Essere secchioni premia più del talento i tratta di una variabile visibilmente trascurata dai ragazzi italiani e che, a leggere gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio Ocse-Pisa, potrebbe contribuire a fare la differenza nella scuola italiana di Gianna Fregonara, Il Corriere della Sera 12.3.2014 Steve Jobs la chiamava «fame», in italiano si potrebbe dire «impegno», i ricercatori dell’Ocse l’hanno misurato come hard work. Nello slang degli studenti, è l’essere «secchione», per i quindicenni meglio tradotto in nerd. Si tratta di una variabile visibilmente trascurata dai ragazzi italiani e che, a leggere gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio Ocse-Pisa, potrebbe contribuire a fare la differenza nella scuola italiana almeno quanto i tablet , le lavagne elettroniche, la lezione non-frontale e tutte le innovazioni di cui si sente comunque il bisogno: si tratta dello studio. Essere secchione non solo è faticoso ma, si sa, non è neppure cool , l’impegno stanca e studiare anche, meglio affidarsi al talento, come da modelli televisivi e non solo. O a un colpo di fortuna, aprendo il pacco giusto che ti cambia la vita. Lo pensa la stragrande maggioranza degli studenti italiani. Alla domanda «studiando molto potete avere risultati migliori in matematica?», solo uno studente su dieci risponde che studiare, impegnarsi, possa portare a migliori risultati. Il resto è appunto talento, fortuna, caso. O spintarella. Inutile a questo punto aggiungere che nei sistemi scolastici migliori del mondo i ragazzi considerano lo studio e naturalmente il riconoscimento dello sforzo come una parte importante del loro impegno. Finlandia, Polonia, Canada per non dire i Paesi dell’estremo Oriente, ma anche gli inglesi e gli americani pensano che per riuscire bisogna impegnarsi ed essere un po’ secchioni. Solo argentini, colombiani, costaricani e albanesi sono più pigri di noi. Eppure i nerd alla fine e silenziosamente riescono anche in Italia. Anche se meno di quel che potrebbero, come dice il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che considera il sistema delle nostre imprese penalizzante nei confronti dei laureati. Nell’ultima rilevazione Almalaurea sull’occupazione dei neo-laureati si legge che a cinque anni dalla fine degli studi il 90 per cento dei dottori ha un lavoro. Un percorso troppo lento e magari incerto, figlio non solo della crisi. Ma nettamente più felice di quanti, considerandosi senza talento e dunque predestinati a una vita da mediani o a un colpo di fortuna (o ad una spinta), hanno deciso di lasciar stare magari dopo il diploma. |