquant’anni, i dialetti sono ancora vivi. Così, adottando
diffusamente una lingua comune in Europa, non è prevedibile che
vengano lese le lingue nazionali radicate nella storia e nella
cultura».
Lei si sofferma sulle affinità genetiche tra le lingue indoeuropee,
sulla prossimità grammaticale e lessicale. Questo cosa significa?
«Già il linguista francese Antoine Meillet diceva, a proposito del
vocabolario, che a dispetto dei nazionalismi miopi, tra le lingue
europee c’è un fondo comune molto superiore alle differenze, che si
è creato grazie a una rete fitta di condivisioni. E lo stesso
Leopardi nello Zibaldone scrisse che guardando al vocabolario della
cultura intellettuale, ci si accorgerebbe che esiste una specie di
“piccola lingua” che accomuna, nelle diversità, tutte le lingue
europee e che deriva in gran parte dal latino e dal greco. Il
vocabolario inglese oggi è composto al 75% di prestiti dal francese
o direttamente dal latino. Ci sono consonanze profonde. L’inglese è
tutt’altro che vuoto di spessore culturale, e qualcuno l’ha definito
una lingua neolatina ad honorem. Anche per questo sostenere che la
sua adozione cancelli le identità nazionali è sbagliato».
Resta il problema della scuola, che in Italia ha già difficoltà a
tenere un accettabile livello di formazione nella lingua materna.
«L’insegnamento della lingua materna resta prioritario. Ma il dato
più preoccupante riguarda la popolazione adulta. Anche in Germania o
nei Paesi del Nord (e persino negli Stati Uniti) più della metà
della popolazione ha gravi difficoltà nel leggere e capire un testo
semplice o nell’adoperare banali strumenti di calcolo. In Giappone e
in Finlandia si arriva al 38%, in Italia si supera il 70. Direi che
è un dato costante l’alto tasso di problemi nell’uso completo delle
lingue materne: appena uscite dalla scuola, le persone finiscono per
perdere ogni capacità».
Dal documento del governo sulla «Buona Scuola» si intravedono
segnali in questo senso?
«Semplicemente la “Buona Scuola” ignora il problema linguistico e
non fa alcun cenno alla dimensione dell’istruzione degli adulti, che
è cruciale per la vita produttiva e per la vita sociale, perché
ricade necessariamente sui figli. Una cosa è sicura: il livello di
cultura sostanziale in famiglia è determinante sull’andamento
scolastico dei ragazzi. Di istruzione degli adulti parlava la legge
Berlinguer del 1999, ma da allora è rimasto tutto sulla carta».
La detrazione fiscale sui libri potrebbe servire?
«Se ne parla da anni, i tecnici temono che diventi una fonte di
microevasione, ma sarebbe certamente utile, anche se ormai una pizza
costa più di un Meridiano».
Al di là della questione lingua, la «Buona Scuola» come le sembra?
«Lasciamo stare la sovrabbondanza di anglicismi persino ridicoli
tipo “gamification”... In sé è un documento accattivante, c’è
un’atmosfera scherzosa, nello stile di Renzi, piacevole, con
contenuti bizzarri. Io non voglio buttarla sul tragico, ma i
problemi della scuola purtroppo lo sono: le strutture edilizie, le
lacune del personale tecnico, il rapporto con il mondo del lavoro,
le prospettive didattiche... Bisognerebbe rimettere mano
all’impianto della scuola media superiore, formare gli insegnanti,
che hanno ancora una visione disciplinarista e che invece dovrebbero
collaborare tra di loro in funzione di una prospettiva trasversale,
sul saper ragionare, argomentare, parlare... La “Buona Scuola” tace
su questi argomenti, ma in compenso ne parla la finanziaria, che
continua a tagliare sulla scuola, per non dire dell’università che è
prossima a defungere».
Cosa pensa del Clil, cioè quel metodo che prevede l’insegnamento di
una disciplina in lingua straniera?
«Va usato con parsimonia. È già difficile avere dei buoni insegnanti
di storia, figurarsi averne pure che parlino bene inglese. Diciamo
che è un metodo auspicabile per alcuni insegnamenti universitari, ma
per gli altri livelli mi pare poco realizzabile».
La «Buona Scuola» vorrebbe estendere il Clil alle elementari.
«La riforma Gelmini prevedeva corsi di formazione inglese, per
insegnanti, di 30 ore faccia a faccia e 20 ore via internet: ma con
50 ore complessive non si arriva neanche all’Abc. Le primarie sono
le scuole in cui si lavora meglio, in cui le discipline sono
strumentali alla maturazione complessiva del bambino. Nei test
internazionali i nostri si collocano al vertice: toccare le
elementari sarebbe un delitto, perché i guai cominciano dopo. Le
analisi Invalsi mostrano che tra i ragazzi usciti dalla media di
base e i maturandi lo scarto di competenze è minimo».
L’iniziativa del Politecnico di Milano di adottare solo l’inglese
per gli insegnamenti di master la convince?
«No, neanche nei master si può rinunciare alla lingua materna. Nel
mondo ci sono masse di studenti che si spostano, sono i nuovi
clerici vagantes : ma è difficile pensare che dei giovani trovino
suggestive le università italiane perché offrono corsi in inglese.
Quel che conta sono altri fattori: la qualità scientifica e le
condizioni dell’accoglienza, ma questi aspetti vengono ignorati».